Paul Berman, "Sessantotto. La generazione delle due utopie", Torino, Einaudi, 2006, pp. 231, euro 15.50
 

Si tratta di un libro stimolante, che pone più problemi, nel senso di ipotesi di lavoro e di ricerca, di quelli che risolve. In primo luogo, meritatamente, "diluisce l'evento '68", collocandolo in una periodizzazione lunga di almeno vent'anni: i decenni Sessanta e Settanta. Nell'analisi di questo ventennio propone giustamente l'utilizzo di tre concetti, da impastare tra loro: rivolta generazionale, rivolta di genere, rivolta di classe, ne esce un surplus di movimenti sociali e politici connotati dal radicalismo e dall'estremismo (in senso sociologico del termine, senza alcun valore dispregiativo, come purtroppo la parola assume nel linguaggio corrente). Si dilunga sproporzionatamente sugli Stati Uniti (e questo è interessante), sorvola su altri momenti,  citandoli un po' alla rinfusa, maggio francese, America Latina, scivola clamorosamente sull'Italia e sul Giappone; spesso, mancando d'informazioni, se la toglie con abilità giornalistiche un po' disinvolte e affermazioni un po' esagerate e fuori luogo (ma può anche essere colpa della traduzione!). Pone, infine, la questione dei movimenti giovanili, di contestazioni e politici dei paesi dell'Est, tema trascuratissimo negli studi sul '68 mondiale, ma ha fretta di concludere e quindi c'informa succintamente della Cecoslovacchia, mentre ben poco continuiamo a sapere dell'Urss e di cosa accadeva in quegli anni, a livello di costumi, comportamenti giovanili, dissidenze varie, negli altri paesi a regime "socialista".
Sfiora la notazione folkloristica quando ci ricorda che in Cecoslovacchia stravedevano, (paradosso?) per Marylin, ma ci dice anche che negli Stati Uniti trionfava il ritratto di Mao (altro paradosso?). Si tratta evidentemente di usi simbolici, come nel caso della musica rock, tratti per manifestare, declinandolo però sui temi e sulla storia politica e culturale, del proprio paese, dissenso, ribellismo pre politico e antistituzionale. E poi, dietro questi usi simbolici, c'erano, in Cecoslovacchia, come in altri paesi dell'Est e dell'Ovest, movimenti giovanili di contestazione del sistema, articolati, ricchi di iniziative (anche ingenue) non riducibili solo all'analisi superficiale dei simboli di cui si avvalevano per esprimere le loro esigenze oppure, unicamente, il loro ribellismo.
Fa poi capolino, tra le righe, quasi nascosta dal peso dell'oggi, quella che è stata l'utopia e la speranza perseguita, con gradi e modalità diverse, da quella generazione, il socialismo, rinnovato, rinato, rifondato nelle sue basi democratiche consiliari, partecipate, da Comune di Parigi; speranza che, si è manifesta anche all'Est, forse per l'ultima volta e morta con la primavera di Praga. Credo che la ricerca di una via d’uscita dai due blocchi sociali che ingessavano il mondo bipolare  - il capitalismo occidentale con la sua democrazia formale e parlamentare (non necessariamente obbligatoria per questo tipo di formazione economica) e i paesi a regime stalinista con i suoi apparati burocratici e illiberali-, sia stata una delle caratteristiche salienti di quel movimento in quel periodo, che ha saputo produrre una critica sia all'uno che all'altro modello, usando strumenti analitici e teorici vari, tra i quali però era predominante, almeno nel linguaggio e nella terminologia, l'uso del marxismo, questo soprattutto in Europa e in America Latina, meno forse negli Stati Uniti.
Quei movimenti, quelle domande di trasformazione, quelle idee che hanno attraversato il mondo per circa un ventennio, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta (nei paesi dell'Est anche prima) furono sconfitte, battute, arrestate (anche in senso non metaforico). Il ciclo stava cambiando a cominciare dalla fine dello sviluppo dell' “età dell'oro”, con la crisi e la recessione del 1974-75. Gli anni Ottanta segnarono un'epoca nuova, finiva un periodo e ne iniziava un altro. Per capire a fondo la discontinuità tra quel "dopo" e quel "prima" probabilmente oggi noi dovremo studiare più che il sessantotto e il suo periodo, i decenni seguenti, gli anni Ottanta e Novanta appunto, nei quali emerge, secondo l'autore, la seconda utopia che brillò per la generazione sessantottina, quella liberale, che si realizzò ad Est come ad Ovest, anch'essa però fallita.
Infine, si prova a porre una continuità tra quello che chiamiamo genericamente '68 e il crollo del muro di Berlino, l'implosione dell'URSS e delle democrazie popolari e via di seguito, fino alla guerra in Iraq.  Io credo, invece, che questa continuità non esista. I contesti storici e geopolitici, le nomenclature politiche stesse dei vari paesi, erano profondamente cambiate o stavano cambiando. Il '68 coi suoi annessi e connessi apparteneva al secolo breve, quello che stava accadendo negli anni Ottanta e seguenti stava bussando alle porte del nuovo secolo per entrarvi. Nuove generazioni, nel frattempo, si erano susseguite e altre erano scomparse, certo quella dei sessantottini, come dato anagrafico, proseguiva il suo percorso, ma oggi quella fascia di persone che stanno tra i cinquanta e i sessantacinque anni, se potessero tornare indietro di quarant'anni e ritrovare se stessi, non saprebbero riconoscersi, tanto sono cambiati... e non solo nell'aspetto fisico. La generazione anagrafica, da sola, non è categoria sufficiente per stabilire correlazioni di continuità fra periodi nella storia.
 

Diego Giachetti