Quella di Potere operaio fu una vita breve ma intensa. Coetaneo di Lotta
Continua, nascono entrambi nell’autunno del 1969, si dissolve nella primavera
del 1973, tre anni prima di Lotta Continua. Il libro di Aldo Grandi ripercorre
questa vicenda segnalando però, fin dal sottotitolo che non si tratta
della storia di Potere operaio ma di “storie”, perché la ricerca
e la ricostruzione si basano principalmente sulle testimonianze e i racconti
dei protagonisti, soprattutto dirigenti nazionali e locali che fecero parte
del gruppo. A queste testimonianze si affiancano, quali fonti documentarie,
rapporti e carte di polizia, ora in parte disponibili, e ad articoli tratti
dalla pubblicistica di Potere operaio. La storia di questo gruppo della
sinistra extraparlamentare è da inserire in quel fenomeno più
generale che vide affacciarsi sulla scena politica e culturale una generazione
di giovani “estremisti” i quali spesero, nel decennio Settanta, qualche
anno della vita non per fare denaro e carriera, ma perché si aprisse
in Italia un processo di trasformazione radicale delle strutture economiche,
sociali, istituzionali, delle culture politiche, partitiche e sindacali,
dei valori comuni e correnti che disegnavano allora il senso della vita
privata e pubblica.
Nella prima parte il libro ricostruisce le origini ideologiche e politiche
del gruppo individuandole in quel sommovimento critico che percorse la
sinistra italiana dopo i drammatici eventi del 1956 (XX Congresso del PCUS
e repressione della rivolta ungherese) e, in particolare, in quel filone
di ricerca e di dibattito che si sviluppò attorno alla figura di
Raniero Panzieri, la rivista Quaderni Rossi e la successiva diaspora che
portò alla spaccatura della redazione e alla pubblicazione di una
nuova rivista, Classe Operaia. Determinanti per la formazione ideologica
e teorica di molti esponenti del futuro Potere operaio furono gli scritti
di Mario Tronti (raccolti e pubblicati nel 1966 sotto il titolo Operai
e capitale).
Tronti, era convinto che occorresse analizzare il capitale nei punti
più alti del suo sviluppo e che quest’ultimo fosse determinato dalla
lotta della classe operaia. Una classe operaia nuova e rinnovata dalle
moderne forme produttive fordiste che riducevano il peso dell’operaio professionale
e di mestiere a facevano aumentare quello dell’operaio comune, dequalificato,
addetto alla catena di montaggio, detto altrimenti operaio massa. Avvalendosi
di immagine efficaci e poetiche Tronti chiamava questa nuova classe operaia
“rude razza pagana” e la considerava produttrice dello sviluppo e della
modernità, pronta alla rivolta insurrezionale, come scrisse in 1905:
“una corazzata Potemkin è facile trovarla in qualsiasi Piazza Statuto”.
E alcuni anni dopo Toni Negri diceva: “Torino è la nostra Detroit
e Mirafiori le nostre officine Pulitov”. In questo modo Lenin era riportato
dall’Oriente arretrato all’Occidente, punto più avanzato dello sviluppo
capitalistico (Lenin in Inghilterra era, appunto, un titolo immaginifico,
di uno scritto di Tronti).
Per loro il comunismo doveva essere qualcosa di nuovo, d’inedito, da
reinventare in Occidente, dove era più alto il punto di sviluppo
del capitale e la classe operaia era più forte. Era un comunismo
che rompeva con la tradizione comunista a cominciare dall’ideologia produttivista
e del culto del lavoro. Ribaltando con forza e scandalo provocatorio l’assioma
tradizionale, secondo il quale il movimento operaio lotta per il lavoro
e ha come obiettivo finale la liberazione del lavoro dal giogo del padrone,
Potere operaio proponeva il rifiuto del lavoro come ribellione primaria
che doveva condurre a liberarsi definitivamente dal lavoro. In questo senso:
“il rifiuto del lavoro è rifiuto, insieme del capitalismo e del
socialismo come forme di produzione che si fondano sull’estrazione sociale
del profitto”, si poteva leggere sul n. 3 di Potere Operaio dell’ottobre
1969.
A dare concretezza a quelle che erano inizialmente ipotesi teoriche
e politiche contribuì la ripresa delle lotte operaie nella seconda
metà degli anni sessanta e, in particolare per la storia della nascita
di Potere operaio, quelle degli stabilimenti di Porto Marghera nel 1968
e della Fiat di Torino nel 1969. Qui davvero ci si trovò di fronte
ad esponenti di una nuova “rude razza pagana”: erano i giovani operai meridionali
di recente immigrazione, costretti a lavori dequalificati, circondati dall’ostilità
della Torino piemontese, “incazzati”, come ben li sintetizzava Gasparazzo,
protagonista del fumetto ideato da Roberto Zamarin. In quella situazione,
nel pieno delle lotte dell’autunno caldo del 1969, nasceva Potere operaio,
formalmente con l’uscita del settimanale omonimo il 18 settembre 1969.
Nel gennaio del 1970 si teneva a Firenze il primo convegno nazionale
di Potere Operaio al quale parteciparono meno di un centinaio di persone.
