Ricordo perfettamente quando mi chiamarono presto al telefono, da Thiene,
un vecchio compagno dei Quaderni Rossi mi disse: a Valdagno c'è
un casino mai visto. Gli operai hanno trasformato lo sciopero in sommossa.
Mi stropicciai gli occhi! Sapevo che la lotta era diventata pesante: potere
contrattuale, salario e diritti sindacali erano in ballo; sapevo che i
giovani quadri sindacali avevano rapidamente assunto la direzione della
lotta, ma davvero non mi aspettavo che l'intera popolazione si accompagnasse
e si ritrovasse nello scontro. A mezza mattina mi telefona un altro «vecchio»
amico («vecchio»: aggettivo davvero improprio in quegli anni,
quando le amicizie nascevano in brevissimo tempo e tutto andava così
in fretta dentro l'ansia di un rinnovamento radicale). Mi chiamò
dunque un altro amico, un letterato - Vicenza è terra di letteratura
fine, forti radici e grande eleganza: mi disse che a Valdagno un secolo
di oppressione patriarcale, capitalista e religiosa, stava andando «a
ramengo»... poi alla sera telefonò una mia studentessa che
piangeva di gioia nel raccontarmi che la statua del conte Marzotto stava
a gambe all'aria abbattuta in mezzo alla piazza. La conoscevo, Maria, un'ottima
allieva ma tutt'altro che politicamente impegnata. Mi disse degli scontri
che durante tutta la giornata si erano dati tra operai, cittadini e polizia.
La descrizione della statua abbattuta era poi fatta in uno stile surrealista.
Ecco cosa ne dice lo storico archivista: «E' tutta la popolazione
che protesta e manifesta contro il Marzotto e la Celere. Il monumento a
Marzotto è preso di mira da un gruppo di operai e operaie. Una corda
viene legata attorno al collo della statua che crolla faccia avanti. E'
come se crollasse il simbolo dell'oppressione: lavoratori e popolazione
tutta manifestano così la propria esasperazione contro l'insopportabile
condizione di lavoro in fabbrica e contro l'opprimente 'feudalesimo' a
Valdagno».
Quanto era lontana Valdagno, da Venezia dove abitavo e anche da Padova
dove insegnavo. Il Nordest era ancora sconnesso: la stessa provincia di
Vicenza, come tutto il resto della regione, era un arcipelago di isole
industriali che mal comunicavano tra loro. Si parlava di Valdagno, di Galzignano,
di Bassano, del tessile, della metalmeccanica e della motoristica, delle
smalterie, come se fossero mondi diversi: in effetti ognuno di questi luoghi
era più collegato alla Germania, o semplicemente a Milano, di quanto
tutti insieme lo fossero tra loro. Per non parlare delle concerie dove
si andava a morire all'ombra delle ridenti colline, e dove già allora
trovavi migranti: la classe operaia del benzolo e poi quella con le dita
mozze dei calzaturieri lì vicino - le taglierine erano più
miti dei veleni, riconosceva il poeta mio amico. Era insomma una terra
dove l'industria si era affermata e dove l'emigrazione era meno fitta che
nella Bassa Veneta, tra l'Adige e il Po. L'ordine e la miseria erano così
intimamente stretti che sembravano dar l'idea di un certo benessere: «tranquillità»,
«sapersi accontentare», il cattolicesimo industriale esprimeva
una morale stoica.
Come poteva essere esplosa Valdagno? Non ci provo nemmeno a descriverlo
e a spiegarlo, c'è un intero scaffale di biblioteca. Per dirlo,
«l'avvenimento topico del '68» . Voglio solo raccontare che
cosa significasse una cosa del genere (sciopero operaio, sommossa del paese
- più simili a una jacquerie premoderna che a una rivolta industriale
- e poi il rovesciamento, kaputt, della statua del fondatore, del padre-padrone,
del cattolico illuminato - una tradizione è infranta: questa è
terra di nascita o di adozione di alcuni pontefici, luogo di sperimentazione
della cosiddetta dottrina sociale della Chiesa dove profitto e carità
dovrebbero dormire sotto la stessa coperta. Che cosa dunque significa una
cosa del genere? Che messaggio inviava quella rivolta?
Anche per chi fosse educato alla disciplina operaista e alla promozione
comunista dell'azione insurrezionale, Valdagno risultava un evento straordinario.
