Questo libro piace perché, fin dalle prime pagine, va contro
quello che è ormai un conformismo originario nella sinistra di generazione
sessantottina: la critica al consumismo. In compagnia di Marcuse (L’uomo
a una dimensione) e di Guy Debord (La società dello spettacolo),
e con altri innesti quali le riflessioni di Veblen (La teoria delle classi
agiate) e le riflessioni di Horkheimer e Adorno, quella generazione sviluppò
un rapporto critico con la società industriale dei paesi occidentali
relativamente al fenomeno del consumismo di massa, elemento nuovo e conseguente
ad un’impennata nello sviluppo del modo di produzione capitalistico, che
aveva le sue origini negli Stati Uniti d’America, ma che negli anni cinquanta
e sessanta si affacciò prepotentemente anche nei paesi dell’Europa.
Nel nuovo rapporto che s’instaura tra consumi, stili di vita, pubblicità,
produzione industriale e mercato, i giovani sono un gruppo sociale protagonista:
molto ricettivi alla moda e all’emulazione dei propri coetanei essi, come
scrive Stephen Gundle nel suo saggio, stabiliscono un’interazione insolitamente
stretta tra consumo e spettacolo costruito per invogliare al consumo. Ad
esempio, quando i cantanti di musica leggera sfoggiavano un taglio di capelli
particolare, indossavano vestiti particolari o fumavano determinate sigarette,
era molto probabile che i loro ammiratori li copiassero. Non si trattava
però solo di un processo a senso unico. I giovani stavano costruendo
gruppi e subculture che innovano in termini di stile e creavano modelli
e modi di vestire, che i musicisti e i cantanti provenienti da questi ambienti
o che volevano rivolgersi ad essi in quanto potenziale bacino di consumatori
di dischi e altro, accettavano e diffondevano. Questo per dire che uno
dei timori più diffusi dai critici della società dei consumi,
quello della manipolazione dei desideri che porta i consumatori ad essere
vittime inconsapevoli del sistema di dominio, forse va riconsiderato.
Gli odierni studi sul consumo, di cui il libro è testimonianza,
segnano una svolta significativa a livello dell’oggetto di ricerca: si
passa dell’attenzione della sfera della produzione, e quindi della visione
del consumo come semplice conseguenza dell’aumento della produzione, a
quella delle “pratiche connesse al consumo, dei suoi presupposti culturali
e delle sue conseguenze sociali e politiche”; i consumi sono considerati
come un coinvolgimento sociale e relazionale degli individui “che non è,
o meglio non è solo, manipolazione o induzione di desideri superflui,
ma è anche realizzazione di aspirazioni ed espressione della propria
individualità” (p. 12).
Le premesse strutturali dell’avvento della società dei consumi
sono almeno due, una vecchia, l’aumento della produzione in grande serie,
con relativa diminuzione dei costi delle merci, e una nuova (nel senso
che finora è stata scarsamente presa in considerazione) e cioè
l’aumento del tempo libero a disposizione del lavoratore.
La distinzione tra tempo di lavoro e tempo libero nasce solo con la
rivoluzione industriale. E’ quando il luogo di lavoro si separa, con la
fabbrica, dal luogo in cui si riproduce la forza lavoro e le condizioni
dell’esistenza degli individui, la famiglia e la società, che il
tempo di lavoro si separa dagli altri tempi della vita. E più il
lavoro è faticoso, monotono, poco gratificante, più il tempo
ad esso dedicato è vissuto come sofferenza contrapposta al tempo
di riposo, di svago, quello dove uno coltiva i propri interessi e la propria
creatività. Acquista così valore il tempo libero e le lotte
per la riduzione dell’orario di lavoro che costellano la storia del movimento
operaio, fino all’acquisizione di quel senso comune, recente e tipico della
modernità, per cui tempo libero e vacanza sono due concetti oggi
imprescindibili, irrinunciabili, misuratori di status del cittadino in
quanto mostrano la sua posizione sociale, il suo benessere.
