Le fonti principali usate per la ricognizione dell’antifascismo parmense
durante il ventennio fascista (1922-1943) sono le carte del casellario
politico provinciale della locale questura e quelle del casellario politico
centrale di Roma. Con queste carte è stato possibile realizzare
un’ anagrafe dell’antifascismo parmense composto da 2.760 schedati e pubblicato
in ordine alfabetico nelle pagine finali del libro. Inoltre, la ricognizione
ha permesso di definire la dimensione del fenomeno sul territorio urbano
e provinciale, l’origine e la provenienza sociale ed economica degli antifascisti,
le classi d’età coinvolte, la divisione secondo il genere, il grado
e il tipo di adesione alle organizzazioni clandestine, le funzioni esercitate
nell’attività antifascista, il ruolo svolto e i diversi percorsi
individuali delle persone coinvolte. Parallelamente le carte e le informazioni
in esse raccolte offrono un’immagine del tipo di lavoro poliziesco svolto
e della struttura repressiva messa in campo: la rete del regime, appunto
che a Parma, dato il suo passato di opposizione forte al fascismo, fu particolarmente
efficace e messa alla prova. Non a caso il libro, scritto a più
mani, si apre con un capitolo storico introduttivo di Mario Palazzino su
antifascismo e stato poliziesco che mette in luce come a Parma, più
che altrove, il passaggio dal regime liberale al sistema di potere fascista
si manifestò con una rottura netta nella direzione di una maggiore
stretta repressiva. Il ricordo delle barricate che nell’agosto del 1922
avevano fermato le squadre fasciste di Balbo indusse Mussolini a
emanare misure straordinarie in materia di ordine pubblico. In questo senso,
scrive Mimmo Franzinelli nell’introduzione, “Parma funse, per il primo
governo Mussolini, da prototipo; una pluralità di misure liberticide
fu infatti introdotta nella città emiliana con tre anni d’anticipo
sulla legislazione eccezionale del 1926”.
I capitoli successivi entrano nel merito specifico della ricerca sul
terreno, come direbbero i sociologi. William Gambetta tratta dell’antifascismo
popolare urbanisticamente contrapposto a quello cittadino. La sede di quell’antifascismo
è quella del rione dell’Oltretorrente, dove vivono le classi più
povere, spesso mosse da un antifascismo istintuale, che è prima
ancora che manifestazione politica, rancore istintuale verso il potere
e l’autorità. Un antifascismo che si annida nel dadalo di vie e
viuzze che collegano i quartieri, nella abitazione messe strettamente una
accanto all’altra, comunicanti per cortili, corridoi, soffitte e cantine.
Al tema dell’antifascismo “cittadino” è dedicata la ricerca di Marco
Minardi che esplora un terreno spesso dimenticato. Molta delle precedente
produzione storica si è infatti soffermata sugli Arditi del popolo
dei primi anni venti e, successivamente, sull’indagine dell’organizzazione
clandestina comunista, lasciando in ombra la presenza di un antifascismo
democratico-borghese di matrice laico-progressista cin ascendenze risorgimentali.Margherita
Becchetti e Ilaria La Fata descrivono, invece, l’antifascismo della provincia,
scoprendo il variegato tessuto dell’associazionismo di derivazione prampoliniana
e il movimento sociale d’ispirazione cattolica. Conclude il libro il saggio
di Brunella manotti che esplora il rapporto donne-politica a partire dalle
schedature di polizia. !56 sono i fascicoli personali dedicate dalla polizia
alle donne antifasciste. Emerge che il criterio principale d’individuazione
delle avversarie del fascismo era la parentela con gli oppositori: sorelle,
amanti, spose di dissidenti furono sottoposto al controllo della polizia.
L’autrice inserisce le donne antifasciste nel contesto della vita quotidiana,
della casa, del borgo e della fabbrica, sforzandosi, dov’è possibile,
di esplorare la sfera dei sentimenti.
Diego Giachetti