Sous le pavé, la plage !, recitava un poetico e famoso slogan
francese. Chissà se anche sotto il selciato dell'Università
di Roma - allora ne esisteva una sola, La Sapienza - i giovani della fotografia
hanno trovato la loro spiaggia?
Una foto del '68: ci sono sassi, bastoni e assembramenti di giovani.
Il clima non sembra particolarmente teso, ma di certo non ci troviamo in
una strada della San Francisco della Summer of Love.
Il '68 fu anche violento: non soprattutto, come dicono i suoi detrattori,
quelli per cui chiunque si ribelli, tanto più se decide di farlo
nella strada, è un terrorista in erba. Ma non fu neanche un movimento
pacifista, composto solo da giovani gentili, ma un po' inquieti, che chiedevano
ai gruppi dirigenti di svecchiare la società, di farsi un po' più
in la. Non fu un movimento pacifico che solo l'ideologia (e la ripresa
del marxismo) rovinò e portò verso gli oscuri anni '70, come
dicono alcuni ormai attempati personaggi, nostalgici della loro gioventù,
quelli del breve '68, un movimento che durò lo spazio di un mattino.
Il '68, la rivolta mondiale, iniziata anni prima in alcuni paesi, e poi
continuata in altri, al di là dell'anno mirabile, fu anche violenta:
fin dall'inizio. Ebbe la sua fascinazione per "il lato oscuro della forza",
come la definisce Augusto Illuminati nel suo interessante (e divertente)
libro sul '68 (Percorsi del '68. Il lato oscuro della forza, Derive Approdi,
2007). Fu un movimento di chi rispondeva "yes, we can", a chi gridava "ribellarsi
è giusto".
Una violenza insieme politica e impolitica: la ribellione contro gli
ordini costituiti, ma allo stesso tempo il rifiuto radicale dell'intero
ordine del discorso, dei ruoli assegnati a ciascuno nella società,
come individuo e come gruppo sociale. Una rivolta anche esistenziale, nella
quale confluirono quelle subculture giovanili conflittuali emerse in diversi
paesi a partire dalla fine degli anni '50.
Una rivolta nella quale il gesto simbolicamente pregnante, la radicalità
dell'atto, in molti casi slegato dalla materialità delle sue conseguenze
pratiche, assunsero una dimensione comunicativa e in alcuni casi ricca
di una carica quasi erotica, come ricorda la testimonianza di uno studente
americano sugli scontri nel campus dell'University of Wisconsin, vicino
alla fabbrica di napalm della Dow Chemical, il 16 ottobre 1967.
"There was a strane surge of excitement, an aura of tremendous romantic
upsurge in that terrifyng moment. I wouldn't call it erotic, but somehow
you were in a new relation with all kind of people immediately around you.
Women and men. It was so exciting that, to a degree, you lost your fear.
Maybe because you were so angry about the war. Maybe because you would
have missed the most important exciting moment in your life if you didn't""
(Ronald Fraser, 1968 A student Generation in Revolt, Chatto & Windus,
1988).
La violenza: fiumi di parole, pentimenti, la riscoperta delle canzoni
dell'epoca, di vecchi documenti, di un linguaggio carico di aggressività
e grondante, metaforicamente, sangue. In tutto questo però anche
delle sorprendenti assenze, quasi che i movimenti di quegli anni esercitassero
una violenza solipsistica, fuori da un contesto sociale e da una relazione
concreta con altri attori sociali.
I poteri costituiti, quelli autorizzati a esercitare il monopolio dell'uso
della forza. La usarono subito, spesso senza mezze misure. Spararono, quei
poteri costituiti, già durante il '68, senza aspettare gli anni
di piombo: a Avola, uccidendo due braccianti che scioperavano per poche
lire nel paese del boom economico; oppure a Viareggio davanti a un locale
notturno, La Bussola, per proteggere l'opulenta borghesia che si recava
al cenone di fine d'anno, mentre alcuni giovani manifestanti ricordavano
che per molto meno di quello che poteva costare quella festa i due braccianti
siciliani erano stati ammazzati. Ma in questo l'Italia non rappresentò
un caso straordinario. In Germania già l'anno precedente a Berlino,
per proteggere la visita dello Scià di Persia, uno dei tanti sanguinari
dittatori al potere per conto delle multinazionali occidentali del petrolio,
la polizia aveva fatto uso di armi da fuoco, uccidendo lo studente Benno
Ohnesorg; nel '68, invece fu un giovane imbianchino neonazista a ferire
gravemente il più noto leader del movimento tedesco, Rudi Dutschke,
dopo una forsennata campagna stampa di odio lanciata dai giornali dell'editore
conservatore Axel Springer contro Dutschke e il movimento degli studenti.
