Fin dalle prime pagine di un libro, scritto a più mani da Tommaso
Di Francesco, Edoarda Masi, Alain Badiou, Alessandro Russo, Angela Pascucci,
Rossana Rossanda, K. S. Karol, ("L’assalto al cielo. La rivoluzione culturale
cinese quarant’anni dopo", Roma, Manifestolibri, 2005, pp. 204, euro 20.00),
ci viene segnalato che nella Cina odierna di due cose assolutamente non
si può parlare: degli avvenimenti di Piazza Tian An Men del 1989
e della rivoluzione culturale del 1966. Quando parliamo di rivoluzione
culturale dobbiamo distinguere due aspetti che all’epoca si sovrapposero.
Il primo riguarda l’influenza che essa esercitò sui movimenti di
contestazione nell’occidente capitalistico negli anni Sessanta e Settanta
del ‘900 e sulle formazioni della nuova sinistra. Si trattò di un
evento che ancora oggi fa dire ad Edoarda Masi che “nulla è necessario
nella storia, tutto è possibile”, fu l’inizio di un rivolgimento
che dalla Cina arrivò a parlare fino a noi occidentali, infatti,
secondo Alain Badiou, la corrente maoista fu “l’unica vera creazione politica
degli anni Sessanta e Settanta”. Si trattava della riscoperta dell’autonomia
del proletariato, dell’egualitarismo, della fine delle gerarchie e della
divisione del lavoro, del tentativo di riequilibrare la rottura storica
tra città e campagne, del potere dei movimenti, unica fonte di legittimità
dei partiti operai; tutti elementi che non potevano non esercitare un richiamo
e un’influenza sui movimenti dell’Occidente del ’68 e del ’69.
Il secondo riguarda ragioni e dinamica proprie dell’evento, collocato
nella realtà cinese. I movimenti e le formazioni della nuova sinistra
si appropriarono di alcuni aspetti della rivoluzione culturale trascurando,
nella maggior parte dei casi, una lettura contestualizzata e riferita al
caso storico, politico e sociale specifico. Il libro in questione è
invece decisamente orientato in questo senso. In fondo, volendo semplificare
con un parallelismo, la Cina di Mao e della rivoluzione culturale rappresentò,
per un pezzo importante della nuova sinistra, ciò che l’Urss aveva
rappresentato per i comunisti. Per la nuova sinistra, però, quel
“mito” ebbe una durata minore: iniziò nella prima metà degli
anni Sessanta e s’infranse nella prima metà degli anni Settanta.
Riforma o rivoluzione?
Nelle varie esperienze storiche che si sono susseguite di “riforma-rifondazione”
del socialismo all’interno delle società socialiste (dall’Ungheria
del 1956, alla Cecoslovacchia del 1968) la rivoluzione culturale si presentò
come un fenomeno che non aveva precedenti nelle società a socialismo
reale. L’elemento caratteristico consisteva in una straordinaria combinazione
di iniziative dal basso e sollecitazioni dall’alto ai fini di una lotta
ai vertici e di un movimento dal basso che tendeva inevitabilmente ad acquistare
una dinamica propria. Un fenomeno dove le forze in campo si muovevano in
un ambito in cui il confine riforma-rivoluzione del sistema non era ben
definito e dato una volta per tutte, poiché forte era la rimessa
in discussione del potere, di rigenerazione della politica, di “rifondazione”,
per dirlo con le parole d’oggi, del comunismo con l’attacco diretto al
ruolo onnivoro del partito-regime tipico di tutte le esperienze del socialismo
reale e con il rilancio del ruolo e dell’identità di potere dei
movimenti di massa. Si tenga presente che tale evento accadeva pressoché
in simultanea col ‘68 cecoslovacco e le lotte studentesche e operaie che
si sviluppavano in Polonia nel 1969-’70. In tutti questi casi, forte era
la critica ad alcuni aspetti del regime socialista, ma altrettanto forte
era la volontà “riformista” nell’ambito di un sistema che, a priori,
non veniva certo rifiutato, se mai andava riformato.
In quest’ambito il libro dedica attenzione all’esperienza della Comune
di Shanghai, un episodio incompiuto che proponeva una forma alternativa
di potere al centralismo di partito, e si pone la domanda se il movimento
voleva creare nuove organizzazioni o si limitava a esigere una rigenerazione
del partito. Le nuove organizzazioni che sorgevano non erano considerate
temporanee e questo prova che il gruppo maoista, nell’agosto del 1966,
prevedeva, probabilmente, la fine del monopolio politico del partito. Organizzazione
permanenti dal basso, dunque, non temporanee, soggette alla democrazia
di massa, e non all’autorità del partito, come dimostrava il riferimento
alla Comune di Parigi.
Letture e interpretazioni
Due letture, contrapposte, hanno caratterizzato l’interpretazione
dell’evento: la rivoluzione culturale come movimento strumentale suscitato
dai vertici del Partito Comunista Cinese (PCC) ai fini dello scontro intermo
tra le fazione e la rivoluzione culturale come movimento unicamente spontaneo,
spinta della base, che investì i vertici del partito. A questa lettura,
per ovvie ragioni riassunta in modo schematico, oggi sembra sostituirsi
un giudizio più articolato.
