Le pistole in copertina? Sì, se serve a raccontare come erano gli anni 70
Un romanzo di Paolo Pozzi, "Insurrezione", ambientato nel '77: è
la sua storia, la storia di un'intera generazione.
Alcuni non si sono riconosciuti nella copertina con le cifre dell'anno
disegnate come una P38. Ma è l'ora di aprire il dibattito
Nel numero 1977, che costituisce la sola illustrazione della copertina
del libro delle edizioni DeriveApprodi (pp. 208, euro 14,00), due pistole
sostituiscono le ultime due cifre. Pare che molti dei reali protagonisti
di Insurrezione , attori del movimento autonomo milanese degli anni 70,
non si siano affatto riconosciuti nella copertina. Ricondurre quel periodo
a un'esplosione di violenza non è forse oggi la visione dominante,
tipica dell'amnesia italiana contemporanea, socialmente prodotta e coltivata?
In una nota introduttiva l'autore sostiene: «Allora c'era un
movimento fatto di donne e uomini che pensavano di cambiare il mondo. In
modo radicale. Con una rivoluzione. Quelle donne e quegli uomini pensavano
che cambiarlo potesse anche essere divertente. Anzi o era divertente o
non valeva la pena. Tutto e subito. (.) mi rivedo giovane e penso: ce l'hanno
fatta pagare ma ci siamo divertiti un casino». Alla fine se Pozzi
e i suoi compagni si sono divertiti non è stato premendo il grilletto
dei loro pezzi corti (armi leggere), ma inventando concretamente nuovi
rapporti sociali, in strada, nei quartieri popolari, ai cancelli delle
fabbriche e al loro interno, nelle case occupate. In un'epoca in cui, per
incontrare qualcuno al di fuori della propria cerchia immediata ci si affida
sempre più agli schermi, per quelli che non l'hanno vissuto diventa
difficile immaginare la ricchezza passionale, emotiva, immaginaria e riflessiva
del movimento del '77. Per come Pozzi lo ricostruisce, in modo semplice
e magnifico, non era tanto un slancio del «tutti insieme» verso
un obiettivo politico determinato, quanto un'attrazione universale di corpi
terrestri, forzatamente terrestri, gravati delle loro origini, dei loro
accenti, delle loro categorie sociali e che tuttavia si attraevano, si
respingevano, si agglomeravano, formando
galassie, convergendo su orbite comuni per alcuni giorni o alcuni mesi
lunghi quanto anni luce e, di tanto in tanto, fondendosi.
La forza che faceva muovere queste persone era prima di tutto le parole.
A spingere queste persone è prima di tutto la forza delle parole.
Fiotti di parole. Torrenti e vortici di polemiche nelle assemblee; fiumi
amazzonici di discorsi dei tanti leader; pigri ruscelli di scambi tra compagni
al termine di notti militanti. I dialoghi di Insurrezione , che occupano
la maggior parte del libro, restituiscono lo spirito di un tempo in cui,
a fianco della rabbia contro lo Stato e i padroni, prevaleva un'allegria
dai mille risvolti: dalla gioia tranquilla riposata del colpo andato a
segno (la felicità dopo la tensione della rapina esemplare, «da
manuale») al tripudio carnevalesco delle autoriduzioni e di certi
cortei, passando per il gusto dell'ironia e della derisione che non risparmia
nessuno, soprattutto i più vicini. Per un cittadino francese che
nel '68 aveva sedici anni e che da allora non ha smesso di interessarsi
da vicino ai movimenti sociali e a alla critica radicale del capitalismo,
il sentimento di fratellanza è immediato per quei ragazzi e ragazze
di vent'anni; per Coz, il cui sguardo si accende all'idea di far casino
ancora una volta; per il Sardo, felice di bloccare con un gruppo sparuto
una fabbrica intera; per Tullio, che lascia tutti sgomenti confessando
pubblicamente la sua omosessualità; per le operaie della Siemens,
che mettono in crisi il potere dei maschi fin dentro le assemblee autonome;
per le «quattro signore», quattro donne bellissime che a casa
propria fanno sfilare i compagni e li assalgono con discorsi femministi
prima di divorarli.
Le tensioni emancipatrici che da quel momento non hanno smesso di rivoltare
l'Occidente e il resto del mondo erano in Italia in gran parte espresse
dalla componente autonoma. Nel racconto di Pozzi è chiaro che ancora
non erano ridotte a rivendicazioni di categoria e che ogni specificità,
ogni identità, non esitava a mescolarsi alle altre. L'universalità
- il concetto di «torto universale» caro al Marx dei manoscritti
del '44 - non era ancora scomparso negli animi annebbiati dal relativismo
culturale, dal post-moderno e da altre droghe molli. I vicoli ciechi delle
«coppie aperte», raccontati con un'ironia dolente, rivelano
i limiti con i quali si scontravano ovunque, in Italia come altrove, coloro
che cercavano nuovi comportamenti che solo un'altra civiltà avrebbe
veramente permesso. Come dice il détournement di Raoul Vaneigem:
«Non c'è amore felice in un mondo infelice». Molti dei
giovani che mi capita di incrociare oggi, che si ritrovano come i loro
nonni tra una pornografia antierotica e modelli romantici o cristiani,
i cui millenni di cornificazioni e nevrosi non hanno ancora disgustato
del tutto l'umanità, sgranerebbero gli occhi leggendo le avventure
di Arianna, l'evanescente innamorata del narratore. Per me, il fallimento
di questa donna nel vivere un amour fou che non la soffochi indica, come
altri
visibili fallimenti nel libro, uno dei cantieri a venire per la costruzione
di un altro mondo possibile.
