Marco Grispigni, autore del libro 1977 (Roma, Manifestolibri, 2006),
all’epoca dei fatti aveva vent’anni, viveva a Roma, era iscritto all’università
ed era “uno del movimento”. Ci consegna quindi un lavoro nel quale la storia
ricostruita coincide con l’autobiografia. Questa coincidenza può
essere utile alla ricostruzione storica perché in grado di ricordare,
oltre ai fatti, le emozioni e il “vissuto” come s’iniziò a dire
allora. Non sempre il linguaggio esclusivamente neutrale e scientifico,
distaccato e freddo, che spesso assume lo storico, è in grado di
dare conto compiuto del pulsare della vita, intesa come sentimenti, affetti,
emozioni, di un movimento sociale che si esprime in un momento storico
caratterizzato da grandi scossoni, da cambiamenti improvvisi che suscitano,
in chi li vive, oltre a riflessioni fredde e razionali, impulsi emotivi,
scatti di gioia o di rabbia o di rancore. Quindi bisogna avere il coraggio
di lasciare che il linguaggio dello storico si contamini con quello delle
altre narrazioni, il cinema, la letteratura, le canzoni, la musica, i fumetti,
per costruire un reticolo di lettura e interpretazione capace di riportare
allo “spirito del tempo”.
Il contesto da cui parte per sviluppare la storia del movimento
del ‘77 è quello dei primi anni Settanta, quando una parte minoritaria
ma consistente della giovane generazione vive una grande speranza, seguita
a breve termine da una gran delusione. La speranza di un grande cambiamento,
di una trasformazione radicale delle strutture economiche, sociali e politiche
del paese, è data dalla spinta ricevuta dalle lotte operaie e studentesche
del ’68 e del ’69. La nuova generazione, impegnata politicamente nei gruppi
extraparlamentari, nelle assemblee e nei comitati, dentro e fuori gli organismi
sindacali, è convinta di risolvere il problema della rivoluzione
nel breve tempo, freme impaziente di fronte alle mediazioni e alle cautele
della politica tradizionale, quella che praticano i partiti della “vecchia”
sinistra.
Entusiasmo, delusione, rabbia
Le elezioni amministrative del giugno 1975, il cui dato saliente fu
l’avanzata del PCI, del PSI e il crollo di consensi alla DC, furono ancora
alimento di chi sperava in cambiamenti profondi, a partire dal quadro politico
governativo: la DC perdeva consensi, quelli dei partiti di sinistra aumentavano
quindi si andava verso un governo delle sinistre, che avrebbe costretto
la DC all’opposizione e accantonato la prospettiva del compromesso storico
(una grande alleanza governativa tra PCI e DC), caldeggiata dal PCI fin
dal 1973 per fronteggiare la crisi. Esattamente un anno dopo, le elezioni
politiche anticipate del 20 giugno 1976, rovesciarono queste speranze,
facendole diventare illusioni. Il PCI cresceva ancora, come la DC d’altronde,
mentre il cartello elettorale dei gruppi della nuova sinistra, Democrazia
Proletaria, otteneva solo l’1,5% dei voti, un risultato vissuto subito
dai più come una sconfitta; inoltre, i numeri non erano sufficienti
per formare un governo di sinistra e così si formava l’ennesimo
governo a guida democristiana con Giulio Andreotti, ma con la novità
di essere sorretto dall’astensione dei comunisti. Prendeva forma un nuovo
quadro istituzionale e governativo che si inseriva in un ciclo economico
di crisi e di recessione molto diverso da quello che aveva caratterizzato
gli anni appena trascorsi.
Improvvisamente, una parte consistente del mondo giovanile che aveva
sperato nella trasformazione si sentì spiazzata, senza una rappresentanza
e delusa dal “fare politica” che aveva praticato fino al giorno prima.
La sinistra extraparlamentare, a cominciare dal congresso di Rimini di
Lotta Continua del 1976, fu attraversata da una crisi profonda. Settori
di militanti si staccarono da quelle formazioni, alcuni ritirandosi delusi
dalla politica, altri entrando nel variegato e magmatico mondo che andava
sotto il nome di Autonomia Operaia. Altri ancora rimasero sconcertati a
considerare con rabbia, angoscia e disperazione la prospettiva di non avere
più un futuro, o meglio che il futuro non fosse quello da loro desiderato
e che la storia, vista la direzione che stava prendendo, li avrebbe soppressi:
“non abbiamo né passato né futuro, la storia ci uccide”,
iniziarono a scrivere sui muri delle università.
