Non ci si sottrae agli anniversari. Soprattutto quando parlano di noi.
Il ’77 allora, sintesi troppo forzata di eventi che stanno prima o dopo
a seconda delle localizzazioni, occorre dispiegarlo del tutto perché
possa darci ancora qualche frutto maturo. Perché lì si condensa
una vicenda che ci parla ancora oggi, di cui non si sono comprese del tutto
le ricche implicazioni. Occupiamoci qui solo di questo, della disamina
storica e dei relativi giudizi se ne occuperanno certamente altri accentuando
il carattere mediatico insito in ogni celebrazione. Innanzitutto l’aspetto
doppio del ’77: ultimo grido di un movimento di massa che chiude un ciclo
decennale, evento che squaderna, ancora in modo ambiguo e in controluce,
tensioni e tendenze nelle quali siamo ancora immersi. A prendere più
seriamente e con maggiori capacità previsionali, alcuni elementi
allora emersi, forse oggi saremmo meno in affanno. Avviene in definitiva
che il processo di ristrutturazione del capitale avviato alcuni anni prima
dopo la crisi del petrolio, mostra i suoi primi segni inequivocabili e
si porta dietro una mutata composizione di classe.
Allora pochi lessero la crisi come conseguenza di quella mutazione,
si pensava piuttosto ad un inceppamento dello sviluppo economico e soprattutto
pochi capirono che la mutata composizione produceva comportamenti oppositivi
rinnovati in parte fuori dalla tradizione del movimento operaio classico.
Perno di questi atteggiamenti è lo sguardo rinnovato nei riguardi
del lavoro e nel contempo l’emergenza di quell’esercito di lavoratori che
rifiutando la operosità manuale mettono al lavoro il proprio cervello.
Questi processi che proprio nel ’77 trovarono un’ immediata opposizione
sono stati in seguito governati in toto dal capitale. In questi termini
si misura la nostra epocale sconfitta. Non essere riusciti ad elaborare
quel grumo che lì si presentava per la prima volta diventa termine
imprescindibile della nostra perdita di parola. Così, tra l’altro,
siamo costretti a subire l’interpretazione interessata e ignorante di chi
associa meccanicamente gli anni ’70 con la violenza, come se non vi fosse
stato nient’altro, compiendo così una delle più impressionanti
operazioni di riduzione della complessità in un unico imbuto interpretativo:
la violenza appunto.
Si diceva prima della doppiezza del ’77 e non di ambiguità.
Perché i processi quando insorgono si presentano almeno doppi e
dispiegano il terreno della lotta dove si esce battuti o in grado di un
esercizio di egemonia. Cosa è la tematica della flessibilità,
che ancora ci inchioda, se non uno di questi termini? La fabbrica perde
la sua essenza di mito fondativo, l’identità viene frazionata e
non più racchiusa nella sfera totalizzante del lavoro. Ciò
che venne definito come “non garantito” non sembrò soltanto una
perdita, il lavoro si torceva alle esigenze individuali e non viceversa.
Questo è il vero discrimine con il movimento operaio organizzato,
altro che la violenza. L’incomprensione radicale e la frattura avviene
su concetti come sviluppo, responsabilità, sacrifici. Questo il
santino Berlinguer non coglie e da buon stalinista bolla tutto il movimento
come “untorelli”. Lì inizia anche lo scivolamento semantico del
termine “sinistra” che non rappresenterà più quanto di buono
e progressivo emerge nella società ma si caratterizzerà sempre
più come conservativo dello status quo fino alle miserie del presente.
Ribaltamento della dualità struttura-sovrastruttura
C’è un altro aspetto che vale la pena accennare, anche questo
sintomatico dell’importanza della partita che allora si giocò. Riguarda
l’ampio spazio della comunicazione e il ribaltamento della dualità
struttura-sovrastruttura. I protagonisti del movimento si rivelano nipotini
attenti e coscienti del Debord della Società dello spettacolo lì
dove assumono lo spettacolo non come prodotto culturale ma come modello
produttivo, quindi luogo principe dello scontro con il potere. Ciò
si sostanzia nel mutamento della funzione del linguaggio che da rappresentazione
diviene pratica della lotta fra le classi e si sminuirebbe assai il valore
di questa istanza se si limitassero gli effetti soltanto alla cosiddetta
ala creativa del movimento. Non è patrimonio degli indiani metropolitani
che in effetti mettono in scena se stessi, è l’intero movimento
che comprende l’enorme importanza che da lì assumeranno i mezzi
di comunicazione non più e soltanto strumenti della formazione bensì
spazio della materialità della lotta e dei rapporti di potere.
Il movimento arrivò per primo su questo terreno ma venne spodestato
anche dalla concezione infarcita di moralismo e statalista della sinistra
ufficiale. Questo ci dice l’invenzione delle radio libere che non producono
informazione ma la ricevono e la diffondono. Il tutto ebbe il fragore dell’aria
fresca nel mondo paludato dell’informazione di stato, ma venne bloccato
con le incursioni della polizia e da nessuno difeso a dovere. Il risultato
è stato Berlusconi. Pochi compresero la portata della questione,
l’aggressione ad un ordine infinitamente più importante di quello
dettato dagli equilibri del quadro politico, quell’ordine del discorso
che Foucault ci aveva squadernato, dove si annidano rapporti di potere
che il politico difficilmente riesce a toccare. Cade per un attimo la distinzione
afasica fra cultura alta e cultura di massa, la pratica del movimento consente
di appropriarsi di un linguaggio che nelle varie forme era stato fino ad
allora di pertinenza delle avanguardie partendo dalle canzoni pop, scritte
murali, fumetto, etc.
Il pensiero più avvertito scende per strada, Deleuze, Guattari,
Foucault vengono consumati nelle assemblee, come per altro loro stessi
auspicavano. D’altra parte si sa, i movimenti eversivi travolgono, anche
solo per poco tempo, gerarchie e significati e questo è il loro
aspetto più interessante, al di là degli sbocchi politici
e degli equilibri raggiunti. È il divenire che importa non il divenuto.
In fondo l’occhio dell’oggi dovrebbe indagare questi aspetti e non soffermarsi
esclusivamente sull’occasione perduta.
Rimangono fuori da queste note tante, troppe cose che sarebbe il caso
di riprendere in seguito, ma era interessante, per me, rilevare una certa
dinamica multipla del movimento che si rispecchiava nella relazione essendo
in modo esasperante individualista, creativo fino all’irrisione e nichilista
fino all’autodissoluzione, politico fino al midollo pur rifiutando violentemente
gli strumenti che la politica gli metteva a disposizione. Gli studi sui
movimenti sociali nell’Italia del dopoguerra profondono a larghe mani sul
’68 e i suoi sviluppi, per trovare qualcosa sul ’77, a parte la memorialistica
dei protagonisti, occorre cercare sotto la voce “anni di piombo”. Non c’è
da stupirsi, è frutto di rapporti di forza, come sempre è
la ricostruzione storica. Ma è anche il segno di un rimosso. La
portata di quel movimento è stata dirimente, la sua sconfitta ha
aperto le porte a ciò che è avvenuto dagli anni ’80 fino
ad oggi. Il liberalismo ha trionfato portando a compimento elementi che
lì si presentarono spogliandoli della loro carica antagonista. Ecco
perché rappresenta un rimosso e si delinea così come vera
emergenza evenenziale: niente prima e niente dopo, desiderio allo stato
puro, orgasmo sociale.
Enzo Macaluso, "rivista anarchica", maggio 2007