Si discusse su che tipo di organizzazione darsi, fluida, movimentista,
oppure più strutturata, disciplinata e “comandata”. Come tanti altri
gruppi extraparlamentari, appena sorti, anche Potere operaio aveva all’inizio
un ordine interno alquanto disordinato, senza tessere, regole, statuti,
direzioni, responsabili nominati. Né esso riuscirà, anche
quando proverà a farlo, a mettere ordine, disciplina e “partito”
in questo “caos” primordiale. Tentativi di dare maggiore consistenza e
disciplina al gruppo furono comunque fatti negli anni che precedettero
al suo dissolvimento, a cominciare dal secondo convegno nazionale del settembre
1970 che si tenne a Bologna e che nominò una direzione nazionale
ed elesse il primo segretario politico: Alberto Magnaghi. L’anno trascorre
tra l’esaltazione delle potenzialità di rivolta insite nel Sud dell’Italia,
la decisione di avviare un intervento politico nelle regioni meridionali
dove la presenza di Potere operaio era scarsa, per non dire nulla e il
fallito tentativo di unirsi col gruppo del Manifesto. Parallelamente e
similmente ad altri gruppi dell’estrema sinistra, in quel periodo, si prendeva
in considerazione il problema della violenza e del servizio d’ordine a
scopo difensivo o come coadiuvante dell’azione di presa di coscienza politica.
Scrive in merito l’autore del libro che “il problema della violenza, del
confine tra ciò che era lecito e illecito, non fu una prerogativa
di Potere operaio. All’epoca una certa violenza era un dato di fatto di
tutti i gruppi, ma, nello stesso tempo, era una cosa molto distante dalla
lotta armata degli anni successivi”.
La terza conferenza nazionale di organizzazione di Potere Operaio che
si tenne a Roma nel settembre del 1971 fu la più spettacolare e
la più visibile di tutte. Lo slogan era tutto un programma: “Potere
Operaio per il partito, per l’insurrezione, per il comunismo”. Più
di mille partecipanti in rappresentanza di 57 sezioni e 108 cellule. L’immagine
che si volle offrire era quella di un gruppo che stava assumendo la forma
di partito con sezioni, cellule, direttivi e commissioni di controllo,
tesseramento, quote mensili da pagare e un nuovo segretario politico nazionale;
Toni Negri. Ancora una volta accanto all’immagine pubblica e alle intenzioni
vi era una realtà organizzativa meno ferrea e definita. Resistenze
al “nuovo corso” si registravano a Porto Marghera, mugugni a Torino borbottii
e/o abbandoni in altre località. Per coadiuvare l’insurrezione,
intesa non come predisposizione di un piano militare di presa del potere,
ma come stato di rivolta generale degli strati subalterni da organizzare,
indirizzare, aiutare, fomentare, si costituì un apparato illegale
che iniziò a parlare di armamento e che, soprattutto a Roma, dove
il responsabile era Valerio Morucci, cominciò ad organizzarsi con
l’obiettivo di affiancare l’autodifesa del movimento con iniziative esterne
e con il tentativo di autofinanziarsi.
La morte di Giangiacomo Feltrinelli, avvenuta il 15 marzo 1972
a Segrate, sotto il traliccio che si apprestava a far saltare, provocò
scompiglio nella sinistra rivoluzionaria, ma soprattutto in Potere Operaio,
questo perché gli investigatori individuarono ben presto in Carlo
Fioroni, militante del gruppo, colui che aveva assicurato il furgoncino
Wolkswagen ritrovato a poche centinaia di metri dal traliccio. Potere operaio
si riunì in convegno a Firenze nel giugno del 1972, depose Toni
Negri da segretario ed elesse al suo posto Franco Piperno. Le divergenze
interne si erano fatte più evidenti. Da una parte chi reputava,
come Negri ed altri, che la funzione e la forma politica del gruppo fossero
finite e quindi proponevano, di fatto, lo scioglimento e l’adesione alle
assemblee autonome delle grandi fabbriche, che avevano costruito una loro
organizzazione alla Pirelli, all’Alfa e alla Sit-Siemens. Dall’altra chi,
assieme a Franco Piperno e Oreste Scalzone, invece sostenevano che la funzione
del gruppo non era solo quella di sollecitare e stimolare l’autorganizzazione
delle avanguardie, doveva anche svolgere un compito di sintesi e direzione
politica delle lotte dei vari settori.
Le divisioni interne si accentuarono dopo quanto accade a Primavalle.
Qui, la notte tra il 15 e il 16 aprile 1973 qualcuno versò della
benzina sulla facciata eterna della porta d’ingresso dell’abitazione della
famiglia di Mario Mattei, segretario della locale sezione del MSI. Nel
rogo morirono i due figli. Tre militanti di Potere Operaio furono arrestati
con l’accusa di omicidio e di strage. Assolti nel processo di primo grado
per insufficienza di prove, al termine dell’iter giudiziario furono condannati
alla pena di anni diciotto di reclusione per omicidio preterintenzionale
e incendio doloso.
Si giungeva così alla “famosa” conferenza d’organizzazione di
Rosolina del 31 maggio, 1- 2 -3 giugno 1973. Famosa perché, dopo
gli arresti del 7 aprile 1979 di alcuni dirigenti di Potere operaio, molti
hanno sostenuto che quella conferenza organizzò un finto scioglimento
del gruppo per mascherare invece il passaggio alla lotta armata e alla
direzione di essa. Scrive invece esplicitamente e con sicurezza l’autore
del libro che quell’incontro “non fu, come molti hanno pensato, uno stratagemma
per simulare uno scioglimento fittizio del gruppo. Davvero allora si concluse
la storia di potere operaio” Dopo Rosolina le sedi di potere operaio cominciarono
a chiudere. A Rosolina, spiega Dalmaviva, “fu ratificata la sconfitta della
linea uscita dalla conferenza romana del 1971. Io fui eletto segretario
affinché spegnessi la luce”.