Maria Grazia Meriggi, "il manifesto", 8 dicembre 2011
Due premesse per questo bellissimo libro di Paolo Favilli, In direzione ostinata e contraria (DeriveApprodi, pp. 240, euro 17). Non è accademico, perché rigoroso e fedele nel linguaggio alla complessità dei suoi temi: questo stile è un omaggio alla migliore tradizione comunista, quella dei militanti e iscritti con la scuola dell'obbligo che leggevano Rinascita e si formavano così in una disciplina di uscita collettiva dalla subalternità. Ed è scritto secondo la migliore tradizione della contemporaneistica italiana: attraverso una specie di andirivieni, di distacco dall'immediato per tornarvi con migliori strumenti. Finalmente! Sia ben chiaro, l'autore non scrive dal punto di vista di una componente del partito, ma colloca la storia di «Rifondazione comunista» nella vicenda del rapporto fra mondi del lavoro, organizzazioni, movimento operaio, comunismo critico.
Le componenti tumultose
Il primo capitolo, essenziale, si apre con una citazione di Adam Ulam,
storico antisovietico che scrive, nel '75, che «nel vocabolario politico
moderno il termine "comunismo" è tra quelli che generano la maggior
confusione. Esso si presta ad assumere ed ha infatti assunto significati
diversi. Già prima della Rivoluzione bolscevica del 1917. Mentre
il "Dizionario del comunismo del XX secolo", parte dall'assunto che "il
comunismo sia un fenomeno sostanzialmente unitario nell'epoca compresa
tra il 1917 e il 1989-91, a partire dalle sue radici nell'esperienza dell'Unione
sovietica"». La rinuncia a uno dei criteri metodologici più
fecondi del sapere storico, quello delle «distinzioni», in
nome di un approccio a una sola dimensione, è il portato di un'esigenza
extrastoriografica, una scelta interpretativa che privilegia il momento
del giudizio (di condanna ovviamente) «su quello della comprensione
(...) il rifiuto di quel fenomeno invece che una sua analisi»: comportamento
intellettuale di tanti studiosi interpreti e sostenitori del «neoriformismo».
Il libro impone invece un confronto non nostalgico ma lontano da ogni rimozione
con i contenuti dell'Ottobre, con la contraddizione dell'uso emancipativo
di una esperienza piena di errori e anche delitti. Fin dall'inizio poi
Favilli problematizza, con riferimento a Labriola, il rapporto fra comunismo,
socialismo, democrazia inclusiva e declinazione che tali termini ricevono
nei diversi paesi.
Questo metodo di distanza simpatetica dalla storia tutta del comunismo
come esperienza del movimento operaio Favilli lo segue con particolare
intelligenza quando si tratta di analizzare la nascita, le origini anche
lontane e i vent'anni di vita di Rifondazione comunista. Soprattutto sono
belle e anche commoventi le pagine che rievocano la reazione tumultuosa
e largamente spontanea di migliaia di militanti che reagirono alla disgregazione
distruttiva di un collettivo politico che era anche un mondo: mettendo
in luce che proprio coloro che volevano soprattutto continuare ad essere
quello che da allora in poi si sarebbe chiamato affettuosamente «il
vecchio Pci» rifondavano innanzitutto se stessi mettendosi in moto
in prima persona senza le garanzie di un gruppo dirigente costituito. E
finalmente in questo libro le componenti di Rifondazione, con le loro «risorse
organizzative e politiche» in parte autosufficienti vengono descritte
e analizzate ognuna con la sua ragione, al di là ogni forzatura.
In nome del vecchio Pci
Anche le scissioni vengono sganciate dalla battaglia di personalità
e riportate a modi diversi - potenzialmente complementari ma di fatto spesso
difficilmente conciliabili - di intendere l'arduo compito. Ci sono i comunisti
riferibili a una parte della sinistra ingraiana e alla sua non trascurabile
componente attiva nel Manifesto - i nomi di Ingrao, di Magri e di Garavini
sono qui delle indicazioni di massima fuori da ogni personalismo. Convinti
e sempre tentati dal «restare nel gorgo» anche prima che la
(in)felice formula fosse inventata da Ingrao: per orrore del minoritarismo,
ma anche per difficoltà o resistenza a conseguire un'autonomia organizzativa:
essi hanno alimentato certamente la scissione dei Comunisti Unitari nel
'95 e hanno fornito la cultura e il linguaggio a quella ben più
dolorosa del 2008. L'ala cosiddetta «sovietica» ha in parte
alimentato la scissione del '98, del PdCI: è l'area di quelli che
hanno cercato di mantenere lo stile comunicativo e di lavoro del «vecchio
Pci», compresa l'estrema attenzione alle istituzioni e il ricorso
all'accusa di massimalismo che acutamente Favilli storicizza (e quindi
in qualche modo confuta) rivolta ai settori maggioritari di Rifondazione.
Ma quell'ala è a sua volta complessa e anche percorsa al suo interno
da storie complicate e non riducibili al «cossuttismo»: sono
compagni che hanno alimentato spesso per decenni una forte capacità
organizzativa e un legame intenso con settori importanti di operai e tecnici
e che hanno fatto del riferimento alla storia degli anni Cinquanta una
risorsa di autonomia culturale dal neoriformismo.
La scommessa apertasi con la presidenza Cossutta e la segretaria Bertinotti
di un intreccio fra queste storie, persa alla fine degli anni Novanta,
resta un momento ambizioso di sintesi: ma Favilli presta uguale attenzione
a quello che chiama il «comunismo fuori dal comunismo» o «comunismo
diffuso» cui è più sensibile la componente di Rifondazione
che viene da Democrazia Proletaria e che più si è accanita
nel cercare un rapporto con i movimenti, che ha alimentato la ricerca più
approfondita anche se qualche volta distruttiva sul tema di una forma partito
innovativa per la composizione di classe del capitalismo odierno.
La normalità operaia
Ne esce il quadro di un partito, che come disse una volta Vittorio Foa a una riunione di quella che sarebbe poi stata Democrazia proletaria, è come il termometro che sta fuori nel freddo, a segnalare con tempestività i mutamenti di clima, senza protezioni. Favilli dunque legge la vicenda di questa originale e tenace impresa collettiva sullo sfondo della necessità di una critica radicale e organizzata alle attuali forme del dominio del capitale. Si raccomandano poi alla riflessione del lettore le ultime pagine cui l'autore affida le sue riflessioni sul riformismo come vita quotidiana del movimento operaio - un riformismo conflittuale e contestativo (Togliatti diceva «forma della ordinarietà socialista») - e sui momenti rivoluzionari come «possibilità aperte, le libertà della storia». Fra le quali, al di là delle secche paralizzanti del neoriformismo cioè del «riformismo niente» va costruito un ponte in un cantiere di cui Rifondazione comunista costituisce probabilmente il lievito.