Si trattava dunque di decostruirlo, per comprenderlo nella sua genesi e,
meglio, per generalizzarlo. Tracciare la retta della curva di Lenin, si
diceva allora. Semplice, no? Ma perché sarebbe stato più
difficile di quello che volevano allora fare i nostri nemici: ridurre la
complessità? Fra questi ostacoli logici si mosse la ricerca, lo
slogan fu: solo ripetendo Valdagno si sarebbe stati capaci di comprendere.
E' quello che accadde poco dopo. Quando la lotta operaia, che si espanse
fra il '68 e il '69 nel Veneto, nelle zone a più alta concentrazione
industriale (Porto Marghera, Conegliano e Pordenone, Padova), cominciò
poi anche a debordare verso i centri periferici, nel Veneto profondo, quello
più soggetti al controllo delle elites cattoliche e corporative
- allora l'evento di Valdagno si ripetè sovente. Jacquerie operaia,
non più semplicemente contadina. C'erano sindacalisti, ci sono storici
e (come costituiti in un'idea platonica) quadri del movimento operaio,
che alla parola jacquerie si chiudevano il naso come se ci si trovasse
di fronte ad un ritorno di fiamma antico, anarchico e plebeo. Era il contrario:
una rivolta contro la forma e dei simboli del dominio, nella loro totalità.
Quale straordinaria maturità rivelava questa nuova classe operaia
che emergeva dalle nebbie delle campagne padane...ed era stata per anni,
per secoli, carne da macello nelle guerre patriottiche e poi nelle miniere
del Borinage o nella siderurgia della Lorena...Prima di diventare classe
operaia a Billancourt o Wolfsburg, o Torino o appunto a Valdagno. Questa
classe operaia metteva assieme l'odio per la schiavitù contadina
e quello per lo sfruttamento industriale, comprendendovi - nel giusto mezzo
- il colonialismo patriarcale degli industriali cattolici, Marzotto o Conte
Rossi, o Conte Camerini...Per non parlare dei Volpi di Misurata del Conte
Cini e poi dei borghesi Gaggia, Rosa delle Rose, Pinco e Pallino.
Nel '69 - '70 Valdagno si generalizza. La nuova jacquerie, fosse sabotaggio
in fabbrica o distruzione delle sedi del sindacato «giallo»,
o dei municipi che collaboravano con i padroni, pur ripetendo gesti di
sempre, dimostrava in questi anni, nel Veneto, una maturazione biopolitica
e un'ansia non più trattenibile di liberazione. Blocco delle autostrade,
barricate sulle vie delle provinciali maggiori, interruzioni dei nodi stradali
centrali: solo così, inserendosi e rappresentandosi all'interno
della nuova circolazione capitalistica, una nuova classe operaia si emancipava
da un millennio di servitù contadina. Non a caso la propaganda,
la lotta, l'organizzazione si fanno soprattutto sulle linee di trasporto
della forza lavoro e i nuclei che danno inizio alla lotte si formano nella
circolazione territoriale degli operai. Sono cose che sono sempre avvenute,
ma, qui nel Veneto, sono diventate pratica di organizzazione e di lotta.
Ma torniamo a Valdagno. Oggi possiamo davvero comprendere quanto quella
statua abbattuta abbia segnato un passaggio di libertà. La rivolta
aveva identificato nella distruzione del simbolo un passaggio ricompositivo
di classe. I lacci che impedivano l'espressione di nuove forme di vita
venivano strappati. Il Marzotto clericale patriarca, tirato in basso, rappresentava
la rottura con la pratica dell'assoggettamento morbido, cattolico, delle
catene congiunte dello sfruttamento e della pietà.
Rompevano, senza darlo a vedere ma comprendendolo fino in fondo - e
senza possibilità di ritorno - i nostri compagni di Valdagno con
il teologico-politico? Può darsi. Si trattava certo di gente strana,
operaia, contadina, migrante, antifascista, resistente, assoggettata alla
Chiesa ma libera nei suoi costumi...Dissero che erano arrivati studenti
da Trento a dare fuoco alla lotta - semmai era il contrario, c'erano operai
di Valdagno che erano andati a Trento per emanciparsi dal lavoro di fabbrica
e per togliersi dal naso la puzza di quei sindacati «gialli»,
pagati da Marzotto, che dominavano in fabbrica. Di quell'evento noi subiamo
ancora oggi nel Veneto infinite conseguenze, nel bene e nel male.
Toni Negri, "il manifesto", 26 aprile 2008