Il tragitto politico e intellettuale di Riccardo Lombardi, dapprima
strenuo sostenitore di una politica pianificatrice dall’alto, che presupponeva
la conquista della “stanza dei bottoni” e, dopo il fallimento del centrosinistra,
fautore di un’“alternativa socialista”, basata su forme, dal basso, di
autogestione. L’appoggio decisivo all’elezione di Bettino Craxi, di cui
ebbe a pentirsi. Intervista a Francesco Grassi.
In una società come quella occidentale, che sembra ormai irreversibilmente
identificarsi con il sistema di libero mercato, il dibattito sulle sorti
del socialismo sconta un’evidente subalternità ideologica nei confronti
delle tendenze di pensiero dominanti. Eppure non tramonta del tutto il
bisogno di ricercare strategie di intervento che consentano alla politica
di farsi portatrice di un progetto in grado di coniugare le ragioni della
libertà con l’inestinguibile tensione verso l’uguaglianza e la giustizia
sociale. La figura di Riccardo Lombardi incarna un tentativo politico e
teorico legato ad un’esperienza del passato, che forse conserva motivi
di interesse anche nel presente. Quali credi che siano gli elementi peculiari
del pensiero di Lombardi?
Il nome di Riccardo Lombardi è immediatamente associato, da
coloro che abbiano una conoscenza anche solo approsimativa del personaggio,
alla politica di programmazione economica. Ed in effetti la tematica planista
costituisce senza ombra di dubbio l’elemento centrale dell’impegno teorico
e pratico dello storico esponente della sinistra italiana almeno fino al
1964. Bisogna però ricordare che Lombardi non sostiene questa linea
interventista fin dal principio; anzi, nella prima metà degli anni
Quaranta, quando milita nelle fila del Partito d’Azione, in nome del libero
mercato egli condanna esplicitamente l’ipotesi di un intervento statale
in campo economico, vedendo in tale intervento il tratto caratteristico
della politica dirigista del fascismo, secondo uno schema interpretativo
accettato non solo, com’è ovvio, dalle forze moderate, ma anche
dai partiti di sinistra, con la significativa ma circoscritta eccezione
del Psiup.
Paradossalmente, Lombardi si libera di questo pregiudizio antistatalista
proprio quando, terminata la guerra, le tendenze liberiste si impongono
in maniera definitiva ottenendo che l’opera di ricostruzione dell’economia
del Paese sia affidata alle forze spontanee del mercato, senza ingerenze
statali. Lombardi comincia allora ad abbracciare quelle tematiche planiste
che di lì a poco diverranno il tratto caratteristico della sua strategia
politica, come testimoniano alcune iniziative di grande rilievo quali la
battaglia per il cambio della moneta, la critica della politica economica
portata avanti dal ministro del Tesoro Epicarmo Corbino, la difesa delle
Partecipazioni statali dai propositi di smantellamento, la “lettera aperta”
indirizzata nell’ottobre 1946, nelle vesti di segretario del PdA, alla
Cgil. Quest’ultimo documento, sebbene cada nel vuoto senza ricevere risposta,
riveste un’importanza particolare in quanto, con la richiesta della pianificazione
degli investimenti e del controllo pubblico sulle imprese, contiene già,
in nuce, le linee strategiche della programmazione lombardiana degli anni
Cinquanta-Sessanta.
A partire dall’ottobre 1947, Lombardi prosegue il proprio impegno politico
nel Psi, dove le tendenze planiste, impersonate da Rodolfo Morandi, sono
particolarmente forti. Dopo la sconfitta del Fronte popolare alle elezioni
del 18 aprile 1948, i progetti di pianificazione vengono però accantonati
dalle sinistre per decisione di un Pci ancora influenzato dalle teorie
antiplaniste di Eugen Varga.
