Frutto di un lavoro durato cinque anni (1997-2002), durante i quali
sono state intervistate circa quattrocento persone (in larga maggioranza
ladri, rapinatori, spacciatori e consumatori di droghe, prostituti/e italiani/e
e stranieri/e e i loro clienti, usurai, intermediatori di “affari”, giocatori
d’azzardo, ma anche commercianti, gestori di locali pubblici, imprenditori,
operatori sociali, membri delle forze di polizia, magistrati) di duecento
delle quali il volume accoglie le testimonianze, la ricerca etnografica
condotta da Dal Lago e Quadrelli, docenti presso l’Università di
Genova, ha avuto come epicentro il capoluogo ligure, ma i risultati ai
quali perviene assumono una valenza più generale, potendosi Genova
considerare come una città-laboratorio, in quanto anche qui, come
nel resto d’Italia, si sono avuti quei mutamenti nella struttura dell’economia,
nelle forme di organizzazione e di autorappresentazione di ciò che
resta della classe operaia, nelle modalità di gestione ed amministrazione
del potere locale, nella gestione dei flussi migratori e della disoccupazione
giovanile che si è soliti individuare come elementi caratterizzanti
la società postindustriale.
Resi espliciti nell’ampia introduzione i problemi incontrati e i criteri
adottati per «narrare l’infamia», il libro si articola in otto
capitoli (più un epilogo), ciascuno dei quali ricostruisce con abbondanza
di dati e acume interpretativo i protagonisti, i servizi offerti, l’ampiezza,
le caratteristiche e l’evoluzione della clientela, le dinamiche interne,
il sistema di relazioni instaurate con il mondo legale e l’evoluzione conosciuta
nel corso degli anni, di uno specifico «mercato illegale»:
i piccoli traffici ai quali da sempre si dedica la malavita tradizionale
radicata nei quartieri del centro antico; le «batterie» di
rapinatori che nei primi anni Settanta, a Genova come nelle altre aree
metropolitane del triangolo industriale, avevano dato vita a forme inedite
di criminalità (1) ; il gioco d’azzardo e le scommesse clandestine;
l’usura; lo sfruttamento economico degli immigrati clandestini; la prostituzione
femminile e quella maschile; le droghe. Completano il volume una quarantina
di pagine di note e altre venti di utilissimi e aggiornati riferimenti
bibliografici.
Lo scopo della ricerca, come viene esplicitato fin dalle prime pagine
del libro, è quello di indagare i rapporti esistenti tra due «mondi»
che, pur condividendo i medesimi spazi, appaiono a tutta prima connotati
da una radicale alterità: quello “visibile” dei «cittadini»
e quello “sotterraneo” dei «criminali». L’ipotesi interpretativa
da cui gli autori partono, e che trova conferma al termine del loro lavoro,
è invece quella di «una clamorosa discrepanza tra la realtà
del crimine […] e la sua rappresentazione prevalente» nei media così
come presso le istituzioni e le scienze specialistiche, abituati a considerare
il crimine come un affare esclusivo dell’«ombra», del sottosuolo,
qualcosa di radicalmente eterogeneo rispetto al mondo della “normalità”
e della società legittima, costantemente minacciata, quest’ultima,
dal mondo delle tenebre.
Anziché essere separate, come di solito si ritiene, «da
una distanza insuperabile», la «città legittima dei
cittadini, dell’opinione pubblica, delle corporazioni e associazioni professionali,
dei partiti», ossessionata dal degrado urbano e civile e costantemente
mobilitata per porre un argine alla "invasione" degli extracomunitari da
un lato, e quella «più o meno invisibile dell’illegittimità,
dell’immigrazione, della microcriminalità, della prostituzione palese
o occulta, della tossicodipendenza» dall’altro, risultano essere
infatti strettamente legate da una molteplicità di relazioni e di
contatti – una larga parte dei quali si svolge alla luce del sole, o è
comunque nota anche ai rappresentanti delle forze preposte alla repressione
del crimine – non solo sul versante, facilmente comprensibile e quasi scontato,
dell’offerta di beni e servizi illeciti (dal consumo di sesso in tutte
le possibili forme e varianti a quello di sostanze stupefacenti, dalla
possibilità di realizzare vincite con il calcioscommesse ed altre
forme di gioco d’azzardo al credito illegale, dallo sfruttamento del lavoro
domestico a quello nei cantieri ecc.) che la seconda mette a disposizione
della prima, ma anche nel senso – quasi sempre sottovalutato o addirittura
rimosso, anche dalla stessa ricerca sociale – che una quota non trascurabile
della popolazione “regolare” si dedica in prima persona ad attività
illegali, collaborando senza problemi con quegli stessi “criminali” costantemente
oggetto della stigmatizzazione sociale del mondo legittimo.
