Alessandro Mantovani, "Diaz. Processo alla Polizia", Edizioni Fandango, 2011, pp. 256, 15 euro
 

Decennale del G8 di Genova, un libro e un film di Fandango per ricordare
"Diaz – Processo alla polizia" di Alessandro Mantovani è una guida attraverso questi dieci anni di processo seguito all'irruzione nella scuola Diaz cercando di recuperare il senso di quella che è stata definita da Amnesty International "la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale". In uscita anche "Diaz. Don’t clean up that blood" di Daniele Vicari
 

Succedeva dieci anni fa, al G8 di Genova. Il 21 luglio 2001, a tarda sera, agenti e dirigenti della Polizia fecero irruzione alla scuola Diaz – luogo in cui molti manifestanti dormivano – massacrarono un numero imprecisato di giovani e ne arrestarono 93, fra i quali anche giornalisti italiani e stranieri.
Carlo Giuliani era morto il giorno prima, ucciso da un proiettile sparato in piazza Alimonda da un poliziotto suo coetaneo. E dopo il pestaggio nella scuola, una cinquantina degli arrestati avrebbe vissuto l’inferno delle torture nella caserma lager di Bolzaneto.
A distanza di dieci anni, non c’è un colpevole per la morte di Carlo Giuliani ma 25 fra gli agenti della Diaz, molti dei quali di grado elevato, sono stati processati, riconosciuti colpevoli di lesioni, falso, calunnie e condannati, in appello, per un totale di oltre 98 anni di reclusione.
Nessuno di loro è in carcere. Molti, anzi, sono stati promossi o assegnati a incarichi di massima responsabilità. I giudici che hanno condotto l’inchiesta e rappresentato l’accusa hanno lavorato in completa solitudine, cercando di scavare in un ambiente ostile, quello della Polizia, che ha difeso a oltranza i propri uomini. È stato un processo lungo e difficile, sul quale pende ancora il ricorso in Cassazione. Un processo passato sotto silenzio, benché gli abusi e le violenze commesse in una notte da incubo dove la legalità è stata sospesa in nome di una guerra preventiva a “terroristi” inesistenti, siano stati davvero clamorosi.
A colmare l’assenza di cronache giudiziarie adeguate alla gravità dei reati commessi e, soprattutto, alla caratura degli imputati, arriva un libro “Diaz – Processo alla polizia“ (Fandango edizioni) che ci guida attraverso questi dieci anni di processo cercando di recuperare il senso di quella che è stata definita da Amnesty International «la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale». L’ha scritto Alessandro Mantovani, cronista giudiziario di Liberazione e de Il Messaggero, oggi al Corriere di Bologna.
La storia non si scrive nei tribunali, come recita l‘incipit del libro, ma è innegabile che dagli atti processuali, meticolosamente spulciati da Mantovani, possano emergere verità sconcertanti. Per esempio la relazione redatta a caldo dall’ispettore ministeriale incaricato di accertare i fatti della Diaz, il questore Pippo Micalizio, poliziotto di lungo corso, ben conosciuto e apprezzato a Milano, dove era stato capo della Squadra mobile.
Pur prendendo per buone le spiegazioni delle forze dell’ordine – che si rivelarono poi false e calunniose a cominciare dalle famose molotov «trovate» alla Diaz e in realtà messe dai poliziotti medesimi – il questore capì subito che le cose non erano andate così come venivano raccontate e chiese l’apertura di procedimenti disciplinari a carico di sei alti funzionari. Micalizio segnalò al capo della polizia l’opportunità di una valutazione su Arnaldo La Barbera (all’epoca prefetto a Genova e quindi suo superiore) e propose di allontanare il questore Francesco Colucci dal capoluogo ligure. Nei confronti di Vincenzo Canterini, comandante del reparto romano e del Settimo nucleo, ipotizzò addirittura la sanzione più grave: la destituzione dalla polizia.
La relazione di Micalizio non fu presa minimamente in considerazione, al punto che, invece di essere destituito, Canterini fu promosso questore. Nessun poliziotto, del resto, fu sospeso dal servizio per i fatti del G8 di Genova.
Solo qualche testa rotolò, o meglio venne dirottata verso altri lidi. Senza danni alle rispettive carriere: La Barbera venne nominato numero due del Cesis, l’organismo di coordinamento dei servizi segreti (morirà nel settembre 2002). Il questore Colucci divenne prefetto. Ma l’elenco è lunghissimo, tanto da occupare quasi sette pagine alla fine del libro. Delle 42 carriere prese in esame, solo quella di Ansoino Andreassi, prefetto e vicecapo vicario della polizia con un incarico di supervisione sulla gestione dell’ordine pubblico, promosso al Sisde come vice del generale Mario Mori, è per così dire in contro tendenza. Andreassi, infatti, non è stato autore di reati ma ne è stato bersaglio: alla vigilia del G8, una denuncia anonima lo screditava come simpatizzante dell’estrema sinistra. Al processo, Andreassi si è rivelato il principale teste dell’accusa.
Centosettantadue udienze in Tribunale e diciotto in Corte d’Appello, sessantamila pagine di atti trecento testimoni, migliaia di fotogrammi, hanno ricostruito ciò che è successo prima, durante e dopo quel sabato notte del 21 luglio 2001. Soprattutto le bugie smascherate durante il processo, a cominciare dall’accusa, associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, formulata dalla polizia per i 93 arrestati e cassata dai giudici che, nei giorni seguenti li rimisero in libertà. Clamorosa la messa in scena dell’accoltellamento dell’agente Numera. Per chiarire la dinamica dell’episodio c’è voluto «un processo nel processo», come l’hanno definito i Pm. Intanto l’agente non si era accorto di essere stato accoltellato, se ne avvide solo in un secondo momento, tornando nella stanza dell’«aggressione» dove trovò il coltello per terra. Poi non ci fu nessun testimone né dell’aggressione né del ritrovamento dell’arma. Ma a mettere in dubbio sul piano tecnico la testimonianza di Nucera, furono i carabinieri del Ris, i quali conclusero che i tagli riportati su corpetto e giubbotto dell’agente non erano compatibili con le modalità dell’aggressione.
Fra i 25 condannati c’è anche l’allora capo della Polizia Giovanni De Gennaro. Per lui il minimo della pena (un anno e quattro mesi) «per aver istigato l’ex questore di Genova Francesco Colucci alla falsa testimonianza nel processo per l’irruzione alla Diaz del G8 nel 2001».
Mentre i 25 condannati confidano nel giudizio in Cassazione dove, come scrive Mantovani, «dopo il ribaltamento fra il primo e secondo grado può succedere di tutto», nel decennale dei fatti di Genova si moltiplicano le iniziative per ricordare e informare su quanto è avvenuto. Oltre al libro di Mantovani è in uscita anche un film: Diaz. Don’t clean up that blood, realizzato da Daniele Vicari, con Elio Germano e Claudio Santamaria. La lavorazione è stata travagliata: Fandango non ha trovato co-finanziatori e ha dovuto produrlo insieme a una società romena e una francese.
 

Valeria Gandus, "il fatto quotidiano", 4 luglio 2011