Adiós muchachos è la testimonianza diretta di Sergio Ramírez dei fatti che portarono alla nascita e alla crescita del movimento che abbatté Anastasio Somoza nel 1979. Il libro percorre i momenti topici della lotta rivoluzionaria: la clandestinità, la ribellione, gli anni di governo, la guerra con i Contra, le elezioni del 1990 e la vittoria elettorale dell’opposizione. Ramírez racconta i fatti in qualità di testimone privilegiato di quei tempi, in cui il Frente Sandinista cercava di applicare un’utopia ad un sistema di vita. Attorno, ruotano i personaggi della politica internazionale (Fidel Castro, Carter, Reagan, Gheddafi, Margaret Thatcher), ma anche e soprattutto gli autori dell’ultima rivoluzione latinoamericana che aveva saputo dare una speranza.
L'autore: Sergio Ramírez Mercadoè nato a Masatepe, in
Nicaragua, nel 1942. Nel 1963 ha pubblicato il suo primo libro, Cuentos,
a cui seguirono romanzi e saggi sul mondo latinoamericano. Nel 1977 fondò
il Gruppo dei Dodici, formato da vari personaggi della società civile
nicaraguense in opposizione al regime di Somoza. Nel 1979, al trionfo della
rivoluzione, fece parte della Giunta di governo, per poi essere eletto
nel 1984 vice-presidente della Repubblica. Esaurita l’avventura politica,
con il suo dissenso alla linea del Frente Sandinista, si è dedicato
completamente alla letteratura.
Tra i suoi titoli, pubblicati in spagnolo, tedesco, inglese e francese
spiccano i romanzi Castigo divino (Mondadori, 1988), Margarita está
linda la mar (Alfaguara, 1998), Sombra nada más (Alfaguara, 2002).
È Cavaliere delle Lettere e delle Arti del governo di Francia.
Ha dettato conferenze alle università di Cornell, Maryland, Boulder,
Salamanca, Alicante, Poitiers, Montpellier, Madrid. È opinionista
di vari quotidiani, tra cui “El País” di Madrid, “El Espectador”
di Bogotá e “La Jornada” di Città del Messico.
Introduzione
Todo se quemó en el tiempo. Todo se quemó allá
lejos.
Joaquín Pasos, Canto de guerra de las cosas
Nel 1999 il trionfo della rivoluzione sandinista ha compiuto vent’anni,
è già passato, però si alza ancora come una marea
tumultuosa ai piedi della mia finestra, mi stordisce e mi commuove. Da
allora, niente è stato più lo stesso per me. E mi trovo ad
affrontare la maturità pieno di ricordi che sempre tornano con questa
marea, dicendomi che se fossi nato un poco prima, o un poco dopo in questo
secolo delle chimere, l’avrei perduta. E come chi si sveglia da un incubo,
mi rendo conto che non l’ho persa. È lì, in tutta la sua
maestà, in tutta la sua gloria e la sua miseria, le sue angosce
nella mia mente, e le sue allegrie. Come io l’ho vissuta, e non come mi
raccontarono che fu.
Bernal Díaz del Castillo scrisse già anziano i suoi ricordi
di soldato nel suo ritiro di Santiago di Guatemala perché qualcun
altro voleva raccontare la sua vita. Francisco López de Gómara,
che non fu mai protagonista delle imprese della conquista del Messico,
aveva appena pubblicato la sua Historia general de las Indias, scritta
a Valladolid; e allora Díaz del Castillo, per amor proprio, si mise
a comporre la sua Historia verdadera de la conquista de la Nueva España.
Non ho imbracciato armi nella rivoluzione, non ho mai portato l’uniforme
militare, e nemmeno mi trovo al punto di essere dimenticato per vecchiaia,
e nessuno mi sta disputando con un altro libro i fatti vissuti. E più,
la rivoluzione è rimasta senza cronisti in questo fine secolo di
sogni spezzati, dopo che ne ebbe tanti negli anni nei quali commuoveva
il mondo. Solo io conservo nella mia biblioteca più di cinquecento
libri scritti in quegli anni, in tutte le lingue. E al contrario di Bernal,
è precisamente per l’eccesso di oblio che scrivo questo libro.
Un oblio ingiusto. Nelle liste di avvenimenti che si fanno oggi del
Ventesimo secolo, manca la rivoluzione sandinista. Perché si perse
e non cambiò in fin dei conti la storia, come noi credevamo che
l’avrebbe cambiata, o perché oggi a molti sembra che non ne valse
la pena, un impegno che si trasformò in una grande frustrazione
ed in una formidabile disillusione. O perché fu prevaricata. Ne
valse la pena, in fin dei conti?
La rivoluzione sandinista fu l’utopia distribuita. E così, come
segnò una generazione di nicaraguensi che la rese possibile e la
sostenne con le armi, ci fu anche una generazione nel mondo che trovò
in essa una ragione per vivere e per credere, che nell’ora della guerra
dei Contra e dell’embargo degli Stati Uniti combatté per difenderla
dall’Europa, dagli Stati Uniti, dal Canada, dall’America Latina, promuovendo
comitati di solidarietà, raccogliendo denaro, medicine, utensili
scolastici, attrezzi agricoli, scrivendo sui giornali, raccogliendo firme,
facendo pressioni sui parlamentari, organizzando marce.
Gente da tutte le parti venne in Nicaragua a fare di tutto, in un’operazione
di solidarietà che ha un paragone solo con quella che provocò
la causa della Repubblica durante gli anni della guerra civile spagnola,
e ci furono nordamericani, francesi, belgi, che persero la vita, assassinati
dai Contra, mentre si dedicavano a costruire scuole, a mietere i raccolti,
curare, insegnare, nel profondo del Nicaragua rurale durante la guerra.
