L'uomo nuovo nelle maglie larghe del dominio
Pubblicato dalla manifestolibri il secondo volume degli scritti inediti di Herbert Marcuse. Al centro, il rapporto tra marxismo e nuova sinistra, dove la «lunga marcia» nelle istituzioni serve alla formazione di una nuova soggettività L'utopia realizzabile che il filosofo tedesco scorgeva nella pratica dei movimenti di contestazione ha ceduto il posto alla lotta «arcaica-tradizionale» contro la modernità proposta dagli islamismi radicali
Sarebbe importante ricominciare a parlare di Marcuse. E c'è da
augurarsi che la meritoria pubblicazione, giunta ora al secondo volume,
dei suoi scritti e interventi inediti o pocoF noti, a cura di Raffaele
Laudani per la Manifestolibri, preluda a una generale ripresa d'interesse
per questo filosofo. Perché Marcuse non è stato soltanto
il più generoso dei teorici della Scuola di Francoforte, quello
che seppe sporcarsi le mani con la contestazione e i movimenti; è
stato anche un autore originale - e questo proprio in quanto scelse di
sporcarsi le mani. La sua originalità consiste nello sforzo di sbloccare
la teoria critica (da lui, nonostante gli apporti di diversa provenienza,
pur sempre identificata con il marxismo) grazie all'osservazione dei mutamenti
intervenuti nella realtà, restando fedele all'iniziale tensione
utopica e riflettendo sulle condizioni che avrebbero potuto rendere l'utopia
realizzabile.
È come se Marcuse avesse posto in revoca il precetto scrupolosamente
rispettato da Adorno - quello del non farsi immagini della redenzione,
del mondo liberato e pacificato, della società senza classi, o di
come altro si voglia chiamare l'utopia - per produrre una quantità
d'immagini teoriche, addirittura di parole d'ordine, in sintonia con i
fermenti degli anni Sessanta e Settanta. Così, per esempio: abolizione
del lavoro e avvicinamento del lavoro al gioco (in una prospettiva che
avrebbe dovuto dare nuova linfa a un marxismo ossificato); fine della «repressione
addizionale» (cioè di una repressione non strettamente necessaria
alla civilizzazione, come può essere quella che costringe i bambini
a lavarsi le mani prima dei pasti, ma aggiuntiva e tendenzialmente superflua,
frutto avvelenato del capitalismo e del dominio, che sottomette le pulsioni
di vita alle pulsioni distruttive e di morte); «gran rifiuto»
inteso come capacità di convertire l'aggressività dalla «servitù
volontaria» sadomasochistica alla critica del sistema; proposta di
una nuova sensibilità e di una nuova antropologia, ossia di quell'«uomo
nuovo» messo oggi per lo più in relazione con incubi alla
Pol Pot, ma che una trentina d'anni fa parve configurare un'alternativa
sia ai totalitarismi sia alla cosiddetta società dei consumi.
Integrati nel sistema
Questo secondo volume, intitolato Marxismo e nuova sinistra (pp. 368,
euro 35, con postfazione di Sandro Mezzadra. Il primo volume aveva l'impegnativo
titolo di Oltre l'uomo a una dimensione), offre la possibilità,
come già il primo, di addentrarsi nel laboratorio teorico e politico
marcusiano. La tesi di fondo del discorso di Marcuse è fortemente
eterodossa rispetto al marxismo classico: la classe operaia - soprattutto
negli Stati Uniti, cioè nel paese del capitalismo maturo e della
«società opulenta» - non è più una classe
rivoluzionaria. Forse lo è ancora potenzialmente, ma nei fatti è
ormai integrata nel sistema. Di conseguenza, negli Usa come in Europa,
avanguardie della protesta sono l'opposizione studentesca e gruppi d'intellettuali,
i quali tuttavia, pur avendo un importante ruolo di «catalizzatori»
nel promuovere il mutamento radicale del sistema, non possono certo essere
considerati i surrogati di un soggetto rivoluzionario che non c'è.
Ciò avviene nel momento in cui si realizzano le condizioni previste
da Marx in quel famoso brano dei Grundrisse, che assegna alla scienza e
alla tecnologia - quindi all'automazione applicata ai processi di produzione
- un ruolo virtualmente liberatorio rispetto alla «base miserabile»
data dal lavoro salariato alla valorizzazione del capitale. Ma proprio
nel momento in cui, grazie alla tecnologia, il lavoratore potrebbe diventare
soltanto il regolatore «giocoso» della produzione, affrancandosi
dalla fatica, proprio allora vengono a mancare la coscienza rivoluzionaria
e le condizioni soggettive per l'abolizione della servitù salariata.
L'utopia si allontana nel momento in cui diventa realizzabile. I movimenti
di contestazione - del resto allo stesso titolo di quella che all'epoca
appariva una diffusa e crescente disaffezione nei confronti del lavoro
- ne tengono accesa la speranza.
La proposta finale di Marcuse è dunque quella di una lunghissima
marcia attraverso le istituzioni, per riprendere lo slogan del leader studentesco
tedesco Rudi Dutschke: una strategia riformista di educazione delle masse
e di lenta formazione, da parte dei movimenti, di una nuova soggettività.
