Da un paio di mesi è presente nelle librerie il primo volume
(a cura di Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, Gli autonomi. Le storie,
le lotte, le teorie, vol. I, DeriveApprodi, Roma 2007, pp. 463) di un’opera
– suddivisa in tre parti, le cui successive prevedono le riflessioni teoriche
dei ‘capi” e la raccolta di documento del periodo in un DVD – che ripercorre
la tumultuosa storia del variegato arcipelago che contraddistinse la teoria
e la pratica dell’Autonomia operaia nel corso degli anni ‘70: dal suo costituirsi,
a Bologna nel marzo del 1973 in occasione del primo convegno nazionale
delle assemblee e degli organismi autonomi di fabbrica e di quartiere,
sino al suo progressivo dissolversi che avrà come data d’inizio
il 7 aprile 1979, a tutti noto in virtù del famoso “teorema Calogero”.
I curatori dell’opera, Sergio Bianchi e Lanfranco Caminiti, hanno espressamente
inteso affrontare un tema ancor oggi spigoloso e foriero di molteplici
e controverse letture, sottolineandone già nel titolo, Gli autonomi,
il carattere plurimo e screziato di un’esperienza che ha interessato migliaia
e migliaia di individui al punto da condizionarne non soltanto la loro
esistenza, ma anche la loro storia e la storia di questo Paese, da sempre
alle prese con “storie” dai contorni ambigui, criminali ed eversivi. Così,
dalle stragi di stato, ai golpe fascisti, passando per le politiche delle
grandi intese che videro il partito comunista italiano “farsi stato” (o,
per meglio dire, “gendarme”, “sgherro”, di un sistema sociale in aperta
crisi economica e politica), corse un fiume carsico costituito dalle lotte
dei lavoratori, degli studenti, del proletariato, che sfociò nella
contestazione sessantottina, tracimando nei successivi anni sino ad allagare
l’intera prateria, incrinando l’ordine costituito sino al punto da vederlo
pericolosamente barcollare dinnanzi alla violenza di una forza organizzata
autonomamente in tutti i settori della società capitalista. Poi,
la forza della violenza delle frange armate di un movimento rivoluzionario
che – sebbene per un breve periodo – seppe fare a meno delle avanguardie,
dimostrando di non aver necessità di nessun partito (tanto meno
clandestino e militare), riuscì a scompaginare, neutralizzandola,
la ricchezza propositiva di una soggettività che nell’azione collettiva
e di massa aveva finalmente ritrovato la propria dignità nell’appartenenza
ad un altro modo d’intendere la vita.
Chi, da tempo, si occupa di questa storia ha in più occasioni
sottolineato l’anomalia della realtà italiana nei confronti di un
processo rivoluzionario che ebbe una vampata di fuoco durante la fine degli
anni sessanta in tutte le contrade dell’occidente urbanizzato, ma che soltanto
in Italia riuscì a diffondersi nel tempo e nello spazio, continuando
la sua opera radicalmente trasformatrice sino alla fine degli anni ’70,
interessando non solamente i centri dello sviluppo economico/produttivo,
ma anche le periferie e il loro tessuto sociale. Un’anomalia che segnò
il passaggio repentino dal proletariato al lavoratore (l’operaio-massa),
dove durante gli anni ’60, l’emigrazione della forza lavoro nei grandi
centri industrializzati formerà un nuovo tessuto produttivo esprimente
nuove istanze sociali, per ritornare di seguito dal lavoratore al proletario
(l’operaio-sociale), quando la crisi petrolifera del 1973 divenne anche
l’occasione sfruttata dal sistema capitalistico per espellere – mediante
una ristrutturazione produttiva ammortizzata socialmente dalla cassa integrazione
– con gli operai e gli impiegati anche i loro rappresentanti politici e
sindacali protagonisti della stagione di lotte più significativa
per i loro contenuti rivoluzionari, a partire dal controllo diretto sui
posti di lavoro e continuare attraverso le rivendicazioni sul diritto allo
studio, alla casa, alla partecipazione diretta e senza alcuna mediazione
politica all’intera vita sociale.