La rivoluzione sandinista alterò i parametri delle relazioni internazionali
della Guerra Fredda, e al convertirsi nel tema focale della politica estera
degli Stati Uniti durante la presidenza imperiale di Reagan, creò
un’immensa solidarietà mondiale che aiutava a difendere David da
Golia.
Alla fine di un secolo poco eroico, vale la pena ricordare che la rivoluzione
sandinista fu il culmine di un’epoca di ribellione ed il trionfo di una
serie di ideali e sentimenti condivisi da una generazione che rifiutò
l’imperialismo ed ebbe fede nel socialismo e nei movimenti di liberazione
nazionale, Ben Bella, Lumumba, Ho Chi Minh, Che Guevara, Fidel Castro;
una generazione che assistette al trionfo della rivoluzione cubana e alla
fine del colonialismo in Africa ed in Indocina, e protestò nelle
piazze contro la guerra del Vietnam; la generazione che lesse I condannati
della terra di Frantz Fanon ed Ascolta, yankee! di Stuart Mill, ed allo
stesso tempo gli scrittori del boom, tutti di sinistra, allora; la generazione
dei capelli lunghi e dei sandali, di Woodstock e dei Beatles; quella della
rivolta nelle strade di Parigi nel maggio 1968 e della strage di Tlatelolco;
quella che vide Allende resistere nel palazzo della Moneda e pianse per
le mani tagliate a Víctor Jara e trovò, infine, in Nicaragua,
una vendetta ai sogni perduti in Cile e anche più in là,
ai sogni della Repubblica spagnola, ricevuti in eredità. Era la
sinistra. Un’epoca che fu anche un’epica.
E per tutto un decennio, la rivoluzione trasformò in Nicaragua
i sentimenti e cambiò la maniera di vedere il mondo ed il paese
stesso, perché creò un’ambizione di identità; ritoccò
i valori, la condotta degli individui, le relazioni sociali, i legami famigliari,
le abitudini; creò una nuova cultura quotidiana; cambiò anche
il linguaggio e la maniera di vestirsi ed aprì, soprattutto per
i giovani, uno spazio colossale di partecipazione, dando un senso storico
alla rottura generazionale con il passato.
Però molti di coloro che lottarono per conquistare il potere
prima e per difenderlo dopo, i giovani della generazione della rivoluzione,
si videro alla fine doppiamente frustrati, non per la perdita delle elezioni
- che sarebbe potuto convertirsi in un male riparabile se, in fin dei conti,
perdere appartiene ai parametri della democrazia - ma perché la
sconfitta elettorale portò con sé il crollo dei principi
etici che sostenevano la rivoluzione, e nel cuore, molti di quei giovani
iniziarono a vedere se stessi come la generazione perduta, nati nella disillusione,
nello scetticismo e nel rancore. Il mondo cambiava alla fine degli anni
Ottanta, sprofondava tutto l’apparato degli ideali, venivano deposte tutte
le chimere. Però, in Nicaragua era fatto a pezzi il primo modello
reale di cambiamento che il paese avesse mai vissuto, la sua prima possibilità
di un futuro a portata di mano.
Perché non era stata solo la rivoluzione vista dal potere che
cercava di creare un nuovo ordine con decreti e misure, ma della rivoluzione
che si teneva tra la gente, una volta che le dighe erano state rotte ed
una nuova forma di vivere e di sentire si faceva possibile. Fu un fenomeno
dalla portata istantanea, una forza trasformatrice che straboccò
su tutti, riempì spazi che per secoli erano rimasti vuoti e creò
l’illusione del futuro, l’idea che tutto, senza eccezioni, diventava possibile,
realizzabile, con un disprezzo assoluto del passato. Una marea, un lampo.
Oggi la rivoluzione rimane per molti, dentro e fuori il Nicaragua,
tra le nostalgie della vita passata ed i vecchi ricordi, e si evoca come
si evocano gli amori perduti; però non è più una ragione
di vita. A volte, in casa di amici all’estero, in mezzo ad una cena tra
brindisi, suona come un omaggio a me dovuto - e a loro stessi - la musica
di quei tempi, le canzoni rivoluzionarie di Carlos Mejía Godoy che
ascolto con una tristezza oppressiva, con un sentimento di quello che cercai
e non riuscii a trovare, però che continua vivo nella mia vita,
e che temo, mentre il tempo avanza, di non trovare mai.
La rivoluzione non ha portato la giustizia anelata dagli oppressi,
e non ha potuto creare ricchezza o sviluppo; però, ha lasciato come
suo miglior frutto la democrazia, determinata nel 1990 con il riconoscimento
della sconfitta elettorale e che come paradosso della storia è la
sua eredità più visibile, anche se non la proposta più
entusiasmante; e gli altri frutti che continuano lì, inavvertiti,
sotto la valanga della déb‰cle che seppellì anche i sogni
etici, sogni che, non ho dubbi, torneranno prima o poi ad alimentare un’altra
generazione che avrà appreso gli errori, le debolezze e le falsificazioni
del passato.
Io ero lì. E, come Dickens nel primo capitolo di Storia di due
città, continuo a credere che: “fu il migliore dei tempi, fu il
peggiore dei tempi; fu tempo di sapienza, fu tempo di pazzia; fu un’epoca
di fede, fu un’epoca di incredulità; fu una stagione di fulgore,
fu una stagione di tenebre; fu la primavera della speranza, fu l’inverno
della disperazione”.
(scheda di presentazione a cura dell'editore)