Una strategia che eviti la questione del rovesciamento del sistema e della
presa del potere, caratteristica del vecchio marxismo, quello che aveva
nelle previsioni dell'impoverimento crescente del proletariato, o della
caduta tendenziale del saggio di profitto, la sua fallace stella cometa.
Perché «la realizzazione del comune interesse alla liberazione
non costituisce più il compito storico privilegiato di una classe
particolare: è, piuttosto, il compito di gruppi e individui provenienti
da tutte le fasce della popolazione dipendente».
Siamo proiettati nel bel mezzo della situazione odierna. Marcuse scriveva
queste parole nel 1979, che è l'anno della sua morte. Il filosofo
tedesco, dal suo osservatorio americano, non si era limitato a dialogare
con i gruppi di opposizione, mettendone a fuoco semplificazioni ed errori;
aveva anche indicato una via. Possiamo scoprirlo oggi leggendo questi suoi
testi. E possiamo naturalmente vedere anche i punti in cui il suo discorso
non ha colto nel segno. Ci si può domandare: l'uso di concetti a
maglie molto larghe, come quelli di capitalismo e di dominio, non finisce
con l'operare la riduzione di tutti i rapporti di potere a una e una forma
soltanto? La nozione di repressione, usata in modo ampio, non nasconde
il fatto - come ha sottolineato Foucault, proprio in polemica con Marcuse
- che il potere spinge anche a vivere, che ha anche un significato «produttivo»
e non solo distruttivo? E il confronto con il femminismo proposto da Marcuse
non è, anche qui, troppo incentrato sulle coordinate freudiane della
repressione pulsionale, la cui fine, insieme con la fine del capitalismo,
aprirebbe di colpo al superamento della dicotomia tra il maschile e il
femminile?
D'altronde l'anno della morte di Marcuse è anche l'anno della
rivoluzione iraniana. L'uomo nuovo, quello che sembrava profilarsi anche
dai movimenti di liberazione nel Terzo mondo, cede il passo all'«uomo
vecchio», o per meglio dire arcaico-tradizionale, riproposto e reinventato
dai vari islamismi radicali. A questo punto la teoria critica deve per
forza di cose riprendere le misure, fare l'inventario, arrivando eventualmente
a modificare il suo impianto concettuale. Com'è stata possibile,
nel pieno del Novecento e nel pieno di una modernizzazione che sembrava
inarrestabile, una «rivoluzione» (usiamo pure le virgolette,
se questo ci può consolare) contro la modernità e contro
la sua presunta tendenza alla secolarizzazione? Com'è stato possibile
un così aggressivo ritorno delle religioni?
Il tramonto della modernità
A questo punto le strade teoriche si biforcano. C'è chi ritiene,
magari puntando ancora sul Marx dei Grundrisse, che si possa vedere tuttora
operante un unico principio del dominio mondiale, quello della forma merce,
entro cui prenderebbero corpo anche i nuovi fantasmi del passato arcaico-tradizionale.
Si tratterebbe pur sempre dell'alternativa tra la rivoluzione e la catastrofe
che, in mancanza della prima, ha dato spazio alla seconda. Naturalmente
ci sono molte pezze d'appoggio per sostenere questa tesi, che appare comunque
tranquillizzante rispetto alla questione dell'impianto teorico, perché
spinge ad aggiornarlo, non a modificarlo radicalmente.
Un'altra posizione consiste nel partire proprio dalle analisi marcusiane
per domandarsi se il marxismo, la teoria della secolarizzazione, la teoria
freudiana - insomma tutti gli ingredienti della teoria critica «classica»
- non abbiano ormai dato tutto quello che potevano dare. Un esempio soltanto:
quello dell'antropologia.
È oggi sostenibile la prospettiva di un'antropologia filosofica
di stampo universale, che veda cioè gli esseri umani come qualcosa
di naturale e insieme di sociale allo stesso modo in tutti i luoghi della
terra, prescindendo dalle differenze culturali? Nel senso in cui l'antropologia
culturale è solita usare il termine «cultura», possono
essere ricompresi sia i fenomeni economici sia quelli religiosi, evitando
di porli su piani distinti, come avviene in Marx, che vedeva nel capitalismo
il grande distruttore del passato e delle tradizioni culturali locali.
Oggi la modernità occidentale, cioè la forma di cultura
in cui è nato e cresciuto il capitalismo, appare meno pervasiva
di ciò che si poteva credere trent'anni fa. Essa ha trovato e trova
ovunque punti di resistenza insospettati - anche se non esattamente quelli
che erano all'ordine del giorno negli anni Sessanta e Settanta. Il problema
è che questi punti di resistenza alla modernità tout court
non esprimono un interesse alla liberazione, per dirla con Marcuse, ma
hanno preso la forma di un batti e ribatti tra le tradizioni culturali,
più o meno inventate o reinventate, e la modernità. Perciò
gli oppositori, qui in Occidente, sono indotti ad accentuare il carattere
moralistico della loro protesta nella speranza, al momento in un certo
senso più utopistica che utopica, che prima o poi dall'altra parte
sorgano dei movimenti analoghi con i quali dialogare.
Rino Genovese, "il manifesto", 25 aprile 2007