Si tratta di un libro stimolante, che pone più problemi, nel
senso di ipotesi di lavoro e di ricerca, di quelli che risolve. In primo
luogo, meritatamente, "diluisce l'evento '68", collocandolo in una periodizzazione
lunga di almeno vent'anni: i decenni Sessanta e Settanta. Nell'analisi
di questo ventennio propone giustamente l'utilizzo di tre concetti, da
impastare tra loro: rivolta generazionale, rivolta di genere, rivolta di
classe, ne esce un surplus di movimenti sociali e politici connotati dal
radicalismo e dall'estremismo (in senso sociologico del termine, senza
alcun valore dispregiativo, come purtroppo la parola assume nel linguaggio
corrente). Si dilunga sproporzionatamente sugli Stati Uniti (e questo è
interessante), sorvola su altri momenti, citandoli un po' alla rinfusa,
maggio francese, America Latina, scivola clamorosamente sull'Italia e sul
Giappone; spesso, mancando d'informazioni, se la toglie con abilità
giornalistiche un po' disinvolte e affermazioni un po' esagerate e fuori
luogo (ma può anche essere colpa della traduzione!). Pone, infine,
la questione dei movimenti giovanili, di contestazioni e politici dei paesi
dell'Est, tema trascuratissimo negli studi sul '68 mondiale, ma ha fretta
di concludere e quindi c'informa succintamente della Cecoslovacchia, mentre
ben poco continuiamo a sapere dell'Urss e di cosa accadeva in quegli anni,
a livello di costumi, comportamenti giovanili, dissidenze varie, negli
altri paesi a regime "socialista".
Sfiora la notazione folkloristica quando ci ricorda che in Cecoslovacchia
stravedevano, (paradosso?) per Marylin, ma ci dice anche che negli Stati
Uniti trionfava il ritratto di Mao (altro paradosso?). Si tratta evidentemente
di usi simbolici, come nel caso della musica rock, tratti per manifestare,
declinandolo però sui temi e sulla storia politica e culturale,
del proprio paese, dissenso, ribellismo pre politico e antistituzionale.
E poi, dietro questi usi simbolici, c'erano, in Cecoslovacchia, come in
altri paesi dell'Est e dell'Ovest, movimenti giovanili di contestazione
del sistema, articolati, ricchi di iniziative (anche ingenue) non riducibili
solo all'analisi superficiale dei simboli di cui si avvalevano per esprimere
le loro esigenze oppure, unicamente, il loro ribellismo.
Fa poi capolino, tra le righe, quasi nascosta dal peso dell'oggi, quella
che è stata l'utopia e la speranza perseguita, con gradi e modalità
diverse, da quella generazione, il socialismo, rinnovato, rinato, rifondato
nelle sue basi democratiche consiliari, partecipate, da Comune di Parigi;
speranza che, si è manifesta anche all'Est, forse per l'ultima volta
e morta con la primavera di Praga. Credo che la ricerca di una via d’uscita
dai due blocchi sociali che ingessavano il mondo bipolare - il capitalismo
occidentale con la sua democrazia formale e parlamentare (non necessariamente
obbligatoria per questo tipo di formazione economica) e i paesi a regime
stalinista con i suoi apparati burocratici e illiberali-, sia stata una
delle caratteristiche salienti di quel movimento in quel periodo, che ha
saputo produrre una critica sia all'uno che all'altro modello, usando strumenti
analitici e teorici vari, tra i quali però era predominante, almeno
nel linguaggio e nella terminologia, l'uso del marxismo, questo soprattutto
in Europa e in America Latina, meno forse negli Stati Uniti.
Quei movimenti, quelle domande di trasformazione, quelle idee che hanno
attraversato il mondo per circa un ventennio, a partire dalla seconda metà
degli anni Settanta (nei paesi dell'Est anche prima) furono sconfitte,
battute, arrestate (anche in senso non metaforico). Il ciclo stava cambiando
a cominciare dalla fine dello sviluppo dell' “età dell'oro”, con
la crisi e la recessione del 1974-75. Gli anni Ottanta segnarono un'epoca
nuova, finiva un periodo e ne iniziava un altro. Per capire a fondo la
discontinuità tra quel "dopo" e quel "prima" probabilmente oggi
noi dovremo studiare più che il sessantotto e il suo periodo, i
decenni seguenti, gli anni Ottanta e Novanta appunto, nei quali emerge,
secondo l'autore, la seconda utopia che brillò per la generazione
sessantottina, quella liberale, che si realizzò ad Est come ad Ovest,
anch'essa però fallita.
Infine, si prova a porre una continuità tra quello che chiamiamo
genericamente '68 e il crollo del muro di Berlino, l'implosione dell'URSS
e delle democrazie popolari e via di seguito, fino alla guerra in Iraq.
Io credo, invece, che questa continuità non esista. I contesti storici
e geopolitici, le nomenclature politiche stesse dei vari paesi, erano profondamente
cambiate o stavano cambiando. Il '68 coi suoi annessi e connessi apparteneva
al secolo breve, quello che stava accadendo negli anni Ottanta e seguenti
stava bussando alle porte del nuovo secolo per entrarvi. Nuove generazioni,
nel frattempo, si erano susseguite e altre erano scomparse, certo quella
dei sessantottini, come dato anagrafico, proseguiva il suo percorso, ma
oggi quella fascia di persone che stanno tra i cinquanta e i sessantacinque
anni, se potessero tornare indietro di quarant'anni e ritrovare se stessi,
non saprebbero riconoscersi, tanto sono cambiati... e non solo nell'aspetto
fisico. La generazione anagrafica, da sola, non è categoria sufficiente
per stabilire correlazioni di continuità fra periodi nella storia.