Come un fiume carsico, il tema della programmazione (termine asettico
che ad un certo punto soppianta, anche nel linguaggio dei socialisti, quello
di pianificazione, colpevole di ricordare troppo da vicino l’esperienza
sovietica) torna tuttavia in superficie alla metà degli anni Cinquanta,
in concomitanza con la presentazione dello “Schema” messo a punto da Ezio
Vanoni e con la fine, poco tempo dopo, dell’esperienza frontista. Gli eventi
del 1956, dal XX Congresso del Pcus all’invasione sovietica dell’Ungheria,
segnano infatti uno spartiacque per il movimento operaio internazionale,
mettendo in crisi i dogmi costitutivi di quella Weltanschauung che va sotto
il nome di stalinismo, tra i quali occupano un ruolo preminente l’interpretazione
catastrofica della situazione economica dei paesi capitalistici e la prassi
della conquista del potere per via rivoluzionaria, mediante l’abbattimento
dello Stato borghese. Rivelatasi illusoria, almeno nel breve periodo, la
prima ipotesi ed impraticabile, nei paesi occidentali, la seconda, alla
sinistra italiana non resta che affrontare un lungo e travagliato processo
di revisione ideologica. E in prima fila, in questo frangente, si colloca
proprio Lombardi, che riemerge dall’isolamento in cui era stato confinato
negli anni della direzione morandiana del Psi, riproponendo con forza il
tema della programmazione economica.
Lombardi parte dalla constatazione che lo Stato, attraverso le Partecipazioni,
ha ormai assunto la gestione di vasti settori dell’economia nazionale;
essendo però l’apparato statale controllato, attraverso i partiti
di governo, dai grandi gruppi monopolistici, tale gestione è avvenuta
nell’interesse non della collettività ma di questi ultimi, che hanno
bisogno del sostegno statale, in primo luogo della spesa pubblica anticiclica,
per superare le periodiche crisi di sovrapproduzione dovute alla politica
dei prezzi praticata dagli stessi monopoli. I monopoli sono riusciti così
ad imporre un proprio tipo di pianificazione, finalizzato alla massimizzazione
del profitto ed incurante dei costi sociali. Tuttavia, secondo Lombardi,
questa situazione può essere modificata; se infatti i socialisti
riuscissero ad assumere il controllo della macchina statale mediante la
partecipazione al governo (l’ingresso nella mitica “stanza dei bottoni”,
secondo la celebre espressione di Nenni), potrebbero utilizzarne le leve
per mettere in atto un piano alternativo a quello dei monopoli, che intervenga
sia a monte che a valle del processo produttivo, che stabilisca cioè
volume e localizzazione degli investimenti, sia pubblici che privati, da
un lato, e il contenuto dei consumi dall’altro.
Grazie a questo tipo di programmazione “democratica” sarebbe stato
possibile raggiungere, nel breve periodo, importanti risultati in campo
sociale, garantendo quei servizi collettivi, come occupazione, alloggi,
istruzione, trasporti, assistenza sanitaria, fino a quel momento sacrificati
agli interessi dei monopoli. Ma, sopratutto, il piano avrebbe permesso
di conseguire, nel medio periodo, un risultato ancora più decisivo
in campo politico; la regolamentazione pubblica degli investimenti e dei
consumi avrebbe infatti spezzato i tradizionali meccanismi di accumulazione
del capitale, mettendo in crisi il sistema capitalistico e consentendo
una incruenta transizione al socialismo.
Presupposto della politica di piano è, per Lombardi, il rafforzamento
del soggetto chiamato ad attuarla, ossia lo Stato, il quale deve disporre
della strumentazione occorrente in termini di fonti di energia, capitali,
terreni edificabili; questi strumenti, che sono saldamente controllati
dai monopoli, devono essere avocati allo Stato mediante la promozione,
da parte del governo, di una serie di “riforme di struttura”, quali la
nazionalizzazione dell’industria elettrica (che andrà in porto,
ma secondo modalità ben diverse da quelle auspicate da Lombardi),
l’esproprio delle aree fabbricabili, il controllo pubblico del sistema
creditizio, l’istituzione delle regioni, concepite come organi decentrati
di attuazione del piano. Per mettere in pratica questo ambizioso progetto,
Lombardi, alla fine degli anni Cinquanta, diventa il più acceso
fautore di quell’alleanza tra socialisti e democristiani da cui nascerà
l’esperimento del centro-sinistra.
