Quarant’anni fa Giuseppe Pinelli volava dal quarto piano della sede della polizia milanese. Per un «malore attivo» dice la sentenza che ha chiuso il caso. Oggi un libro di Adriano Sofri ripercorre le tante menzogne e contraddizioni dei «servitori dello stato».
«Quando hai finito di leggere tutte queste pagine, ragazza – sei
stata molto gentile, molto paziente – mi hai fatto le tue osservazioni,
e poi avevi qualcosa di più importante da dirmi, ma si vedeva che
esitavi. Mi sono messo a ridere, ti ho invitata a dirlo, qualunque obiezione
fosse. Non è un’obiezione, hai detto, è una domanda. Che
cosa pensi che sia successo, quella notte, al quarto piano della Questura?
Ti rispondo. Non lo so».
Così si chiude il libro La notte che Pinelli di Adriano Sofri.
Un libro che mette in evidenza le innumerevoli contraddizioni di chi era
presente al momento del volo di Giuseppe Pinelli la notte del 15 dicembre
1969. In quel quarto piano della questura di Milano che cosa è realmente
successo al di là delle palesi menzogne dei poliziotti presenti?
Sofri onestamente dice «non lo so». Ma tutta la ricostruzione
che l’ex leader di Lotta continua mette in piedi ci dà una semplice
verità: se i responsabili mentono vuol dire che nascondono qualcosa
e allora è lecito, è giusto sostenere che siano colpevoli.
Ma fermarsi ai poliziotti ((Antonino Allegra, Luigi Calabresi, Vito Panessa,
Pietro Mucilli, Carlo Mainardi, Giuseppe Caracuta) e carabinieri (Savino
Lograno) non basta, perché quanto sono innocenti questori (Marcello
Guida), giudici (Giovanni Caizzi, Antonio Amati, Gerardo D’Ambrosio), uomini
dei servizi segreti (Federico Umberto D’Amato, Elvio Catenacci)? Chi ha
messo in atto depistaggi se non i servizi segreti e chi può ragionevolmente
sostenere che i giudici abbiano cercato di fare luce e non invece di nascondere?
Le sentenze (soprattutto quella di D’Ambrosio) sono lì, basta leggerle
per accorgersi che non stanno in piedi. Eppure quella è la «verità
processuale», non certo la verità storica. Per fortuna.
Ma sono passati quasi quarant’anni dal dicembre 1969 e la memoria di
quei fatti si affievolisce, cioè quello che gli uomini al potere
(ieri e oggi) vogliono: far dimenticare. Perché i morti nella Banca
nazionale dell’agricoltura di piazza Fontana e il morto di via Fatebenefratelli
sono il segno tangibile (e macabro) della criminalità del potere,
quel potere che non esita di fronte ai morti quando si sente messo in discussione.
E infatti il libro di Sofri inizia così: «Forse l’Italia
non sarà mai un paese normale. Forse è il paese in cui tutto
diventa normale». Ma proprio per questo mantenere la memoria su piazza
Fontana significa mantenere nel discorso sociale e politico la criminalità
del potere. E mantenere la memoria su Pinelli ha una rilevanza storica
che va molto al di là di questo «onesto miltante anarchico».
Quale memoria storica?
Memoria storica, però, significa anche affiancare alle tante
onorificenze per il commissario Calabresi (monumento nel cortile della
questura milanese, medaglia, francobollo, lapide e stele a Milano, viale
a Roma…) il ricordo di chi era e cosa faceva Calabresi.
Calabresi un buon padre di famiglia? Non ho dubbi a crederlo.
Calabresi un devoto cristiano? Non ho dubbi a crederlo.
Calabresi un fedele servitore dello stato? Non ho dubbi a crederlo.
Ma che cosa significava essere un fedele servitore dello stato nel
1969?
Significava incolpare e arrestare quattro giovani anarchici per le
bombe del 25 aprile alla stazione Centrale di Milano e alla Fiera campionaria.
Significava costruire una falsa teste, Rosemma Zublena, per incolpare
quei quattro anarchici. Teste poi sconfessata in tribunale tanto che ammetterà:
«Io non fatto che ripetere quello che sapeva Calabresi». Significava
creare un informatore prezzolato da un ex anarchico, Enrico Rovelli, nome
in codice Anna Bolena, per screditare Pinelli.
Significava cercare di incastrare, con il suo capo Allegra, Pinelli
per gli attentati a dieci treni nella notte fra l’8 e il 9 agosto. E, particolare
non irrilevante, sostenere subito dopo la bomba di piazza Fontana che quell’attentato
era opera di anarchici. Significava chiedere con insistenza ai fermati
notizie su «quel pazzo di Pietro Valpreda».
E perché lo diceva e teneva illegalmente in questura Pinelli?
Perché era stato deciso che per colpire quella sinistra troppo «rumorosa
e invadente» si doveva creare il terrore con un fatto clamorosamente
criminale. E chi stava dietro a queste manovre? Ricordate quel Federico
Umberto D’Amato, capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno?
Ecco il nome di un infaticabile tessitore di trame.
Ma questa è storia… storia sempre più lontana, sempre
più sbiadita. Foto ingiallite, volti che pochissimi riconoscono,
pagine cariche di polvere. E i giovani non sanno.
Sofri opportunamente nel suo libro riporta i risultati di due sondaggi
fra mille studenti delle medie superiori condotti dall’Istituto per la
storia contemporanea di Sesto San Giovanni e dall’Istituto Piepoli. «Nel
2000 il 43 per cento (di quel 75 per cento che diceva di aver sentito nominare
la «strage di Stato») attribuiva la strage di piazza Fontana
alle Brigate rosse, il 20,5 alla mafia, il 25 agli anarchici, il 23 ai
fascisti e il 9 ai servizi segreti. Nel 2006 (quando gli studenti che dicevano
di aver sentito nominare la strage di Stato erano scesi al 58 per cento)
la strage veniva attribuita alle Brigate rosse dal 42 per cento, alla mafia
dal 39, agli anarchici dal 22, ai fascisti dal 18,6 e ai servizi segreti
dal 4,3 per cento».
Allora conservare la memoria significa non accettare l’ennesima riscrittura
della storia. Una riscrittura fatta sia dai governi di destra sia da quelli
di sinistra. Un’opera «meritoria» in cui destra e sinistra
si contendono il primato.
Senza memoria una persona, una società diventano una cosa. Senza
contesto. Senza discorso.
Luciano Lanza, "rivista anarchica", n. 343, aprile 2009