In Francia, il teatro del joli mai, della rivolta violenta e delle barricate,
che però tutti ricordano come un conflitto miracolosamente concluso
senza spargimenti di sangue, registrò davanti alle fabbriche occupate,
a Flins e Sochaux, tre manifestanti uccisi. L'elenco potrebbe continuare
a lungo, passando dai paesi occidentali a quelli orientali, per giungere
infine in Messico, dove alla vigilia delle Olimpiadi si perpetrò
la più selvaggia mattanza di quell'anno con la strage di Piazza
delle tre culture.
Ma la violenza del potere non può ridursi alla drammatica contabilità
dei morti : la politica del manganello fu una costante bipartisan, diremmo
con lo stupido linguaggio politico odierno. Che si trattasse della polizia
dei regimi "comunisti" [stalinisti] dell'Est o di quella delle "levigate
e democratiche" società occidentali, la mano fu da subito pesante.
Ancora più pesante lo divenne in Italia l'anno dopo. Il 12 dicembre
1969, Piazza Fontana: l'assenza più imbarazzante quando si parla
della violenza politica in Italia nella stagione dei movimenti. La vera
anomalia, il vero caso italiano, non fu tanto quello di una conflittualità
esasperata protrattasi per oltre un decennio, ma la bomba di Piazza Fontana:
la strage delle 16.37 per la quale, già alle 22, il Prefetto di
Milano, Mazza, può inviare un telegramma alla Presidenza del Consiglio
e al Ministero dell'interno, "(...) Ipotesi attendibile che deve formularsi
indirizza indagini verso gruppi anarcoidi et comunque frange estremiste.
Est già iniziata previa intesa autorità giudiziaria vigorosa
azione rivolta at identificazione et arresto responsabili. Nulla sarà
trascurato in tal senso da polizia et arma carabinieri che agiscono stretta
collaborazione per far luce su grave episodio".
Una strage, e dei colpevoli pronti, per chiudere quel biennio che aveva
visto un livello di conflittualità senza eguali nel paese.
L'anomalia non sono i conflitti, sono le stragi che insanguinano l'Italia,
quelle stragi per le quali esiste una sola certezza dal punto di vista
giudiziario, confermata nei vari gradi dei processi, la responsabilità
di apparati dello Stato nell'impedire l'accertamento della verità.
E poi, a quel tempo, c'erano i fascisti nelle strade, specialmente
in quelle italiane. Quei fascisti che due anni prima, nella primavera del
1966, avevano già causato all'università di Roma, la morte
del giovane studente Paolo Rossi; quei fascisti che allo scoppiare del
movimento rimasero in alcuni casi interdetti, perfino affascinati, di fronte
a quell'ondata di ribellione. Poi vennero i mazzieri di Almirante e Caradonna
a ricordare, anche a quei giovani dubbiosi, che il posto dei fascisti era,
come sempre, a fianco dell'ordine costituito: ordine e disciplina contro
la marmaglia filocinese.
A proposito dei fascisti è curioso come nessuno faccia notare
che nella storia italiana del dopo '68, il banale e falso luogo comune
su una generazione di rivoluzionari che è andata al potere, andrebbe
applicato, invece, a una buona parte di quella destra ex/post/a fascista
che, senza essere mai stata rivoluzionaria, in ogni caso è riuscita
nell'impresa di passare dalla violenza di strada alle poltrone ministeriali.
E' piena di sampietrini la foto: cubetti di porfido utilizzati per
il rivestimento delle strade. Furono uno dei simboli del maggio francese
quando, nella notte delle barricate, gli studenti con pazienza e metodo
cartesiano disselciarono le strade del Quartiere Latino per prepararsi
alla battaglia contro la polizia. I muri parigini erano pieni di manifesti
che ricordavano come il pavé fosse la scheda elettorale per quelli
che, minori di 21 anni, non potevano cadere nella "trappola per coglioni"
delle elezioni.
I sampietrini, poi vennero le molotov e più tardi ancora le
armi da fuoco nei cortei: a quel punto non restò che cantare, insieme
a Gianfranco Manfredi: "Ultimo mohicano / sampietrino in mano / non c'è
più polizia / ora a chi lo tiro? / vado a fare un giro, / entro
in un caffè" (Ultimo mohicano).
Marco Grispigni, "il manifesto", 5 aprile 2008