Quando il ministro Malfatti, sul finire del 1976, provò
ad introdurre alcune riforme nel sistema universitario, la miccia si innescò
e scoppiò, con una serie di occupazioni delle Facoltà italiane,
il movimento del 1977, dentro il quale confluirono soggetti giovanili di
varia provenienza, dai disoccupati, agli studenti fuori sede, dai delusi
dalla politica dei gruppi ai militanti dell’autonomia operaia, dai giovanissimi
studenti delle medie superiori alle giovani donne del movimento femminista.
Esso finì coll’essere un’amalgama mai riuscita, nella quale convivevano
istinti ribellistici, una disponibilità alla violenza spontanea
con un rifiuto dell’organizzazione politica e in alcuni casi dell’idea
stessa di politica.
Contro il Pci
A differenza del ’68, questa volta il PCI si collocava nell’area governativa, e quindi il movimento si trovò immediatamente all’opposizione anche rispetto ai comunisti. Era un fatto nuovo che non aveva precedenti nella storia del paese, Mai un movimento di sinistra si era opposto risolutamente e senza possibilità di mediazione al PCI. La cacciata di Luciano Lama, segretario generale della CGIL, dall’università di Roma il 17 febbraio 1977, accentuò e rese irreversibile l’incompatibilità tra movimento, partito comunista e CGIL. In questo senso, come fa notare Grispigni, “il ’77 fu un movimento anticomunista”, cioè contro il PCI; volle inoltre marcare la sua differenza dal ’68 recidendo i legami, anche critici, con la tradizione storica del movimento operaio e con quella dei precedenti movimenti sociali, criticando a fondo l’idea stessa di politica e di militanza politica. Se il ’68, almeno in Italia, aveva favorito una socializzazione tutta politica dei giovani, il ’77 segnò, per molti dei partecipanti, l’inizio della fine della politica come elemento socializzante e impegno volto a modificare la società. Nel nome dell’impoliticità, della critica della politica, ci si allontanò da quell’ambito d’azione, lasciando spazio al vivere qui ed ora, nel presente, liberando la vita soggettiva e il corpo dalle maglie oppressive dei micropoteri; così il movimento, nei suoi primi mesi di vita, richiamò nelle sue file molti di quelli che già individualmente si erano allontanati dalla politica attiva e dai movimenti negli anni precedenti.
Senza “più santi né eroi!”
La crisi dell’agire politico era anche la conseguenza del venir meno
di una prospettiva futura, di un lavorare per un qualcosa che doveva venire.
Vi era nel movimento quasi la consapevolezza, tragica, di condurre una
battaglia persa, poiché la società non sarebbe cambiata,
lo Stato e il PCI erano avversari troppo forti per sperare di batterli,
il comunismo non era più una prospettiva plausibile, ormai esso
appariva solo - nell’immagine pietrificata e burocratica di Breznev - un
regime dispotico, illiberale, autoritario. Quel movimento non poté
nutrirsi, come accadde al ’68, delle speranze rivoluzionarie indotte, nel
quadro internazionale, dalla rivoluzione cubana, dal guevarismo, dalle
guardie rosse, dai vietcong. Quella speranza di rinnovamento profondo del
socialismo era ormai passata, sconfitta. La guerra tra Cina e Vietnam,
l’invasione vietnamita della Cambogia di Pol Pot rappresentarono per quella
generazione, se il parallelismo c’è consentito, il loro XX Congresso,
il crollo dei miti.
Con quel movimento si consumò il tentativo di rinnovare radicalmente
il comunismo, quello storicamente realizzato, coniugando elementi radicali
del pensiero democratico-liberale col sovversivismo del marxismo eretico
ed eterodosso. Si voleva conciliare l’individuo, il personale, i bisogni
individuali, tutelando minoranze e valorizzando le differenze, con la lotta
di classe, con la dimensione collettiva, partecipativa, pubblica dell’azione
sociale e politica ai fini del controllo sui mezzi di produzione e per
la liberazione dal e del lavoro. Una grande ipotesi, morta col la morte
del movimento e riemersa, subito dopo nel decennio ottanta, quando la crisi
dell’egemonia comunista lasciò il posto all’egemonia liberale tout
court e lontana da ogni radicalismo egualitario e libertario.
Altre variabili segnavano la differenza col ’68 e indicavano che l’epoca
della stagione dei movimenti apertasi negli anni sessanta stava per finire.
Il ’77 ebbe caratteristiche prevalentemente nazionali, fu un fenomeno prettamente
italiano, che non ebbe riscontri diretti e correlati con altri eventi in
paesi occidentali. Questo, - nonostante si provi a richiamare il punk inglese
o l’esproprio dei supermercati che si verificò durante il blak out
a New York nel 1977 - lo rese differente dal ’68 evento planetario.
Se mai, nel suo isolamento, esso fu in parte anticipatore delle rivolte
giovanili che accadranno negli anni ottanta in alcune città d’Europa
come Zurigo, Berlino Amsterdam. Nell’immediato però, l’isolamento
rafforzò il senso di accerchiamento in cui esso venne a trovarsi
sul piano interno e internazionale.