L’esperienza governativa tradisce però in buona parte le attese,
dato che la Dc impone agli alleati l’abbandono dei progetti riformatori
già nel 1964. Lombardi, attestatosi su posizioni apertamente critiche
nei confronti della formula di centro-sinistra e per questo nuovamente
emarginato all’interno del suo partito (questa volta ad opera non degli
stalinisti ma dei sedicenti riformisti raccolti attorno a Nenni), continua
ciononostante a proporre anche negli anni successivi la strategia della
programmazione e delle riforme di struttura, apportando però due
sostanziali modifiche: innanzitutto, a realizzarla deve ora essere un governo
di sinistra Psi-Pci e non più un’eterogenea alleanza tra socialisti
e democristiani; in secondo luogo, cosa ancora più importante, Lombardi,
recuperando un elemento caratteristico della pianificazione morandiana
degli anni Quaranta (elemento sul quale aveva sempre insistito molto la
sinistra socialista di Panzieri, Foa e Basso), sottolinea la necessità
che la politica riformatrice sia sostenuta da un vasto movimento di massa,
in modo da saldare l’azione di vertice a livello governativo con le spinte
dal basso provenienti dal mondo del lavoro. Anche questa versione, riveduta
e corretta, della politica di piano è destinata però a rimanere
nel mondo delle buone intenzioni.
L’idea della programmazione rinvia ad un problema più generale
di natura teorica e pratica al contempo: la concezione dello Stato. Com’è
mutato nel tempo il modo di intendere ruolo, funzione e limiti dell’intervento
statale nel pensiero di Lombardi?
Riccardo Lombardi è considerato il capofila della strategia
politica che il socialista francese Gilles Martinet definì a suo
tempo, con fortunato ossimoro, “riformismo rivoluzionario”. Nel caso di
Lombardi, il sostantivo ha la priorità rispetto all’aggettivo. Il
dirigente del Psi rimane infatti sempre un riformista, per quanto eterodosso,
fautore di un indirizzo gradualista che prevede la costruzione del socialismo
operando all’interno del quadro istituzionale vigente, senza rotture traumatiche
come quelle prodotte da una rivoluzione. Questa vocazione gradualista emerge
in maniera chiara se si analizza la posizione di Lombardi sul cruciale
problema della conquista del potere, direttamente connesso alla teoria
dello Stato. Mentre la tradizione marxista-leninista pone come condizione
della presa del potere la distruzione dello Stato borghese, ritenuto strumento
di oppressione della classe economicamente dominante, Lombardi, che pure
fino alla fine degli anni Quaranta “flirta” occasionalmete con questa impostazione,
a partire dal 1956 sottopone ad una critica serrata l’ipotesi di una conquista
del potere mediante l’insurrezione armata, arrivando infine a sostenere
la tesi esattamente opposta, e cioè che l’apparato statale non costituisce
un elemento sovrastrutturale da abbattere, bensì un elemento strutturale
che è solo transitoriamente diretto dalle forze conservatrici e
che quindi può essere conquistato democraticamente dall’interno
ed orientato, mediante la politica di programmazione, verso determinati
obiettivi politico-economici, il cui raggiungimento permetterebbe una pacifica
transizione al socialismo.
Non voglio dire che, con questa vocazione “legalitaria”, Lombardi si
collochi al di fuori della tradizione marxista; intendo solo chiarire che
i punti di riferimento del dirigente socialista in questa delicata materia
non sono né Marx (il Marx de Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte e,
soprattutto, de La guerra civile in Francia) né Lenin, ma, piuttosto,
gli esponenti del marxismo riformistico della Seconda Internazionale: da
Bernstein a Kautsky, da Hilferding a Renner fino a Cunow.
E’ davvero notevole la somiglianza tra le prese di posizione di Lombardi
contro la prassi leninista e in favore dell’uso anticapitalistico dell’apparato
statale da un lato e le teorizzazioni dei capi riformisti dell’Internazionale
dall’altro (somiglianza che diventa imbarazzante, fino a rasentare l’identità,
nel caso di Kautsky, soprattutto quello del programma di Erfurt e delle
opere Die Agrarfrage e Die materialistisce Gescichtsauffassung). Come è
stato giustamente notato da Luciano Canfora, il marxismo lombardiano è
un marxismo non comunista, depurato cioè di ogni elemento leninista.
Dunque, dal 1956 fino al 1964 la strategia politica lombardiana, di chiaro
orientamento gradualista, prevede, in rapida successione: ingresso dei
socialisti al governo, promozione di vaste “riforme di struttura” che sottraggano
lo Stato all’ipoteca dei monopoli, utilizzo dell’apparato statale per realizzare
la programmazione degli investimenti e dei consumi, transizione al socialismo.
A questo punto sembra però delinearsi un ripensamento, se non
una vera e propria svolta rispetto all’idea del rapporto tra azione politica
e conquista del potere statale.