Di questa anomalia gli autonomi sono sicuramente stati una componente
che ha saputo sintetizzare alcune problematiche determinate dalla crescita
di un movimento che attraverso tutte le fasi rappresentative del suo essere
soggetto politico (dall’assemblea generale al formarsi dei gruppi extra-istituzionali
di una sinistra fortemente influenzata dal mito della Resistenza) ha cercato
nuove possibilità organizzative veramente autonome dal politico
e per questo pericolose e destabilizzanti. Soprattutto se in grado di esprimere
i bisogni di un proletariato giovanile così disaffezionato al lavoro
che la crisi economica del ’73 rappresentò un’occasione per esprimere
una radicale conflittualità contro qualsiasi forma coercitiva che
fissasse la propria esistenza all’interno del ciclo riproduttivo della
merce. In tal modo dalle ronde proletarie contro il lavoro nero (allora
espresso attraverso la delocalizzazione produttiva attuata dalle grande
fabbriche) al rifiuto del lavoro (favorito anche dalla messa in cassa integrazione
di quote ingenti di proletari insofferenti al regime di fabbrica), alla
necessità di soddisfare bisogni indotti dalla società consumistica
(in cui le lotte per l’autoriduzione dei beni e dei servizi di prima necessità
si trasformarono in “espropri proletari”di generi voluttuari), rappresentarono
i momenti cruciali dell’autonomia dal politico assumendo una connotazione
rivoluzionaria che nel superamento della rappresentatività istituzionale
(Pci, Pdup, Dp) ed extra-istituzionale (Lc) fini per accorpare sia i “cani
sciolti” di queste organizzazioni politiche, quanto il proletariato giovanile
metropolitano attorno ad un’ipotesi movimentista espressa allora dai variegati
collettivi autonomi presenti nelle diverse realtà di fabbrica e
del territorio su scala nazionale.
Il libro, puntualmente, ricostruisce le tappe del percorso compiuto
dagli automi nel cercare di rappresentare le istanze più radicali
del movimento (e significativi sono i ventisei contributi che dalla ricostruzione
storica alla riflessione teorica, al racconto letterario, offrono uno spaccato
di quei turbolenti anni ’70 vissuti a Milano, Bologna, Torino, Padova,
Firenze, Roma, Napoli, Bari, Palermo…); tuttavia, se riesce a creare l’atmosfera
sociale che determinò lo spostarsi del conflitto per il controllo
del movimento dalle assemblee alle piazze, deficita e manca clamorosamente
nel riflettere sulle ambiguità dell’Autonomia operaia nel voler
incanalare, condizionare e dirigere istanze proprie di un movimento autonomo
e libertario per niente avvezzo al ruolo passivo e succube di chi ha voluto
assoggettarlo ai propri interessi egemonici, sfruttando il mito della violenza
in modo ambiguo: tra l’illegalità di massa e la lotta armata. Certo,
le tensioni politiche nazionali ed internazionali determinarono scenari
in cui il conflitto sociale difficilmente sarebbe potuto rimanere entro
l’alveo di un rivendicazionismo radicale in cui l’illegalità di
massa avrebbe costituito un momento riaffermante l’intransigenza e la forza
del movimento; la violenza fascista ed il terrore dei servizi dello Stato
al soldo di potenze straniere, sfibrarono la resistenza del movimento,
costringendolo in un cul de sac fra l’obbedienza cieca ad un antifascismo
militante fine a se stesso e ad un altrettanto colpo-su-colpo dai contorni
esistenziali ed iper-soggettivisti. In tal modo la questione della violenza
(che pomposamente avrebbe dovuto segnare il passaggio dalle armi della
critica alla critica delle armi) si trasformò in una ridicola –
e, al contempo, tragica – corsa alla conquista della piazza, dove i “servizi
d’ordine” mostrarono quanto la forza della violenza impedisca all’intelligenza
di esercitarsi nella violenza della propria forza. Con gli esiti che, purtroppo,
ben conosciamo.
Cosicché, se il libro curato da Bianchi e Caminiti aveva come
suo presupposto la presentazione in chiave storico-sociologico degli “autonomi”,
svelando – una volta per tutte – l’alone d’ambiguità che sempre
li ha contraddistinti), tale obiettivo è riuscito solo in parte.
Perché, al termine della lettura di un libro per lunghi tratti in
grado di far rivivere le tensioni e le emozioni che caratterizzarono gli
anni ’70 in Italia, quel che ancora rimane a raffigurare l’eteroclito movimento
dell’autonomia operaia non sono le lotte spontanee contro il lavoro nero,
contro il caro-vita, contro l’alienazione sociale del proletariato, bensì
la foto posta in copertina in cui persone col viso coperto da fazzoletti
e da passamontagna si allontanano, correndo, da un edificio bruciato alle
loro spalle. Forse dobbiamo aspettare l’uscita dei prossimi due volumi?
Gianfranco Marelli, "Rivista anarchica", N. 328, estate 2007