Si dice che in Italia il 1968 è durato fino a tutto il 1969,
se non fino al 1978. In Giappone, il 1968 è stato nel 1967. O nel
1969. Questa elegante immagine di studenti dello Zengakuren - la federazione
giapponese delle associazioni degli studenti autonomi -, che brandendo
dei pali contestano gli accordi con gli Stati uniti davanti alla residenza
del primo ministro Eisaku Sato, potrebbe tranquillamente essere stata scattata
in molte altre occasioni.
L'evento simbolicamente più rilevante si verificò nell'ottobre
1967, quando all'Aeroporto di Haneda, durante una protesta dello Zengakuren
contro la visita di Sato nel Vietnam del Sud, fu ucciso uno studente. Nel
gennaio 1969 l'occupazione studentesca dell'Università di Tokyo,
organizzata dallo Zenkyoto (il comitato per la lotta congiunta di tutti
i campus), terminò con un violento assedio da parte della polizia.
Scontri simili sarebbero seguiti nei campus di tutto il paese: Kyoto, Osaka,
Ritsumeikan, Kobe, Doshisha, Kansai. Gli studenti giapponesi erano certamente
a conoscenza degli avvenimenti di Parigi (lo stesso Sartre era venuto in
visita nel settembre 1968) o di Berkeley, ma la loro mobilitazione e militanza
traeva origine dalle condizioni specifiche del loro contesto sociale e
del loro quotidiano.
Verso la fine degli anni '60 il Giappone scontava una pesante influenza
geopolitica esercitata dagli Usa, per non parlare del peso feudale del
sistema imperiale, che dopo la seconda guerra mondiale era rimasto in piedi
per il rifiuto del governo giapponese di arrendersi se non ne fosse stata
garantita la sopravvivenza. Contemporaneamente stava già prendendo
forma quel sistema produttivo che sarebbe poi stato conosciuto con il nome
di toyotismo. Ritenuto da molti il precursore del post-fordismo, il toyotismo
enfatizzava tanto la lealtà verso l'azienda quanto la specializzazione
flessibile e la produzione snella. Il Giappone stava cominciando la sua
crescita economica, ed è in questo contesto che si situano le azioni
di protesta dello Zengakuren, dello Zenkyoto e dei lavoratori, in luoghi
come l'Aeroporto di Osaka e la Stazione Shinjuku a Tokyo.
Lontano dall'autunno caldo delle città-industria, Fiatville
e Pirellitown, il '68 giapponese dovette già confrontarsi con quel
toyotismo che sarebbe arrivato in Europa solo con la costruzione di Melfi.
Il punto non è la relativa arretratezza o il relativo progresso:
in entrambi i casi, queste categorie non reggono. Per lo Zengakuren, il
rapido fermento dello sviluppo capitalistico in Giappone era evidentemente
legato all'autoritarismo implicito nel sistema imperiale e nel vassallaggio
nei confronti degli Usa. Il suo dissenso scoppiò in modo spettacolare
nel giugno 1960 con una serie di proteste e scioperi finalizzati a impedire
la revisione e l'estensione del Trattato di sicurezza Usa-Giappone .
In quel periodo gli Zengakuren svilupparono la loro caratteristica
tattica della «danza del serpente», che vedeva i manifestanti
disporsi in una formazione compatta: una decina di persone, tenendosi sottobraccio
l'una accanto all'altra, avanzava ondeggiando da un lato all'altro della
strada con passo vigoroso e spedito. Al tempo delle proteste all'Aeroporto
di Haneda il movimento, fortemente diviso in fazioni, aveva adottato i
caschi e le mazze (simili a quelli con cui era equipaggiata la polizia
antisommossa) che costituivano la sua firma.
La guerra del Vietnam era ormai una importante piattaforma di protesta
e lo Zengakuren individuava dei parallelismi tra la lotta dei Viet Cong
e la propria. La serie di basi americane sorte sul territorio giapponese,
insieme alle truppe e alle infrastrutture militari strategicamente situate
sull'isola di Okinawa, erano cruciali non solo per lo sforzo bellico degli
Usa in Vietnam, ma anche per il mantenimento della sfera di influenza americana
in Asia e nel Pacifico.
Oltre a sancire la prosecuzione del sistema imperiale, la Costituzione
del 1947 aveva cancellato il diritto a dichiarare la guerra; questo consentì
di ridurre al minimo la spesa militare e di concentrare le risorse sullo
sviluppo. A metà degli anni '60, il Giappone era già la principale
potenza economica in Asia, con investimenti significativi a Taiwan, in
Corea del Sud e in Asia sud-orientale, e con rapporti commerciali con paesi
come la Thailandia, Hong Kong, le Filippine e la Malesia. Questa posizione
economica non fece che rafforzare la volontà del governo di preservare
lo status quo nella regione, centrato sugli Usa: una volontà sancita
dal comunicato Sato-Nixon del novembre 1969.
Ma il movimento Zengakuren va letto in primo luogo nell'ambito di quei
lunghi anni '60 del Novecento asiatico che, come sostiene Christopher Connery
in un recente numero di Inter-Asia Cultural Studies, può essere
datato dalla sconfitta francese a Dien Bien Fu nel 1954 alla morte di Mao
nel 1976, dalla Bandung Conference del 1955 agli shock petroliferi. Dopo
tutto, fu in Asia che i movimenti studenteschi degli anni '60 riuscirono
a rovesciare due governi. Nel 1960, duecento persone persero la vita in
una serie di proteste guidate da studenti e lavoratori che fecero cadere
il governo di Syngman Rhee in Korea del Sud. Tredici anni dopo, nel 1973,
la giunta militare della Thailandia cadde grazie alle proteste del movimento
studentesco.