Fallita con l’esperienza del centro-sinistra l’ipotesi illuministica
di adoperare in chiave anticapitalistica gli apparati statali, i quali,
infeudati al sistema di potere democristiano, si rivelano tutt’altro che
disponibili a farsi “manovrare” dal nuovo manovratore socialista, Lombardi
compie una svolta di centottanta gradi, spostandosi su posizioni movimentiste
ed antistataliste. Riprendendo le tesi della vecchia sinistra “operaista”
del Psi e la teoria dei contropoteri di Basso, un tempo respinte con fermezza,
riconosce infatti il primato dell’azione di massa rispetto all’attività
parlamentare, ed arriva ad affermare che lo Stato, avendo una indefettibile
tendenza alla burocratizzazione e alla centralizzazione, costituisce non
un supporto, bensì un ostacolo sulla via del socialismo. Alla macchina
statale, burocratica e centralista, Lombardi vuole sostituire un sistema
basato sull’autogestione, che consenta alla società civile di rientrare
in possesso dei poteri confiscatile dallo Stato parassitario e di partecipare
così effettivamente ai processi decisionali in ogni campo, economico,
politico, culturale.
In questa seconda fase di elaborazione teorica, il punto di riferimento
del leader socialista è evidentemente costituito dalle riflessioni
formulate da Marx sull’esperienza della Comune di Parigi del 1871, salutata
come concreta realizzazione del concetto di “dittatura del proletariato”
e premessa dell’instaurazione dell’“autogoverno dei produttori”; esperienza
di cui Lombardi aveva visto una potenziale replica nell’azione del governo
cileno di Unidad popular, stroncato dal golpe del settembre 1973. E’ da
sottolineare come la svolta autogestionaria porti Lombardi a criticare
nuovamente, questa volta però da sinistra, Lenin, per la teoria,
sostenuta a partire dal 1917, secondo cui il capitalismo, giunto allo stadio
di imperialismo, contiene in sé i germi del socialismo ed è
quindi sufficiente mutare la direzione politica dello Stato, espropriando
le classi borghesi, per realizzare la transizione (la famosa idea che la
banca unica di Stato “alla Hilferding” rappresenti già i nove decimi
dell’apparato socialista). Lombardi confuta questa impostazione accusando
Lenin di “infatuazione tayloristica” e ricordando che non può esistere
una “catena di montaggio socialista”. Scavalcare a sinistra Lenin con critiche
di questo tipo non significa tuttavia aderire ad una concezione rivoluzionaria
del marxismo. Lombadi infatti, pur rifiutando come astratta la contrapposizione
tra via parlamentare e via rivoluzionaria, e non escludendo quindi a priori
una conquista violenta del potere in determinate circostanze, ritiene che
in Italia il passaggio al socialismo debba essere effettuato da un governo
di sinistra democraticamente eletto, che in via preliminare, con il decisivo
appoggio di un forte movimento di massa, promuova riforme che incidano
sui poteri collaterali dello Stato (apparati di sicurezza, informazione,
giustizia), onde impedire che questi, asserviti agli interessi della borghesia,
mettano in atto operazioni di sabotaggio contro l’esecutivo.
La fase di transizione così configurata non ha quindi niente
a che fare con la dittatura del proletariato di derivazione marxista-leninista:
Lombardi non solo esclude l’assunzione del monopolio del potere da parte
dei partiti di sinistra, ma garantisce anche il rispetto del principio
dell’alternanza, accettando esplicitamente la possibilità di un
ritorno delle sinistre all’opposizione in caso di sconfitta elettorale.
Questa sostanziale fedeltà al metodo democratico, il rifiuto di
soluzioni di carattere eversivo, costitiuscono il trait d’union tra le
diverse fasi in cui si articola l’attività politica lombardiana.
Come si è configurato nel corso della esperienza politica di
Lombardi il confronto strategico con il Pci? Che connotati ha assunto la
sua idea “autonomistica” nel corso della storia così travagliata
tra i due partiti della sinistra italiana?