Attraverso le narrazioni che fanno di questo un libro straordinario
– in grado di restituire innanzi tutto voce e concretezza a quelli che
Foucault (che non a caso occupa una posizione di primo piano nel robusto
apparato teorico che sorregge l’interpretazione degli autori) definiva
«uomini infami», condannati al silenzio e ad una invisibilità
perenni, o ad acquistare visibilità soltanto nel momento in cui
diventano fattori di disturbo pubblico, concentrando di conseguenza su
di sé l’attenzione dei “saperi” preposti al controllo sociale –
ci arrivano infatti “storie di vita” quotidiana al tempo stesso terribili
e “banali” (nel senso arendtiano del termine), fatte di umiliazioni, sopraffazioni,
discriminazioni, violenze grandi e piccole; storie di soggetti, per una
volta sottratti all’anonimato asettico delle statistiche, accomunati tutti
o quasi da condizioni di marginalità, debolezza sociale e povertà
estreme e che è difficile dimenticare, dopo che i loro profili si
sono delineati con nitidezza dinnanzi ai nostri occhi: la domestica straniera
impegnata per 16 ore al giorno, con un compenso di 5-600 euro mensili ed
un solo pomeriggio libero la settimana, tenuta costantemente sotto ricatto
con la minaccia di licenziamento e di conseguente perdita del permesso
di soggiorno, la cui condizione di schiavitù sostanziale,
se non formale, è giustificata dal datore di lavoro con parole che
ricordano il Kipling teorizzatore della missione civilizzatrice dell’uomo
bianco («Noi siamo l’Occidente e loro no. […]. Tra noi e loro le
differenze sono enormi. Per certi versi è come avere a che fare
con i bambini»); gli “Orientali” (veri e propri “invisibili” con
i quali neppure gli autori sono riusciti ad entrare in contatto diretto,
ma di cui hanno raccolto attraverso numerose testimonianze le incredibili
condizioni di sfruttamento) ingaggiati al loro paese da un connazionale,
un ex trafficante di eroina che mantiene contatti con la polizia locale,
il quale li ha clandestinamente portati in Italia anticipando le spese
di trasporto agli scafisti e li ha quindi “affittati” – trattenendo per
sé i loro miserabili guadagni, 250 euro al mese oltre al vitto e
alloggio – a compiacenti imprese edili liguri dell’entroterra, ospitati
in ruderi o cascinali abbandonati nei quali trascorrono in assoluta segregazione
le ore della giornata nelle quali non sono impegnati nei cantieri, e che
al termine del periodo di lavoro vengono rimpatriati, «o comunque
scompaiono»; le prostitute di strada straniere nei confronti delle
quali si manifestano comportamenti sadici e brutali da parte di una quota
non trascurabile di clienti e, talvolta, delle stesse forze di polizia;
il minorenne marocchino (16 anni al momento dell’intervista) che si prostituisce
con italiani «che pagano molto bene» nei locali di “Valentina”
(una transessuale italiana che “assume” straniere e stranieri per prestazioni
particolari), apprezzato dai clienti proprio per la sua giovane età
e per il fatto di essere straniero e sul quale, oltre ad essere «prevalentemente
usato passivamente», si riversano non di rado violenze ed insulti
di stampo razzistico («marocchino di merda, marocchino bastardo»);
i sopravvissuti del ciclo dell’eroina che tra la fine degli anni settanta
e la metà del decennio successivo circa ha falcidiato un’intera
generazione di giovani.
Ma ci giungono anche le voci e le imprese di molti cittadini “regolari”
– vale a dire non criminali nel senso comunemente fatto proprio dai media
e dal senso comune – i quali, un po’ per necessità, un po’ per «divertimento»,
un po’ per «aiutare» vicini di casa e conoscenti, un po’ per
«tirarsi fuori dalle spese» ecc., sono impegnati in prima persona
come erogatori (e non come acquirenti) dei beni e servizi che circolano
nei mercati illegali.
Si veda, per esempio, il settore del gioco illegale. Al di là
e al di sotto dei giri di criminalità che controllano bische e club,
attività per altro in netto declino in quanto il loro volume di
affari è ormai limitato, si colloca tutta una serie di «operatori
estranei alla criminalità», dai baristi che accettano di tenere
nel loro esercizio le macchinette (truccate) dei videopoker, a coloro (pensionati,
impiegati, esercenti di locali pubblici, studenti, operai) che garantiscono
l’attività di raccolta delle giocate clandestine al lotto o al totonero,
un’area la cui ampiezza (e le “giustificazioni” che i suoi membri, posti
di fronte alla sottolineatura da parte degli intervistatori che la loro
è pur sempre una attività illegale, avanzano: «lo fanno
tutti», «che problema c’è?», «se vai in
giro non troverai nessuno che te ne parla male, […] perché la gente
li considera [i raccoglitori di scommesse] come loro, gente come noi»)
porta gli autori alla seguente considerazione: «Questi casi mostrano
come la retorica ufficiale, sociologica, e di senso comune, che postula
una massiccia adesione degli attori sociali alle regole morali e legali
ufficiali, vacilli di fronte alla ricerca empirica».