Tra questi fallimenti sta anche la difficoltà a uscire dai modelli
gerarchici. Ah lo smarrimento del gruppo quando il capo non c'è!
(«Giulio non c'è e questo crea dei problemi sia di comando
sulla nostra area che di rapporto con gli altri gruppi più o meno
organizzati», p. 109). O l'incapacità a liberarsi del modello
di avanguardia leninista («Per Giulio. la sfida che gli operai ogni
giorno fanno al capitale. deve essere raccolta dalle avanguardie cui spetta
il compito di alzare il tiro della violenza operaia», p. 120). O
la difficoltà di fare a meno di un rapporto parassitario con i sindacati.
Bisognerà aspettare il '77 perché accada quell'«avvenimento.
di una novità assoluta»: a sostegno di uno sciopero, in assenza
dei sindacati, una manifestazione autonoma dell'Autonomia! E tra questi
si citerà soprattutto il problema della violenza. Oggi l'Italia
si è allineata alla norma del bunker europeo che occulta la violenza
ai suoi margini, nelle banlieues e alle frontiere, o nel segreto dei regolamenti
di conti famigliari; il discorso ipocrita iperdominante (nei media e nei
cervelli) rivolge a quel periodo solo uno sguardo da giudice o da poliziotto.
Non è questo il luogo per dilungarsi a discuterlo, ricordando ad
esempio quanto la società italiana fosse violenta all'epoca e che
la lista dei morti ammazzati non va messa principalmente in conto all'estrema
sinistra, che ha pagato in massa (10.000 anni di prigione per diverse migliaia
di arrestati) a differenza dell'estrema destra (senza parlare di quelli
uccisi dalle forze dell'ordine, di cui nessuno è mai stato condannato).
Poiché qui si tratta di leggere negli anni 70 le indicazioni per
il futuro, possiamo dire che ci stupisce la reazione di cui parlavamo all'inizio
dell'articolo, a proposito di una copertina che illustra bene ciò
che c'era nella testa degli autonomi. E piuttosto che un'immagine riduttiva,
dovremmo parlare dell'autoriduzione del movimento stesso. Del fatto che
giorno dopo giorno si è andato riducendo a uno scontro violento,
a un'identificazione della violenza con la sovversione.
Il fascino per le armi è evidente fin dal primo capitolo nel
racconto estasiato di un compagno di ritorno da una manifestazione a Roma,
piena di sparatorie, con trecento autonomi armati di pistole e un'armeria
devastata. E alla fine ci diciamo che con tutti quei colpi sparati in quegli
anni, se i morti sono stati così pochi (come accadde su scala molto
minore per il '68 in Francia) è perché da parte di tutti,
manifestanti e poliziotti, deve esserci stata, interiorizzata, un'autolimitazione
alla violenza. Ma poi, come mostra bene Pozzi, la concorrenza tra gruppi
giocherà sempre più a favore di quelli che volevano «alzare
il tiro». Fino a che non interverrà una forza estranea al
movimento (e in un certo senso a questo contraria), le Brigate rosse, con
il rapimento Moro. Topone, un militante autonomo, sintetizza i suoi sentimenti
ai cancelli dell'Unidal: «Qui è la fine. Ci mettono in galera
tutti. È la fine del movimento».
E ancora bisognerebbe parlare, ad esempio, del concerto a Parco Lambro,
dove gli autonomi organizzati assistono con sentimenti ambivalenti all'arrivo
di migliaia di ragazzi dei quartieri popolari che si auto-riducono ai banchetti
militanti; delle azioni per «chiudere i covi del lavoro nero»
o per cacciare gli spacciatori; del convegno di Bologna. Ma la cosa migliore
è comunque leggere il piccolo (grande) libro di Paolo Pozzi. Perché
è solo ritrovando una memoria piena e non frammentaria degli anni
70, quest'ultimo «grande assalto al cielo», che potremo ritrovare
le strade di una trasformazione della società che non confonda la
sovversione con la guerra, quella guerra che lo Stato saprà comunque
condurre sempre meglio di qualunque altro avversario. Per ritrovare un
giorno l'allegria di «cambiare il mondo, in modo radicale»
e farla finita con quel soffocante pensiero unico che ancora oggi rende
alcuni nomi impronunciabili. Questo articolo è dedicato a Cesare
Battisti.