Nel marzo 1961, intervenendo al XXXIV Congresso del Psi, Lombardi dichiara
che i socialisti sono “acomunisti”, nel senso che al termine assegnava
Merleau-Ponty. In concreto, “acomunismo” significa prendere atto dell’importanza
dei comunisti all’interno del movimento operaio, ma non riconoscerne “l’esclusività
né l’egemonismo”. Il rapporto tra il leader socialista e il Pci
è assai problematico, attraversando diverse fasi. Nella seconda
metà degli anni Venti, esauritasi la militanza nel Partito popolare,
il giovane Lombardi, pur senza prendere la tessera dell’allora PCd’I, si
avvicina al gruppo di Tasca, Di Vittorio, Grieco e Li Causi; interrotto
il rapporto dopo l’espulsione di Tasca e la “svolta” del 1930, Lombardi
si attesta su quelle posizioni autonomiste alle quali resterà fedele
per tutta la vita e di cui sono testimonianza alcune importanti prese di
posizione. Nel 1944, nelle vesti di dirigente del Partito d’Azione, Lombardi
critica la “svolta di Salerno” e l’apertura di Togliatti alla monarchia;
nel 1947, al momento della confluenza del Partito d’Azione nel Psi, quando
socialisti e comunisti sono legati da un patto d’unità d’azione
molto vincolante, lancia la linea dei “due partiti e due politiche”, rifiutando
le ipotesi di fusione ed affermando il diritto dei socialisti a portare
avanti una politica autonoma e, nel caso, anche diversa da quella del Pci,
ferma restando la fedeltà alla politica unitaria; nel gennaio 1948,
pur approvando la costituzione del Fronte popolare, si pronuncia contro
l’adozione della lista unica socialcomunista per salvaguardare la specifica
funzione del Psi; nel giugno dello stesso anno, dopo la sconfitta elettorale
delle sinistre, divenuto direttore dell’Avanti! e capo della maggioranza
autonomista (assieme a Foa, Santi e Jacometti), pretende lo scioglimento
del Fronte popolare e promuove una campagna per la neutralità dell’Italia
e la sua indipendenza dai blocchi (compreso quello sovietico). A causa
di queste iniziative, quantomeno intempestive in una fase di scontro frontale
tra le forze politiche, Lombardi viene duramente attaccato non solo dai
comunisti (significativa al riguardo la polemica con Luigi Longo dell’agosto-settembre
1948), ma dai suoi stessi compagni della sinistra socialista, guidati da
Morandi (la famosa “polemica di Capodanno” si svilippa tra il dicembre
1948 e il gennaio 1949).
Al Congresso di Firenze del maggio 1949 la sinistra interna riprende
il controllo del partito; per Lombardi, come per altri elementi ritenuti
tiepidi nei confronti della politica filocomunista e filosovietica del
duo Morandi-Nenni, comincia una lunga fase di isolamento che si protrae
fino al 1956. Tornata la maggioranza del Psi su posizioni autonomiste,
Lombardi riconquista un ruolo di primo piano, stringendo una solida alleanza
con Nenni, che nel frattempo ha abbandonato le vecchie posizioni frontiste.
Inizia la fase di più dura contrapposizione tra i comunisti e Lombardi,
il quale, come avrebbe raccontato anni dopo Vittorio Foa, si era illuso
che, a seguito della destalinizzazione, il Pci si sarebbe ridotto ad una
forza residuale di piccole dimensioni e che pertanto la guida del movimento
operaio sarebbe passata ai socialiti. Il processo di avvicinamento del
Psi all’area di governo e l’incontro con la Dc inasprisce ulteriormente
il duello a sinistra; l’apice viene toccato nel dicembre 1962, quando Lombardi,
portando il saluto dei socialisti al X Congresso del Pci, dichiara senza
mezzi termini che i rapporti tra i due partiti sono ai minimi storici dal
dopoguerra poiché socialisti e comunisti sono ormai portatori di
politiche divergenti.
L’esperienza del centro-sinistra rappresenta il punto di svolta. L’abbandono
della politica riformatrice di cui era stato il principale ispiratore convince
Lombardi dell’impossibilità di instaurare una società socialista
governando assieme ad un partito come la Dc, formalmente interclassista
ma di fatto assoggettato agli interessi dei grandi monopoli, mentre il
progressivo sganciamento del Pci dal blocco sovietico apre nuovi scenari.
Il dirigente del Psi lancia così la proposta dell’“alternativa socialista”,
che non si riferisce ad un semplice avvicendamento alla guida del paese,
“ma ad una ipotesi precisa: un governo di sinistra col compito di iniziare
la transizione verso una società socialista”.
