In questo libro agile e acuto gli anni ’60 e ’70 vengono ripercorsi
attraverso l’intreccio di ribellione esistenziale, lotta politica e passione
musicale.
Cosa tiene insieme il movimento del ’68 e quello del ’77 tra loro così
spesso contrapposti? Non certo i ricordi nostalgici dei protagonisti, ancor
meno la visione buonista che li pone sotto il segno del rinnovamento e
della protesta generazionale. Li accomuna piuttosto il lato oscuro, distruttivo
e per ciò stesso ricostruttivo di quelle esperienze. La violenza
che li traversa e che, quando non rovescia il vecchio, si volge rovinosamente
contro i soggetti che la esercitano. Non a caso il rock più duro
ne è la colonna sonora costante.
Perché Illuminati sostiene che la memoria, più che custodita,
va riattivata, anche nei suoi aspetti più scomodi, per estrarne
elementi utili alla comprensione del presente. Un’intera generazione fu
dispersa da terrorismo, repressione ed eroina con il conseguente blocco
del ricambio sociale e politico che ha portato alla sclerosi dell’attuale
classe politica italiana.
Da quella generazione qualcuno pretende ancora «pentimenti».
Al contrario, saggio sarebbe ricevere il nucleo positivo degli errori e
delle sconfitte di allora, leggere in quegli eccessi il desiderio di un
progetto radicale che è sopravvissuto al disastro e che continua
a minacciare gli instabili assetti di un mondo ridiventato conflittuale
dopo le delusioni della globalizzazione.
(scheda di presentazione a cura dell'editore)
Prologo
Questa è un’apologia del ’68. Ripercorso da un testimone smemorato,
che non vi ha occupato alcun posto rilevante e dunque ha poco da giustificare
o rivendicare sul piano personale, al massimo avrà combinato qualche
pasticcio, come tanti. Persuaso nondimeno di aver preso parte, in un angolo,
a un evento straordinario, di cui a fatica tenta di ricostruire l’insieme,
come succedeva allo stendhaliano Fabrizio Del Dongo sperduto nella pianura
fangosa di Waterloo. A quarant’anni di distanza abbiamo toccato il
giusto mezzo fra il distacco storiografico dei posteri e la testimonianza
sospetta dei coevi. I
secondi, nella pluralità delle versioni e dei vissuti confermano,
appunto, il dato che risulterà più rilevante per gli studiosi
futuri: l’impossibilità di ricondurre la sequenza, che il nome ’68
riassume e semplifica, a un’unica linea temporale. Un bel problema di periodizzazione.
L’apologia si scosta pertanto sia dall’assunzione autoindulgente di tutto
quanto accadde nei due decenni Sessanta e Settanta sia dalla pelosa opposizione
di un ’68 buonista a un ’77 criminale, correntemente certificata dalle
Procure della Repubblica e dai quotidiani. Tutti hanno fatto il ’68 e più
o meno hanno tirato uno spinello.
Innumeri le loquaci deposizioni. Il ’77, invece, Dio ce ne scampi!
Come se nel ’68 non ci fosse stata Valle Giulia, le azioni armate negli
Usa, come se nel ’77 non fossero fiorite sedute di autocoscienza e idilli
ecologici. Fra il 1972 e il 1976 si erano inestricabilmente annodati
interventi, sigle, personale, tematiche che con comodo opportunismo vengono
scisse sui versanti dell’utopia generosa e dell’infamia terrorista, addensandoli
su due anni-simbolo. La pulsionalità espansiva e la segreta
spinta all’autodissoluzione sono quasi inseparabili in tutti quegli anni
e qui sta anche una delle chiavi per comprendere certe manifestazioni di
violenza, che peraltro ci interessa criticare solo come difetti strategici.
La coincidenza con la crisi del passaggio dal fordismo al postfordismo
esalta la visibilità e nasconde la
pluralità dei movimenti, mentre la continuità biografica
dei protagonisti e narratori occulta la cesura con tonalità e problematiche
degli anni successivi, diciamo brutalmente del XXI secolo degli auspicabili
lettori.
Meglio rinunciare a opporre i due congiunti flussi eterogenei e tracimanti
da un decennio all’altro e constatare piuttosto il loro comune affievolimento
e quindi la distanza con quanto di irrimediabilmente diverso verrà
dopo: il presente che viviamo e le cui pratiche (dalla politica all’insorgenza
e alla militanza) sono ben poco confrontabili. Ormai Palazzo Campana, Valle
Giulia, corso Traiano, parco Lambro, sono «citabili»
come Spartaco, Thomas Müntzer, Kronstadt, la colonna Durruti.
Evocativi, da difendere con i denti, inutilizzabili. Second Life per
delusi e nostalgici, spaventapasseri per rievocazioni mediatiche.
Davanti a una scomposizione in correnti che si sovrappongono senza
mescolarsi può darsi solo un’apologia di quanto è accaduto
e sarebbe potuto accadere, un inventario di saldi e crediti rimasti aperti:
per tenerne ferma l’impazienza, per non perdere lo stato d’eccezione intellettuale
permanente che allora fu un dato politico e oggi potrebbe valere da approccio
storiografico. Il punto prospettico è ambiguo perché non
è il luogo né di una sconfitta netta né tanto meno
di una vittoria, essendo poco plausibile marcare «giornate»
risolutive e in genere vittorie e sconfitte. Che apologia non prenda il
significato
dell’equivalente inglese apology: scusa, giustificazione. Anzi: never
apologize, never explain. Sterile è il pentimento, utile semmai
la correzione.
Tanto più che la vera frattura temporale non è fra ’68
e ’77, ma con gli anni seguenti, in cui contenuti e riti della politica
italiana si sono dispersi – episodio minore entro il grande squasso degli
equilibri internazionali e l’ascesa di inedite contraddizioni interimperialistiche.
Ciò nonostante, le categorie con cui pensare il volgere di secolo
sono ancora in buona parte quelle elaborate nel tormentoso guado fra ’68
e ’77.