Sentirsi circondati da avversari significò, per l’ala che voleva
continuare ad essere politica e antagonista, mettersi sulla strada pericolosissima
del “colpo su colpo”, della riposta spesso violenta alla repressione statale,
aprendo per alcuni percorsi “verso la follia sanguinaria della lotta armata”,
mentre per gli altri, in maggior numero, si risolse nella critica “distruttiva
delle categorie stesse dell’agire politico conducendo verso approdi impolitici
i comportamenti sovversivi”, sostiene Grispigni.
Un movimento nuovo e strano
Quello strano movimento degli studenti, come fu definito a caldo, visse
pochi mesi e pericolosamente, schiacciato dalle manovre repressive dello
Stato, dell’ostilità messa in campo dal PCI e dalla carica di violenza
che frange consistenti al suo interno praticavano. Grispigni traccia la
storia del susseguirsi di episodi cruenti che condizionarono il dibattito
e le prese di posizione. La violenza non fu più solo praticata a
scopo difensivo nei confronti degli attacchi dei neofascisti o della polizia,
erano parti consistenti dei partecipanti al movimento stesso che attaccavano
e aggredivano, cercando esplicitamente la radicalizzazione armata del conflitto.
Si trattava spesso di una violenza spontanea, non irrigidimentata in forme
organizzative, come al tempo dei servizi d’ordine, praticata da giovani
e giovanissimi in un susseguirsi di azioni di cui spesso il significato
simbolico ed estetico superava l’analisi politica, a segnare un vitalismo
soggettivo, una la fascinazione prodotta dal pensiero negativo, che si
univa, per quanto riguarda quella che si chiamava l’ala creativa, alla
scoperta di un linguaggio sperimentale nuovo, all’uso del nonsense e dell’arma
dell’ironia per criticare l’avversario. L’ironia, in determinate situazioni
però può essere segno di debolezza, di mancanza di prospettive
a breve e medio termine, per cui non resta che demistificare e “rovesciare”
in parodia ciò che l’avversario propone.
L’esercizio della violenza, spesso anche dentro il movimento,
per conquistarne l’egemonia, fu duramente contrastato dall’ala dell’autonomia
sociale e dal movimento femminista; ma fu una battaglia sostanzialmente
persa che provocò l’allontanamento di tanti giovani dal movimento,
da un lato impauriti e disgustati dalla violenza dello scontro interno,
dall’altro insoddisfatti dal ritorno della vecchia politica. Questa componente
prese un’altra strada, quella della creatività, della invenzione
letteraria e linguistica, una strada che assomigliava alla costituzione
di un’avanguardia artistico-letteraria di massa. Questa fase si concluse
già con la primavere dal 1977, quando al momento innovativo, gioioso
e dissacrante del movimento subentrò l’esercizio della politica
e il testimone passò agli autonomi e ai gruppi della lotta armata
che portarono così a conclusione una storia che tornò ad
essere interna alla parabola della sinistra estrema italiana. Quest’ala
“politica” fu sconfitta e battuta sul campo nel corso del 1978.
L’altra anima del movimento, quella critica verso la politica, che
si chiamò fuori ed oltre, produsse innovazione culturale, destrutturazione
e sovversione del discorso dominante, soffermandosi sull’importanza della
comunicazione attorno alle esperienze delle radio libere: Radio Alice,
Città Futura, Popolare, Sherwood, Onda Rossa e tante altre. Bruciata
però la fiammata di ritorno del convegno bolognese sulla repressione
in Italia del settembre 1977, il movimento ormai declinava in un crescendo
di violenze: Walter Rossi fu ucciso a Roma il 30 settembre da un gruppo
di fascisti; nella manifestazione torinese di protesta, l’assalto al bar
Angelo Azzurro il 1° ottobre provocò la morte del giovane Roberto
Crescenzio. Il 1978 si aprì con l’agguato a Roma contro i fascisti
a Via Acca Larenzia che provocò la morte di due giovani, poco dopo,
il 16 marzo le Brigate Rosse a Roma rapivano Aldo Moro, presidente della
DC. Il movimento ormai non esisteva più, piegato dalla violenza,
dalla repressione, delle lotte interne era scomparso, portando con sé
tutte le sue ambiguità dovute, come dice l’autore, al suo essere
“punto di svolta: ultima disperata fiammata di rivolta. Disperata perché
consapevole dell’inutilità dei vecchi strumenti per un processo
reale di liberazione; disperata per la consapevolezza del fallimento storico
dell’idea di rivoluzione comunista nel mondo”.
Diego Giachetti, "Erre", N. 21/2006