L’alleanza Psi-Pci non deve però essere interpretata come una
riedizione aggiornata del Fronte popolare; la formula frontista, secondo
Lombardi, è valida infatti solo nelle situazioni di emergenza democratica
e presenta inoltre l’inconveniente di imporre, all’interno dell’alleanza,
la linea della componente più moderata. I comunisti respingono l’offerta:
negli articoli dedicati al colpo di Stato cileno del 1973, Enrico Berlinguer
dichiara esplicitamente che la prospettiva del Pci non è quella
dell’alternativa di sinistra ma quella del “compromesso storico” tra le
principali forze politiche, in primo luogo il Pci stesso e la Democrazia
cristiana, onde evitare una saldatura tra il centro e la destra che potrebbe
mettere a repentaglio la sicurezza delle istituzioni democratiche. Lombardi,
ammaestrato dall’esperienza del centro-sinistra, esprime un giudizio severo
sulle aperture dei comunisti alla Dc, affermando che questa non esiterebbe
a sabotare, ricorrendo anche a mezzi eversivi, un eventuale tentativo di
pacifica transizione al socialismo; inoltre, di fronte alla pretesa comunista
di condurre il dialogo con la Dc sopra la testa dei socialisti, ammonisce,
dimostrando un certo schematismo, che se il Psi ha bisogno del Pci per
realizzare l’alternativa socialista, anche il Pci non può fare a
meno del Psi per attuare il suo disegno politico.
Quando i comunisti, nel 1980, abbandonano la strategia del compromesso
storico e sposano quella dell’alternativa, sarà il Psi, ormai saldamente
controllato da Craxi, a non cogliere le aperture comuniste decidendo di
tornare al governo con la Dc. Così entrambe le ipotesi, quella dell’alternativa
e quella del compromesso storico, sfumano.
Posto che è sempre rischioso per chi fa opera di indagine storiografica
offrire letture attualizzanti, quale pensi possa essere il nocciolo tuttora
valido della lunga riflessione lombardiana? Quali i riferimenti teorici
efficaci da tenere in considerazione allorché si pensi ad una prospettiva
politica di “riformismo rivoluzionario”?
I due grandi progetti politici elaborati da Lombardi, il centro-sinistra
prima e l’alternativa socialista poi, sono sostanzialmente falliti: il
primo ha mancato l’obiettivo di realizzare quelle riforme di struttura
che avrebbero dovuto spianare la strada all’avvento della società
socialista; il secondo non si è neanche concretizzato. Sembrerebbe
dunque che nulla dell’impegno politico di Lombardi possa essere utilizzato
nelle condizioni, peraltro profondamente mutate, di oggi. Un’analisi appena
più approfondita della situazione dimostra però che le cose
non stanno esattamente così. Per comprendere cosa c’è ancora
di vivo nell’insegnamento lombardiano, bisogna fare un piccolo passo indietro,
alla fase finale della carriera, e della vita, del dirigente socialista.
Lombardi, com’è noto, combatte la sua ultima battaglia politica
contro Bettino Craxi. Il quale, ironia della sorte, riesce a conquistare
la segreteria del Psi nel 1976 grazie all’appoggio proprio di Lombardi
e dei suoi seguaci (vicesegretario è nominato Claudio Signorile),
convinti che il delfino di Nenni possa riguadagnare al partito i margini
di autonomia persi durante la gestione demartiniana, ritenuta troppo subalterna
al Pci, mantenendo però al contempo l’impegno a non rientrare al
governo senza i comunisti. Richiesto di un commento sull’elezione di Craxi,
le cui simpatie socialdemocratiche sono ben note sia all’interno che all’esterno
del partito (il Manifesto lo chiama non a caso “l’amerikano”), Lombardi,
con tipica ironia, dichiara che un cattivo vescovo può diventare
un buon papa. Chissà quante volte egli deve aver ripensato a quella
fatale decisione presa nel giugno del 1976 all’hotel Midas; i rapporti
tra il vecchio capo della sinistra interna e il giovane segretario sono
infatti segnati fin dall’inizio da un’ininterrotta serie di contrasti e
polemiche. I due sono molto diversi, complementari per certi aspetti, assolutamente
alternativi per altri: grande stratega ma debole tattico (“politicamente
presbite” per dirla con Nerio Nesi), animato da un’etica della responsabilità
di stampo weberiano-azionista, autonomista ma non anticomunista, Lombardi;
insuperabile tattico ma privo di una visione strategica di lungo periodo,
espressione del primato della politica sull’etica, visceralmente anticomunista,
Craxi.