Ma si vedano anche i numerosissimi casi in cui ad esercitare la prostituzione
«privata» (quella di cui sono protagoniste, in appartamenti
lussuosi del centro commerciale o residenziale, in modo saltuario o continuativo,
per lo più italiane) sono impiegate, studentesse, commesse, casalinghe
“normali” (non di rado in accordo con i loro partner), le quali in più
di un caso, dopo aver iniziato in modo “casuale” la propria “carriera”,
hanno col passare del tempo esteso il proprio giro di affari coinvolgendo
altri soggetti, nei confronti dei quali esercitano ora di fatto un vero
e proprio sfruttamento: «Attualmente gestisco due case, ovviamente
oltre a gestirle lavoro anche».
Ma i due mercati illegali che in assoluto sembrano vedere la più
alta partecipazione di operatori “regolari” sono quelli dell’usura e della
vendita di sostanze stupefacenti.
Nel primo agiscono, ai livelli alti (aziende o attività imprenditoriali),
operatori di società finanziarie, funzionari di banca addetti al
credito, consulenti legali, commercialisti, tutti in varia misura funzionali
alla attivazione di quel complesso circuito che ha come suo primo anello
la individuazione dei soggetti economici in difficoltà finanziaria
e come sbocco conclusivo, dopo il prestito di denaro (spesso ricavato da
altre attività illegali quali il gioco d’azzardo o lo spaccio di
stupefacenti) a tassi usurari, il passaggio di proprietà delle aziende
che ne sono rimaste vittima nelle mani non necessariamente di imprese criminali,
ma anche di gruppi indipendenti che agiscono sotto la copertura di società
o studi legali. Ma vi è anche, all’estremo opposto, un’usura diffusa,
«porta a porta», «sostanzialmente invisibile ma quantitativamente
rilevante […] un fenomeno grosso ma quasi sempre privo di riscontri»,
come denuncia un magistrato intervistato, che ha come vittime persone comuni,
socialmente deboli, in difficoltà a causa di una malattia improvvisa,
di un figlio tossicodipendente, della ristrutturazione dell’azienda in
cui il capofamiglia era occupato, della perdita del marito e così
via. Si tratta, in questo caso, di piccoli prestiti necessari alla mera
sopravvivenza, per far fronte alle bollette o all’affitto. È in
questi casi che intervengono, per “aiutare” i soggetti in difficoltà,
operatori non criminali: «un orafo che ha il negozio vicino al mio
ex ristorante», «mio fratello», «una vicina di
casa».
Ed è proprio in questi casi, ancora una volta, che la percezione
dell’illegalità connessa a questo tipo di «servizio»
sembra svaporare nelle parole delle stesse vittime, che tendono a dare
del prestasoldi un ritratto a dir poco edulcorato, di vero e proprio benefattore.
Colpiscono il lettore le testimonianze di quanti hanno a che fare con «la
Signora», un personaggio che gestisce l’usura a livello di quartiere,
per un giro di prestiti che gli autori hanno calcolato, per difetto, aggirarsi
sui ventimila euro al mese (più di duecentomila all’anno): «[…]
non è prepotente, arrogante, è una che cerca sempre di aggiustare
le cose […]», «[…] Ti viene incontro. Una volta che ero proprio
in difficoltà, che non riuscivo a mettere via i soldi da restituire
ci siamo messi d’accordo che ci andavo a lavorare da suo cognato che si
sta facendo la casa. Il debito l’ho pagato così».
Analogamente, anche il mercato delle sostanze stupefacenti – quello
della cocaina e dell’eckstasy soprattutto – vede una massiccia presenza,
accanto ai membri delle gang criminali, di consumatori che sono anche «spacciatori
per caso», «per diletto», i quali innanzi tutto tengono
a dare di se stessi una autorappresentazione di “vincenti”, con stili di
vita e modelli culturali totalmente appiattiti su quelli oggi dominanti:
«Ho 37 anni e sono laureata […]. Sono molto attaccata al mio lavoro»;
«[…] Sono laureato. Ho qualifica di dirigente. […] Cercavano una
persona capace e il mio curriculum è stato molto apprezzato. […]
È giusto che chi è capace e serio vada avanti»; «[…]
ho il gusto per la sfida [e] so che ce la farò».
