Le figure della foto hanno più o meno la stessa età che
avevo all'epoca. A quei tempi, al ginnasio, si poteva essere puniti per
essersi alzati dal banco senza permesso, magari solo per prendere il fazzoletto
dalla tasca del cappotto appeso all'attaccapanni lì accanto. Fino
a quel momento una disciplina insensata era apparsa qualcosa di ovvio e
normale. E in America non era troppo diverso, immagino. Poi, quasi all'improvviso,
quello che sembrava normale e ovvio venne giù come un castello di
carte. Tuttavia, nonostante un punto di contatto forte come il rifiuto
dell'autoritarismo, il Sessantotto americano fu altra cosa da quello europeo,
da quello italiano in particolare. Osservando questa fotografia lo si percepisce
chiaramente.
Guardate i cartelli. Sono cartelli contro la guerra in Vietnam. Ma
sopra non c'è scritto «Potere ai vietcong» o «Vietnam
rosso» e nemmeno «Vietnam libero», che era lo slogan
più moderato. C'è scritto invece: «Amore per sempre»,
«Fermate la guerra» e, brillante sintesi, «LSD per LBJ»,
ossia «Acido per Lyndon B. Johnson», come se in una manifestazione
pacifista di oggi si leggesse: «Ecstasy per Bush».
Questo modo di mescolare la protesta politica con ciò che attiene
alla felicità «privata» è arrivato in Europa,
soprattutto in Italia, parecchio più tardi. Intorno al Sessantotto
eravamo più radicali nelle parole d'ordine e insieme piuttosto rigoristi
e puritani, certamente perché contorti in adolescenze ingrate, ma
anche perché influenzati dalla cultura della sinistra tradizionale
che, sia pure non del tutto priva di tratti libertari (penso all'influsso
di Sartre sulla mia generazione), concepiva l'emancipazione come l'affermazione
di un collettivo e non come la messa in gioco di se stessi entro quell'ambito
di unicità irriducibile che fa di ciascuno un individuo. Il dilemma
tra libertà collettiva e libertà personale - nella Rivoluzione
francese come nelle rivoluzioni tout court - era stato messo in scena da
Peter Brook con il suo Marat/Sade tratto dal testo di Peter Weiss. Ci colpì
molto, ma eravamo ancora lontani dal comprendere che si trattava di una
contraddizione insanabile all'interno del classico schema rivoluzionario.
In fondo tutto il ricorrente dibattito sul Sessantotto può essere
ridotto a questo nodo. Quella rivolta di carattere mondiale - in gran parte
misteriosa nelle sue origini e nella straordinaria capacità di diffusione
in tutti i settori della vita sociale - fu soltanto il trampolino di un
individualismo che avrebbe celebrato i suoi mediocri fasti in seguito,
nella «restaurazione» degli anni Ottanta, o fu il prodromo,
sia pure smarritosi per strada, di una rivoluzione sociale di tipo nuovo?
Probabilmente l'uno e l'altro.
Non hanno torto i suoi critici a rimproverare il Sessantotto per essere
stato storicamente, al di là delle intenzioni dei partecipanti,
il volano di una modernizzazione di tipo edonistico-consumistico più
che edonistico-liberatorio. Ma nemmeno hanno torto i suoi esaltatori non
pentiti a dichiarare che il Sessantotto può essere preso come il
paradigma di qualsiasi rivolta contemporanea - anche di quella che sarà,
nel caso ve ne possano essere altre dello stesso tenore e delle stesse
dimensioni (considerando che il Settantasette, sotto questo profilo, non
fa testo in quanto troppo legato alla specifica situazione italiana). E
questo perché quella rivolta rese tangibile per la prima volta la
difficoltà, insieme con la necessità, di porre in connessione
il momento del collettivo e quello dell'individualismo, che in un certo
senso è il contrassegno della modernità: un problema che
resta davanti ai nostri occhi, a distanza di quarant'anni, sostanzialmente
immutato, anzi aggravato dalle ansie comunitarie a sfondo etnico che percorrono
il mondo.
Da quel momento, l'intera sinistra a livello internazionale fu chiamata
a un riesame dei propri presupposti. Ma non seppe rinnovarsi davvero. Si
contano sulle dita di una mano quelli che, fin da subito, provarono ad
avviare una rifondazione teorica e politica: Marcuse, per esempio, con
il suo marxismo critico, un pensatore atipico come Foucault, e anche un
leader come Olof Palme in Svezia, con il tentativo di un superamento del
capitalismo che non significasse collettivismo burocratico e compressione
della società sotto un regime dispotico. Per il resto fiorirono
le mitologie: operaiste, terzomondiste, addirittura stalino-maoiste. Al
punto che qualche decennio più tardi l'implosione del cosiddetto
socialismo reale finirà con il coinvolgere un po' tutti, anche quelli
nati alla politica attraverso una critica radicale di quel modello.
Nel frattempo cosa sarà accaduto, nei frangenti della storia,
ai personaggi della nostra foto? Quella di destra, la ragazzina più
grande, che vita avrà avuto se ne avrà avuto una? Sarà
precipitata nello sconfortante narcisismo diagnosticato da Christopher
Lasch alcuni anni dopo come la sindrome da riflusso del movimento americano,
con il suo caleidoscopio di «differenze» irrigidite in «identità»?
E la ragazzina di sinistra, che inalbera il suo cartello amoroso, sarà
diventata una perfetta mogliettina statunitense emancipata quanto basta
per fare carriera in un ufficio? E il ragazzino dietro di loro? Sarà
rimasto nell'orbita hippie o non sarà diventato, con il tempo, uno
yuppie?
Tutti i dubbi e tutti i sospetti sono leciti conoscendo com'è
andata la storia. Ma intanto resta questa loro foto, quest'istantanea incancellabile.
«Ciò è stato», secondo la formulazione di Roland
Barthes riguardo alla fotografia in generale.
«Però una foto non dovrebbe indirizzare il nostro sguardo
soltanto su quello che fu e non può più ritornare; mi piacerebbe
che il piccolo lasso di tempo racchiuso in un'istantanea fosse considerato
come uno spartiacque del possibile, tra un «prima», che resta
chiuso alle spalle, e un «dopo» che sarebbe potuto essere diverso
da come fu. In questo senso una foto è qualcosa che, nella sua contingenza
e unicità, segna la sospensione del tempo sul futuro. Su un futuro
che in quel momento, nell'attimo irripetibile afferrato dalla foto, era
ancora aperto.
Rino Genovese, "il manifesto", 3 maggio 2008