Lombardi rimprovera a Craxi di guidare il partito secondo i criteri
del Führerprinzip, imponendo una gestione bonapartista quale non si
vedeva dai tempi di Rodolfo Morandi. Ma, più delle questioni di
democrazia interna, a dividere i due è soprattutto la strategia
politica. Craxi dimostra infatti di aderire in maniera puramente formale
alla linea dell’alternativa allorché la subordina ad un riequilibrio
dei rapporti di forza a sinistra, sul modello francese, quantomeno ipotetico;
tant’è che alla prima occasione utile, nell’aprile 1980, riporta
il Psi al governo con la Dc del “preambolo”, riuscendo anche questa volta
nell’operazione grazie all’appoggio determinante dei lombardiani guidati
da De Michelis, che si staccano dalla corrente di sinistra.
Quando Lombardi muore, nel 1984, il Psi è addirittura alla guida
del governo e di lì a poco conoscerà anche una notevole espansione
elettorale, che lo porterà ai massimi livelli dal 1946 (esclusa
la parentesi del Psu); di riforme di struttura, programmazione, alternativa
di sinistra, socialismo, non si parla però più: liquidate
simili questioni come “metafisiche”, il Psi, vittima di quella che è
stata definita una “mutazione genetica”, si adagia in una gestione dell’esistente
segnata da numerosi lati oscuri. La stagione dei trionfi targata Craxi
è tuttavia di breve durata: tra il 1992 e il 1994 il partito è
coinvolto nelle inchieste giudiziarie e scompare dalla scena. Il fallimento
della politica craxiana (perché di fallimento si tratta, sebbene
oggi molti, nel disperato tentativo di rifarsi una verginità politica,
facciano a gara a rivalutare l’operato del segretario socialista) può
portare ad un recupero delle proposte di Lombardi, il quale sembra essersi
preso una rivincita postuma. “E’ nostro compito dare un senso all’eredità
di Riccardo Lombardi, partendo dalle condizioni specifiche del presente”,
scrive Nerio Nesi. E, pur in un contesto politico interno ed internazionale
radicalmente diverso, molte di queste condizioni sono le stesse con le
quali Lombardi si è dovuto misurare e alle quali, per tutta la vita,
ha cercato di trovare risposte valide: l’alienazione del lavoro, l’anarchia
del sistema capitalistico, la contraddizione tra carattere sociale della
produzione e carattere privato dell’appropriazione del prodotto, la disoccupazione,
la separazione tra Stato e società civile, gli squilibri territoriali,
l’oppressione imperialistica dei paesi sottosviluppati. La sopravvivenza
di queste piaghe è la dimostrazione tangibile del fallimento delle
politiche di corto respiro volte unicamente ad una gestione riformistica
del presente e, per contro, dell’attualità di una strategia come
quella lombardiana, consapevole del bisogno di incidere strutturalmente
sulla realtà economica per poter finalmente realizzare una società
che riesca a dare a ciascun individuo “la massima possibilità di
decidere la propria esistenza, e di costruire la propria vita”.
Appurato che l’eredità culturale di Lombardi è ancora
vitale e gravida di potenzialità di sviluppo, sorge però
il problema della mancanza di un soggetto che possa degnamente raccoglierla:
il Psi e il Pci sono scomparsi, e molti degli uomini di punta della sinistra
socialista degli anni Settanta-Ottanta sono approdati su sponde politiche
un tempo impensabili. Per giunta, l’unico grande partito di ispirazione
socialista esistente in Italia sta seriamente pensando di unirsi agli epigoni
della tradizione popolare per dar vita ad una nuova formazione che di fatto
si troverebbe tagliata fuori dalla famiglia del socialismo europeo: proprio
quell’unione della sinistra con il centro politico di cui Lombardi aveva
sperimentato sulla propria pelle i limiti insuperabili e alla quale opponeva
il progetto di una solida alleanza tra le forze di sinistra per creare
una possibile alternativa al sistema. Paradossalmente, a recepire la lezione
lombardiana si mostrano più pronti i partiti di ispirazione comunista,
che, anche a livello internazionale, come dimostra il caso del costituendo
partito della “Sinistra europea”, non esistano ad annoverare il vecchio
teorico del “riformismo rivoluzionario” tra i propri punti di riferimento.
Francesco Grassi è dottorando in Storia e sociologia della
modernità presso il dipartimento di scienze della politica dell’Università
di Pisa.