Nel turbinio dei sommovimenti sociali e politici degli anni Settanta,
l’Autonomia è riuscita a mettere insieme Marx con l’antipsichiatria,
la Comune di Parigi con la controcultura, il dadaismo con l’insurrezionalismo,
l’operaismo con il femminismo e molto altro con molto altro ancora. Ma,
soprattutto, nel suo agire l’Autonomia ha rappresentato una discontinuità
profonda con le pratiche del Movimento operaio ufficiale. Essa non è
stata un’organizzazione, bensì una molteplicità che si organizzava
a partire da dove viveva, da dove lavorava o studiava. Nell’Autonomia hanno
infatti convissuto tante specifiche autonomie: degli operai, degli studenti,
delle donne, degli omosessuali, dei prigionieri, di chiunque scelse – a
partire dalle proprie contraddizioni – la via della lotta contro il lavoro
salariato e lo Stato, la via della sovversione della vita.
Se il Movimento degli anni Settanta finì per soccombere alle
forze congiunte della macchina statale e del Partito comunista, la storia
dell’Autonomia è quella di un’avventura rivoluzionaria la cui incandescenza
è più che mai attuale.
Dalla postfazione all’edizione italiana
[...] I movimenti autonomi ci hanno mostrato che il dispiegamento della
negatività non è la «prefazione» del futuro.
Questo significa che la furia della rivolta non è separata dall’intelligenza
che costruisce la possibilità di vivere altrimenti. La cooperazione
che vive nel sabotaggio della metropoli è la stessa che è
capace di costruire una comune. Saper innalzare una barricata non vuol
dire molto se allo stesso tempo non si sa come vivere dietro di lei. Abbiamo
tanto da imparare, in un senso come nell’altro.
Gli affetti che circolano tra dei compagni e delle compagne non sono
suddivisi tra un dentro e un fuori: si dispiegano e si inclinano a seconda
delle situazioni che sono in grado di vivere. Una situazione rivoluzionaria
è quella situazione in cui disarticolazione dell’ambiente nemico
e frammenti di comunismo circolano anarchicamente, in cui vibra un’intensità
capace di concentrarsi su di un azione offensiva alla stessa maniera in
cui fa avanzare l’abitabilità di un mondo. La situazione rivoluzionaria
allora non è solamente ciò attraverso cui si contorna meglio
l’oggetto delle ostilità, ma è ciò che fa sì
che l’amicizia ridiventi finalmente un concetto politico.
La retorica antagonista sul «ritorno nei territori» è
insopportabile: non esiste nessun territorio a prescindere dalla capacità
di lotta, così come non esiste capacità di offensiva senza
la presenza di basi materiali. Altrimenti l’unico vero ritorno sarà
quello verso il nulla. Solamente l’incrociarsi di un conflitto diffuso
con la sperimentazione locale di una forma-di-vita può «fare
il territorio». Difatti il lamentoso ritornello del «ritorniamo
ai territori» riappare ogni qualvolta, magari dopo un momento di
rivolta molto intenso, non si sa che fare poiché non solo non c’è
il coraggio di approfondire quel momento di sospensione ma non si ha nessun
vero legame con delle situazioni viventi e nessuna amicizia politica con
cui condividere uno spazio qualsiasi. Se, ad esempio, un «quartiere
liberato» è un quartiere in cui i rapporti mercantili hanno
poca o nessuna presa, un luogo dentro il quale l’economia dei dispositivi
smette di funzionare, ovvero la fine del deserto sociale, autonomia significherà
innanzitutto darsi i mezzi materiali ed elaborare le relazioni affettive
che permettono a questa indipendenza di durare e diffondersi. In questo
senso non si tratta tanto di «occupare» luoghi, territori o
altro ancora, bensì di liberare questi dall’occupazione della polizia
e delle relazioni mercificate che, tramite i dispositivi, ne sanciscono
l’inabitabilità poiché funzionano separando volta a volta
l’oggetto dal suo uso, la parola dal suo potere, il pensiero dall’azione,
l’immagine dalla sua passione, e così via. Ogni passo in avanti
nel rovesciamento di questi ostacoli all’abitare il mondo è una
possibilità di intensificazione del comunismo. «Autonomia
diffusa», ieri come oggi, vuol dire la diffusione ovunque di pratiche
che mentre sperimentano la condivisione siano in grado di rompere l’accerchiamento
dei dispositivi che si oppongono alla sua realizzazione.
Non vi è nessun «bene comune» separato dall’uso
comune che si può fare dei mondi che abitano i corpi e dei corpi
che li attraversano. Per questo vivere il comunismo è anche mettere
in discussione ogni genere di diritto proprietario: non alla proprietà
comune ma a un uso fuori dal diritto va commisurato il suo essere in atto.
Del socialismo ne abbiamo avuto davvero abbastanza e finché ci si
aggirerà nei dintorni della metafisica della proprietà e
del diritto non si riuscirà a intravedere la fine della civiltà
del capitale. Ogni qualvolta siamo in grado di deporre il diritto e di
liberare l’uso quella fine è più prossima. Uscire dal paradigma
dell’economia va necessariamente di pari passo con la sovversione di quello
del governo.
Dovrebbe essere evidente che ogni volta che si dice comunismo non si
tratta affatto solo di oggetti da produrre o di macchine per produrre ma
di una relazione alle cose, alle macchine, alle piante, al mondo, in cui
circolano degli affetti e dei corpi i quali accedono a una forma-di-vita
che si determina materialisticamente come comune. È l’uso solamente
che permette di liberare in ogni oggetto e in ogni corpo, in ogni parola
e in ogni immagine la forma-di-vita attraverso cui un comune si singolarizza
e viceversa, cioè di lasciar essere la sua stessa libertà.
La questione del comunismo consiste nell’elaborazione dell’uso tra quelli
che abitano e condividono uno stesso mondo.
Infine, non si può possedere o volere il comunismo: esso avviene
gratis. [...]
Marcello Tarì è un «ricercatore scalzo» i cui interessi si rivolgono principalmente alla comprensione dei movimenti contemporanei antagonisti. Ha pubblicato Movimenti dell’ingovernabile. Dai controvertici alle lotte metropolitane (ombre corte, 2007) e ha partecipato alla stesura del primo volume della trilogia "Gli autonomi", edita da DeriveApprodi.