Lanciata nel maggio del 1966, quando sette giovani docenti e
studenti universitari affissero il primo manifesto, la nascente rivoluzione
culturale attraversò e si inserì in un PCC, al cui interno
regnavano divisioni e frazioni contrapposte circa i grandi indirizzi di
politica economica e sociale da perseguire. Essa fu lanciata dal “basso”,
dentro l’università di Pechino dai movimenti più intransigenti
di studenti e quadri operai e contadini, e si combinò con l’“alto”.
Lo stesso Mao Tse Tung legittimò la protesta dichiarando che essa
rappresentava “il manifesto della Comune di Parigi degli anni Sessanta
del ventesimo secolo”. Il 5 agosto affisse alla porta del comitato centrale
il suo dazebao personale: “bombardate il quartier generale”. Dalla sessione
del CC nasce il famoso documento in 16 punti. Si realizzò così
l’incontro tra una parte del gruppo dirigente comunista guidato da Mao
e una generazione; tra quella parte del gruppo dirigente messa in crisi
in seno all’apparato centrale dal fallimento della politica del “grande
balzo in avanti” e i giovani più scolarizzati, quelli degli istituti
secondari superiori e di formazione professionale, concentrati soprattutto
nelle grandi città, di età compresa tra i 14 e i 22 anni,
la prima generazione interamente formatasi dopo la rivoluzione del 1949.
Quale periodizzazione?
Dal punto di vista di una storia dei vertici del PCC l’evento era da
collocarsi tra il 1962 e il 1969. Nel 1962 Mao dovette cedere la direzione
effettiva del paese al presidente della repubblica Liu Sciaoqi, rimanendo
presidente di un partito che era però prevalentemente dominato da
elementi fedeli a Liu Sciaoqi e al segretario generale Deng Xiaoping, mentre
il governo del paese era guidato da Zhou Enlai, che tendeva a presentarsi
come un moderato al di sopra delle fazioni. Dalla parte di Mao stava, invece,
Lin Biao, capo dell’Esercito popolare di liberazione. In mezzo stava la
rivoluzione culturale del 1966. Nel 1969 il IX congresso del PCC sanciva
l’istituzionalizzazione di alcune acquisizioni del 1966 e si ridefinivano
i ruoli ai vertici del partito e del governo fino alla cesura data dalla
morte di Mao nel 1976.
La periodizzazione, relativa alla rivoluzione culturale, che consegue,
racchiusa nel decennio 1966-1976, dalla nascita delle Guardie Rosse alla
morte di Mao, è discutibile. Se si osserva il fenomeno non dal punto
di vista di una storia del vertice del partito e del governo, ma da quella
del movimento, essa era già finita nel 1968, quando all’iniziale
libertà di confronto tra le diverse tendenze che si confrontavano,
cominciò a sostituirsi la tendenza alla militarizzazione e all’azione
incontrollata da parte di gruppi d’urto, violenti e persecutori, l’iconoclastia,
la persecuzione delle persone e la rivoluzione culturale fu, alla fine,
sconfessata per la sua irrisolutezza e disordine dallo stesso Mao e venne
sconfitta. Interessante in merito è il saggio di Alessandro Russo,
La scena conclusiva, Mao e le guardie rosse nel luglio 1968, un resoconto
del confronto avvenuto il 28 luglio 1968, tra Mao e il Gruppo centrale
incaricato della Rivoluzione Culturale e dall’altro i cinque principali
dirigenti delle organizzazioni delle Guardie rosse delle università
pechinesi. Quella riunione segnò una cesura fondamentale: quel giorno
ebbe termine la sequenza principale della rivoluzione culturale. Tale sequenza
era stata caratterizzata dall’esistenza di organizzazioni politiche indipendenti,
le Guardie Rosse, che proprio dopo questo incontro furono poste sotto controllo,
per poi essere sciolte poco dopo. Con la rivoluzione culturale, scrive
Tommaso Di Francesco, si era delineata la possibilità di modernizzare
il paese sulla base di uno sviluppo fondato sull’egualitarismo e sul controllo
dal basso della politica e dell’economia, secondo il modello della nuova
Comune di Parigi, come la chiamavano i giovani rivoluzionari.
Poi venne il resto, si aprì un altro ciclo. Nel settembre del
1971 fu eliminato il successore ufficialmente designato a Mao, Lin Biao
(ufficialmente morto in un incidente aereo); nel 1973 ritornava al posto
di vice primo ministro Deng Xiaoping e con lui si reintegravano molti dei
quadri messi sotto accusa e destituiti durante la rivoluzione culturale,
liquidati come revisionisti. Nel 1976 i quattro, guidati dalla moglie di
Mao, Jang Quing, tentavano di impadronirsi del centro sfruttando l’opportunità
che si apriva col vuoto di potere che separava la morte del primo ministro
Zhou Enlai, nel gennaio 1976, da quella di Mao in settembre; già
il mese dopo i “quattro” erano diventai una “banda”, arrestati e in attesa
di processo; a Mao succedeva Hua Guofeng. Cominciava a delinearsi il profilo
della Cina odierna.
Diego Giachetti