Il tempo libero come tempo di consumo dunque. Al tema dei luoghi di
consumo Emanuela Scalpellini dedica il suo saggio: dalle botteghe, ai primi
grandi magazzini delle moderne città ottocentesche, fino all’invenzione
americana dei supermercati e la loro evoluzione, la comparsa dei discounts,
dei centri commerciali, gli shopping centers. Paolo Capuzzo invece analizza
le teorie dei consumi: dal dibattito sul lusso tra sei e settecento in
Francia fino, all’indomani della seconda guerra mondiale, alla rivoluzione
dei consumi che dagli Stati Uniti muove alla conquista del mondo occidentale.
E’ indubbio che il consumismo e la valorizzazione del tempo libero,
come tempo di non lavoro, ha contribuito nelle società moderne a
sovvertire strutture microsociali, mentalità, comportamenti e identità
generazionali, di genere e di classe.
Nel secondo dopoguerra le culture giovanili hanno trovato un nuovo
e intenso sviluppo, assumendo spesso il segno della rivolta e dell’anticonformismo,
ma al tempo stesso entrando a far parte della cultura del consumo. Ampi
settori di giovani si sono riconosciuti in atteggiamenti e comportamenti,
dall’abbigliamento al taglio dei capelli, che destavano sconcerto nelle
generazioni più anziane, e riempivano il loro tempo libero con l’ascolto
di nuove musiche, la pratica di nuovi balli. Il consumo e il tempo libero
hanno assunto rilievo nella stessa definizione dell’età giovanile.
“Se, indubbiamente, la variabile lavoro conserva il suo peso e distingue
per certi aspetti un giovane universitario da un giovane lavoratore, l’essere
giovani influenza però gusti e pratiche del tempo libero di questa
classe d’età in misura significativa, distinguendo questo gruppo
generazionale rispetto al resto della popolazione” (p. 107).
Roberta Sassatelli, analizzando il consumo e l’uso del tempo libero
a secondo del genere, sostiene che maschilità e femminilità
sono prodotte e riprodotte, e non solo espresse, tramite il consumo. Inoltre,
la sfera dei consumi ha offerto alle donne uno spazio legittimo di azione,
ma per lungo tempo le ha anche confinate in questo ambito di azione che
è stato spesso costruito, anche per rafforzare la complementarità
tra i sessi, in modo speculare alla sfera della produzione, come uno spazio
non solo femminile anziché maschile ma anche privato anziché
pubblico, leggero anziché serio, emotivo anziché razionale.
Infine, la stessa lotta di classe, presente nelle società industriali
avanzate, che raggiunse l’apice negli anno tra il 1967 e il 1972, alla
luce delle considerazioni svolte, andrebbe letta come prodotto non solo
della reazione allo sfruttamento del lavoratore dentro le fabbriche, ma
anche come elemento indotto da fattori esterni al mondo del lavoro industriale.
Soprattutto i giovani operai degli anni cinquanta e sessanta che lottavano
nelle fabbriche, risentivano dell’influenza e del richiamo del tempo libero,
come luogo di non lavoro e di consumo, da conquistare e strappare al tempo
di lavoro, come luogo di costrizione e di illibertà.
Infine, andrebbe considerata una fatica nuova che il tempo libero e
dei consumi sta producendo. Accanto alla fatica storica del lavoratore-produttore
emerge sempre più, nei moderni luoghi di consumo o di fruizione
del tempo libero, la fatica del consumatore: lunghe e snervanti code per
attraversare le casse dei supermercati e dei magazzini di vendita (nei
quali è facile entrare, ma difficile e faticoso uscire), oppure
lunghe e snervanti code di automobili lungo le strade delle amate
e “meritate” vacanze estive o dei fine settimana. Insomma, pare non ci
sia scampo: si fatica per guadagnare lo stipendio e si fatica per spenderlo.
Diego Giachetti