Messi di fronte al fatto che lo spaccio di sostanze stupefacenti (ancor
più del consumo) è una pratica illegale, ancora una volta
le testimonianze raccolte tradiscono una totale dissociazione tra l’agire
soggettivo e la morale ufficiale: dapprima gli intervistati si inalberano
(«[la cocaina] È vietata per modo di dire»; «Dovrei
pensare di essere un criminale? È una cosa ridicola […]. Cerchiamo
di essere seri»), quindi tendono a minimizzare i profitti che traggono
dalla loro attività («Ne compro un po’ e la rivendo ai miei
amici. Non ci guadagno molto», «Praticamente non ci guadagno
quasi niente»); infine qualcuno finisce con l’ammettere qualcosa
(«Ci guadagno abbastanza»), per fornire tuttavia subito dopo
una motivazione per così dire “formativa” della propria attività:
«Ho un mio conto che mi gestisco e sul quale i miei non esercitano
controllo. Un modo per responsabilizzarmi»
Al termine della loro ricerca, gli autori possono quindi riprendere
e meglio precisare l’ipotesi di lavoro da cui erano partiti: «I mercati
illegali sono solo in parte di competenza dei criminali. In una misura
che varia a seconda dei tipi di mercato, i cittadini accedono ai mercati
illegali sfruttando le possibilità che questi offrono. Ma la definizione
sociale o stigmatizzazione del crimine li riguarda solo marginalmente.
Saranno soprattutto figure “specializzate” passivamente (etichettate a
priori) a giocare il ruolo di parte per il tutto e a rappresentare quindi,
per l’opinione pubblica e le istituzioni, i mercati illegali e i mondi
criminali. Tale rappresentazione sociale contribuisce a modellare l’azione
delle istituzioni nei confronti dei mercati illegali e a definirne ambito
e dimensioni».
Una constatazione che ci sembra trovare conferma nelle parole di un
funzionario di polizia intervistato nella parte finale del libro, il quale
individua lucidamente nella visibilità pubblica e nel fastidio sociale
i criteri che orientano l’azione repressiva delle forze dell’ordine verso
le «figure specializzate» trascurando le illegalità
dei «cittadini»: «Il problema [non è reprimere
ogni forma di crimine, ma] colpire quello che non è pubblicamente
tollerato, e mantenere sotto controllo tutto quello che, pur essendo illecito,
non crea allarme e insicurezza sociale»; «La microcriminalità
è qualcosa di molto più infimo [del crimine organizzato],
ma molto più fastidioso, almeno di fronte all’opinione pubblica.
Soprattutto per la sua visibilità. La microcriminalità è
qualcosa che infastidisce e fa paura […]: il soggetto che si dedica alle
attività microillegali non ha l’aspetto rispettabile. Cioè,
è qualcuno che, anche quando non fa niente, ha un’aria minacciosa
[…]. Infatti, spesso i controlli da parte nostra sono fatti proprio in
base all’aspetto». Viceversa, la rispettabilità di cui può
far sfoggio il cittadino “normale” (e talvolta anche il «criminale
in doppio petto, con l’Uzi sotto al loden») colloca quest’ultimo
in un’area di sostanziale impunibilità: «Se in una sera [dopo
aver fatto per ipotesi irruzione in una qualsiasi discoteca o locale notturno]
mi trovo 1000, 2000 persone, non ci vuole tanto, con un po’ di cocaina,
qualche pastiglia o altre cose, faccio 2000 denunce? ». Inoltre «Se
io entro in un locale frequentato da gente normale e faccio un numero del
genere, senza un mandato, giustificandolo come semplice operazione di prevenzione,
scoppiano casini uno dopo l’altro. Non è come quando entro nel bar
dei marocchini. […] Capisce che tutto questo non sta insieme».
Per concludere, come efficacemente ha scritto Tilde Napoleone dell’Associazione
Antigone, questa ricerca dimostra in modo persuasivo che «Non esiste
una criminalità altro da noi da cui difendersi e di cui avere paura»
ed è proprio per questo che «il libro si conclude con un invito,
quello di non guardare più al crimine cercando di illuminare i bassifondi,
guardando la società dal disotto, ma piuttosto, guardandola dal
suo interno».
(1) Per un approfondimento di questo finora poco indagato segmento della storia criminale del nostro paese si veda il contributo di E. Quadrelli nel volume a cura di Klaus Schönberger, La rapina in banca. Storia. Teoria. Pratica, DeriveApprodi 2003, e soprattutto, dello stesso Quadrelli, Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta, DeriveApprodi 2004)
Giovanni Savegnago