Il punto non è né valorizzare queste azioni nei loro
momenti nazionalistici, né semplicemente relativizzare la memoria
euro-americana degli anni '60. Innegabilmente, la guerra in Vietnam fu
importante per i movimenti degli anni '60 su scala globale - basta ricordare
il discorso di Che Guevara «Creare due, tre, molti Vietnam»
o lo slogan «il Vietnam è nelle nostre fabbriche». Le
lotte di liberazione nazionale assunsero un nuovo significato quando furono
legate alla guerra fredda o, come nel caso della Thailandia e dell'Indonesia,
alla rivoluzione culturale cinese. Quest'ultima - come hanno sottolineato
figure quali Wang Hui e Alessandro Russo - fu un evento di portata internazionale
che, nonostante la sua discesa depoliticizzante nel fazionalismo, era iniziata
come una campagna per combattere l'autoritarismo burocratico e trasformare
l'individuo. Anche se la questione del sostegno alla Cina dei movimenti
di opposizione nella regione asiatica resta complessa, sarebbe un errore
ritenere che esso sia stato sempre motivato dal cinico interesse, o che
non subisse l'influenza politica del radicalismo interno al paese negli
anni '60.
Scrivere degli anni '60 in Asia significa essere tentati di rivendicare
la centralità globale delle sue lotte e dei suoi movimenti. Per
quanto questo possa essere un mezzo efficace per contrastare una visione
di quel periodo centrata su Parigi e Berkeley, si rischia però di
sostenere retrospettivamente la dichiarazione trionfalistica di un Secolo
Asiatico, che è ora annunciato dappertutto in Italia, dal blog di
Federico Rampini fino alle attente e fondamentali analisi di Giovanni Arrighi.
Ma l'antidoto alla malinconia della sinistra, nostalgica di Parigi e Berkeley,
non è una frettolosa valorizzazione dei conflitti asiatici. Al contrario,
nella misura in cui l'attuale rinascita dell'Asia è vista come interamente
determinata dalla sua integrazione nei circuiti del capitalismo globale,
la memoria del recente e interconnesso radicalismo asiatico degli anni
'60 lavora per disattivare questa narrazione dominante.
La lotta dello Zengakuren è particolarmente istruttiva sotto
questo aspetto, perché è avvenuta nel contesto del notevole
sviluppo economico del Giappone. Non solo essa attesta il fatto che questa
crescita non è stata realizzata in modo tranquillo, ma evidenzia
anche quella dinamica politica che è sempre oscurata quando si descrivono
le grandi transizioni epocali: la produzione di soggettività.
Troppo spesso sentiamo dire che le lotte degli anni '60 dovrebbero
essere giudicate dalla piega che la storia ha preso successivamente: l'era
di Reagan e Thatcher, che sarebbe arrivata tardivamente in Italia con Berlusconi
ma che, in Giappone, porterebbe all'acquisto del Rockefeller Center, della
Metro Goldwyn Meyer, ecc. Il documentarista britannico Adam Curtis, tra
gli altri, ha allegorizzato la favola di come l'invito degli anni '60 a
«seguire i propri desideri» si sarebbe tradotto nel consumismo,
nell'individualizzazione e nell'ossessione neoliberista della misurazione
della performance. Ma a parte il fatto di giudicare i movimenti storici
solo in base agli esiti ad essi imputati, queste narrazioni senza soluzione
di continuità, come le loro varianti sulla storia mondiale, oscurano
quell'elemento del conflitto che non è tanto facile assorbire: la
sua dimensione soggettiva. Non per caso le lotte dello Zengakuren erano
collegate al movimento delle donne giapponesi e all'emergere di gruppi
come Shinryaku=Sabetsu to Tatakau Ajia Fujin Kaigi (Conferenza delle donne
asiatiche contro la discriminazione = l'invasione).
Le battaglie degli studenti giapponesi contro le basi militari americane
non erano una semplice questione di geopolitica: avevano anche un aspetto
biopolitico, se, come osserva Cynthia Enloe, «le basi sono società
artificiali prodotte da relazioni di disuguaglianza tra uomini e donne
di diverse razze e classi». Il ruolo svolto dalla forte pubblicizzazione
degli stupri, nella decisione finale degli Usa di ridurre le operazioni
su Okinawa, non può essere facilmente sottovalutato.
In Giappone, come altrove, le nuove soggettività nate negli
anni '60 non sono state riassorbite, piuttosto hanno registrato una impasse
quando hanno incontrato una opposizione strutturale nella società.
Più che accreditare il loro fallimento, il loro crollo o il loro
essere semplicemente inebetite dai piaceri del consumismo, è utile
chiedersi come queste soggettività abbiano resistito o abbiano rifiutato
l'integrazione nelle forme e nei rituali della politica moderna.
Questo lascia aperta la questione di un certo eccesso o di una certa
condizione in cui anche le generazioni politiche successive agli anni '60
restano intrappolate. Come concepire questa differenza politica non assorbita?
Come organizzarla? È su questo interrogativo che deve concentrarsi
qualsiasi tentativo di re-inventare il politico. E se, come spesso veniamo
messi in guardia, il centro economico e culturale del mondo si sta spostando
in Asia, allora forse dobbiamo guardare agli anni '60 dell'Asia per cominciare
a leggere questo cambiamento in termini diversi da quelli del trionfo della
civiltà, del destino storico del mondo o di una logica del mercato
in via di estinzione, che non deve mai affrontare il potere del negativo.
Brett Neilson, "il manifesto", 15 marzo 2008
(Traduzione di Marina Impallomeni)