Augusto Finzi, prima della sua morte nel 2004, aveva iniziato a progettare
un centro di documentazione di storia locale che raccogliesse l’attività
politica di un gruppo di operai e tecnici cresciuti attorno al progetto
dell’autonomia operaia inizialmente dentro la Cgil e il Pci, poi, dopo
l’estromissione, costituendosi nel Comitato operaio, uno dei maggiori centri
d’irradiazione di Potere operaio, e sancendone a breve lo scioglimento
con l’Assemblea autonoma di Porto Marghera. Non volendo disperdere nell’ennesima
soffitta o scantinato l’enorme mole documentaria che Finzi e coloro che
orbitavano attorno a lui avevano raccolto, alcuni vecchi compagni hanno
deciso di riunirsi nel Comitato promotore archivio operaio “Augusto Finzi”,
per fare in modo che il progetto archivistico si concretizzasse. Dal 2006
presso il Centro di documentazione di storia locale di Marghera è
possibile consultare l’archivio operaio “Augusto Finzi” che, assieme ad
altri fondi, costituisce un importante luogo di raccolta, archiviazione,
catalogazione e consultazione di documenti legati alla storia di Porto
Marghera e parallelamente alla storia del quartiere urbano.
Così è nata l’idea di scrivere non tanto la storia del
movimento operaio a Porto Marghera negli anni Sessanta e Settanta, ma –
come dice Devi Sacchetto esordendo nel suo saggio – di indagare sulla base
di 24 interviste «i percorsi di politicizzazione e le fonti della
radicalizzazione espressi da quei militanti operai e territoriali che hanno
costruito alcuni percorsi di lotta a Marghera e in Veneto». Una ricerca
che va a scavare nelle origini sociali e politiche del gruppo operaista
a partire dallo sviluppo del polo chimico che negli anni Cinquanta rastrella
giovani con scarsa esperienza di lavoro e di pratica politico sindacale:
pendolari provenienti dal vasto bacino agricolo circostante e tecnici dagli
istituti tecnici industriali di Mestre. Una forza lavoro, soprattutto quella
del Petrolchimico della Montedison, che si trova di fronte ad enormi investimenti
in capitale fisso, elevati livelli di produttività, esposizione
alla nocività della produzione, e che costruirà dei percorsi
comuni con gli operaisti prima di “Progresso Veneto” e “Quaderni Rossi”,
poi di “Classe Operaia”.
L’intervento degli intellettuali davanti alle fabbriche permise nel
periodo caldo tra il ’67 e il ’70 di elaborare delle forme di auto organizzazione
operaia fuori dal controllo dei sindacati e dei partiti, attorno al tema
del lavoro salariato tanto caro alla sinistra storica. Il rifiuto della
delega investì anche i professionisti della politica di Potere operaio
quando nel 1972 si decise di dare vita all’Assemblea autonoma di Porto
Marghera nel tentativo di essere classe operaia nella propria autonomia
(anche dagli appena costituiti Consigli di fabbrica) e nel territorio;
un tentativo che rifletteva la crescita intellettuale e politica dentro
la fabbrica e fuori da essa senza la mediazione di funzionari esterni,
dove gli stessi operai si assumevano la responsabilità diretta delle
forme di lotta e dove all’assemblea era premiato l’impegno, la partecipazione,
la presa di parola diretta.
Se inizialmente la lotta operaia rivendicò l’egualitarismo salariale
indispensabile per coagulare i lavoratori, negli anni a seguire il conflitto
lavorativo si concentrò sul tema della nocività e del rifiuto
del lavoro, estendendo alle università e al territorio nuove sensibilità,
aggregando soggetti e generazioni diverse tra loro attraverso l’organizzazione
di comitati cittadini che intervenissero nei più svariati ambiti
sociali (le abitazioni, la spesa, gli asili). Il confronto tra diverse
figure sociali permise l’intrecciarsi di rapporti duraturi nel tempo in
quanto la curiosità intellettuale, il dibattito e l’attenzione allo
studio erano rivolti sì alla battaglia politica, ma soprattutto
alla crescita personale in un nuovo spazio politico dove si potesse immaginare
la possibilità di organizzare direttamente una vita sociale che
non fosse fagocitata dai rapporti di produzione e di consumo. Sul finire
degli anni Settanta, l’Assemblea autonoma viene investita dalla più
grande ondata repressiva dello stato mai messa in atto dal secondo dopoguerra:
il “processo 7 aprile” vedrà numerosi arresti e lunghe incarcerazioni
che, assieme alle ristrutturazioni conseguenti al decentramento produttivo
messo in atto dalle aziende e al terrorismo brigatista, costringeranno
molti a ritirarsi a vita privata, distruggendo quella rete di relazioni
basata sull’appartenenza, sulla solidarietà e sui legami personali.
Questa lunga parabola, non tanto di lotta operaia ma piuttosto di acculturazione
e radicamento di soggettività antagoniste dalla fabbrica al territorio,
è un segno che rimane ancora adesso specificità di una realtà
sociale e politica a sé stante, dove si era diffuso, fin dagli anni
Settanta, un modo di fare informazione costruito dal basso, a partire dalla
conoscenza dei cicli produttivi e dagli effetti deleteri che essi provocavano
alla salute dei lavoratori, tant’è che l’ultima speranza di dare
ragione alla causa operaia è stata affossata dalla sentenza di assoluzione
di tutti i dirigenti del Petrolchimico emessa dal tribunale penale di Venezia
nel 2001.
Consiglio la lettura di questo libro a quanti pensino di saperne
poco sulle origini dell’autonomia operaia a Marghera, come è successo
a me, e che fin da subito non disdegnino la pluralità dei linguaggi
in quanto i contributi sono eterogenei: a partire da una personale cronistoria
del militante Gianni Sbrogiò, passando per gli interventi di intellettuali
che con l’autonomia operaia si sono confrontati come Toni Negri, Massimo
Cacciari e Karl Heinz Roth, concludendo con il bel saggio di Devi Sacchetto,
corredato da un dvd curato da Manuela Pellarin in cui le video interviste
vengono montate assieme a documenti video dell’epoca, proponendo così
un duplice linguaggio: quello saggistico della storia orale e quello audio
visivo del documentario.
recensione di Tommasio Saggiorato, http://www.aisoitalia.it/2010/06/quando-il-potere-e-operaio/