I figli del Sessantotto, che oggi compiono quarant’anni, sembrano guardare
a quella data e alla generazione dei loro padri con gli occhi disincantati,
leggendo gli eventi di allora sotto il segno di una grande, ingenua ubriacatura
ideologica dagli esiti tutt’altro che coerenti rispetto alle aspirazioni
di chi vi prese parte attivamente. Tra i più giovani il Sessantotto
pare assumere connotati ancora più sfumati, quelli di una pittoresca
quanto indefinita epoca di hippies che ha lasciato di sé, prevalentemente,
una serie di segni esteriori (nella musica, nell’immagine, nell’abbigliamento)
che si prestano oggi ad essere riscoperti in una sorta di patchwork dal
sapore vintage. Spesso nel discorso pubblico il Sessantotto è oggetto,
nel migliore dei casi, di letture dal sapore reducistico che rimandano
a una sorta di età dell’oro, di nostalgico paradiso perduto; oppure,
nel peggiore, a una cupa immagine revanscista di evento madre di tutti
i mali, incubatore degli anni di piombo. Ennesimo esempio di una, inevitabile,
memoria divisa. Immagini che si confrontano e si confondono mentre diverse
tra le “conquiste” seguite alle lotte di quegli anni vengono quotidianamente
messe in discussione: diritti dei lavoratori, aborto, critica della famiglia
patriarcale.
Il volume di Diego Giachetti Un sessantotto e tre conflitti. Generazione,
genere, classe (BFS edizioni, 2008, euro 13) è un interessante antidoto
alle visioni stereotipate e riduttive di quel vasto e multiforme processo
di trasformazione che prese le mosse negli anni Sessanta ed ha prolungato
i suoi effetti (nel modo di intendere la politica, le relazioni tra i generi,
le culture), pur in contesti differenti, fino ai nostri giorni. Molto di
ciò che oggi riteniamo “normale”, infatti, ha la sua origine in
quegli anni, che rappresentarono una rottura notevole nelle consuetudini
sociali e negli schemi mentali rispetto alle epoche che li avevano preceduti.
Giachetti non offre un’antologia di testi, una ricostruzione dei dibattiti
teorici, né una cronologia degli eventi. Ci permette invece, tramite
l’utilizzo in chiave storica di alcuni strumenti analitici di ambito sociologico,
di ricostruire la complessità degli avvenimenti, il loro retroterra
culturale, i profondi nessi che li vennero collegando tra loro, le modalità
secondo cui si svilupparono e i loro effetti di lunga durata. Classe, genere,
ma soprattutto generazione sono categorie che, applicate all’analisi del
Sessantotto e dei movimenti che lo hanno attraversato, riescono a dare
conto della ricchezza ed estensione di fenomeni che hanno investito una
consistente fetta dei giovani di quell’epoca, in numerosi luoghi sparsi
in ogni parte del mondo.
La storia del “lungo Sessantotto” è innanzitutto la storia di
un ventennio, quello degli anni Sessanta e Settanta, che vide lo sviluppo
di un livello di conflittualità sociale sconosciuto nei venti anni
precedenti, quelli della ricostruzione postbellica e del successivo boom
economico. È proprio la società del benessere diffuso e dello
sviluppo dei mass-media a innescare una serie di rivendicazioni nuove,
nel quadro di un contesto reso statico dalla contrapposizione in blocchi.
Al di qua e al di là della cortina di ferro, ma anche nei paesi
del Sud del mondo, secondo modalità diverse prendono forma esigenze,
stili di vita, movimenti dalle caratteristiche spesso comuni. A cominciare
da fattori eminentemente culturali ed esistenziali: la musica, il look,
un diverso modo di atteggiarsi, di guardare ai propri coetanei e alla morale
sociale dominante.
Nel conflitto generazionale innescato da una nuova generazione “irresponsabile”,
senza storia, si sviluppa una radicalizzazione politica che giunge a mettere
in discussione lo stesso assetto sociale nella convinzione che sia possibile,
in breve tempo, giungere a una sua radicale trasformazione. La nuova generazione
non è solamente quella degli studenti: è quella delle donne
che, introducendo nel lessico politico la categoria di genere, pongono
all’ordine del giorno non più solamente la necessità di acquisire
pari diritti rispetto agli uomini, ma la messa in discussione del ruolo
sociale dei generi, del modello dominante nelle relazioni tra maschile
e femminile, della società patriarcale nel suo complesso; è,
inoltre, quella di una massa di giovani operai, spesso immigrati dalle
campagne nella grande città, alle prese con una sempre maggiore
standardizzazione e razionalizzazione del processo produttivo nel quadro
di un’ideologia “produttivista” condivisa dai “vecchi”, operai comunisti
tanto quanto padroni capitalisti.
Per tutti, ad ogni modo, è la generazione del beat, del rock,
della psichedelia, dei capelli lunghi e delle minigonne. È quella,
inoltre, dei cortei, degli slogan, dei comitati, delle sedi politiche,
delle occupazioni, della vita in comune e del rifiuto del lavoro. Una generazione
che, non trovando risposte nella dialettica politica e sociale esistente,
ritualizzata in quadri istituzionali non modificabili, crea da sé
gli strumenti del proprio agire inventandosi nuovi mezzi di espressione,
nuove modalità di attivismo politico, nuove forme di organizzazione,
andando a riscoprire e rivitalizzare le correnti eretiche, minoritarie
e sconfitte del pensiero politico di sinistra.
Anche se talune esperienze e movimenti saranno di breve durata, l’eredità
del Sessantotto come frattura generazionale non verrà meno, contribuendo
a disegnare il mondo, le relazioni sociali e l’immaginario in maniera radicalmente
diversa rispetto al passato.
(scheda di presentazione a cura dell'editore)