Decennale del G8 di Genova, un libro e un film di Fandango per ricordare
"Diaz – Processo alla polizia" di Alessandro Mantovani è
una guida attraverso questi dieci anni di processo seguito all'irruzione
nella scuola Diaz cercando di recuperare il senso di quella che è
stata definita da Amnesty International "la più grave sospensione
dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra
mondiale". In uscita anche "Diaz. Don’t clean up that blood" di Daniele
Vicari
Succedeva dieci anni fa, al G8 di Genova. Il 21 luglio 2001, a tarda
sera, agenti e dirigenti della Polizia fecero irruzione alla scuola Diaz
– luogo in cui molti manifestanti dormivano – massacrarono un numero imprecisato
di giovani e ne arrestarono 93, fra i quali anche giornalisti italiani
e stranieri.
Carlo Giuliani era morto il giorno prima, ucciso da un proiettile sparato
in piazza Alimonda da un poliziotto suo coetaneo. E dopo il pestaggio nella
scuola, una cinquantina degli arrestati avrebbe vissuto l’inferno delle
torture nella caserma lager di Bolzaneto.
A distanza di dieci anni, non c’è un colpevole per la morte
di Carlo Giuliani ma 25 fra gli agenti della Diaz, molti dei quali di grado
elevato, sono stati processati, riconosciuti colpevoli di lesioni, falso,
calunnie e condannati, in appello, per un totale di oltre 98 anni di reclusione.
Nessuno di loro è in carcere. Molti, anzi, sono stati promossi
o assegnati a incarichi di massima responsabilità. I giudici che
hanno condotto l’inchiesta e rappresentato l’accusa hanno lavorato in completa
solitudine, cercando di scavare in un ambiente ostile, quello della Polizia,
che ha difeso a oltranza i propri uomini. È stato un processo lungo
e difficile, sul quale pende ancora il ricorso in Cassazione. Un processo
passato sotto silenzio, benché gli abusi e le violenze commesse
in una notte da incubo dove la legalità è stata sospesa in
nome di una guerra preventiva a “terroristi” inesistenti, siano stati davvero
clamorosi.
A colmare l’assenza di cronache giudiziarie adeguate alla gravità
dei reati commessi e, soprattutto, alla caratura degli imputati, arriva
un libro “Diaz – Processo alla polizia“ (Fandango edizioni) che ci guida
attraverso questi dieci anni di processo cercando di recuperare il senso
di quella che è stata definita da Amnesty International «la
più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale
dopo la seconda guerra mondiale». L’ha scritto Alessandro Mantovani,
cronista giudiziario di Liberazione e de Il Messaggero, oggi al Corriere
di Bologna.
La storia non si scrive nei tribunali, come recita l‘incipit del libro,
ma è innegabile che dagli atti processuali, meticolosamente spulciati
da Mantovani, possano emergere verità sconcertanti. Per esempio
la relazione redatta a caldo dall’ispettore ministeriale incaricato di
accertare i fatti della Diaz, il questore Pippo Micalizio, poliziotto di
lungo corso, ben conosciuto e apprezzato a Milano, dove era stato capo
della Squadra mobile.
Pur prendendo per buone le spiegazioni delle forze dell’ordine – che
si rivelarono poi false e calunniose a cominciare dalle famose molotov
«trovate» alla Diaz e in realtà messe dai poliziotti
medesimi – il questore capì subito che le cose non erano andate
così come venivano raccontate e chiese l’apertura di procedimenti
disciplinari a carico di sei alti funzionari. Micalizio segnalò
al capo della polizia l’opportunità di una valutazione su Arnaldo
La Barbera (all’epoca prefetto a Genova e quindi suo superiore) e propose
di allontanare il questore Francesco Colucci dal capoluogo ligure. Nei
confronti di Vincenzo Canterini, comandante del reparto romano e del Settimo
nucleo, ipotizzò addirittura la sanzione più grave: la destituzione
dalla polizia.
La relazione di Micalizio non fu presa minimamente in considerazione,
al punto che, invece di essere destituito, Canterini fu promosso questore.
Nessun poliziotto, del resto, fu sospeso dal servizio per i fatti del G8
di Genova.
Solo qualche testa rotolò, o meglio venne dirottata verso altri
lidi. Senza danni alle rispettive carriere: La Barbera venne nominato numero
due del Cesis, l’organismo di coordinamento dei servizi segreti (morirà
nel settembre 2002). Il questore Colucci divenne prefetto. Ma l’elenco
è lunghissimo, tanto da occupare quasi sette pagine alla fine del
libro. Delle 42 carriere prese in esame, solo quella di Ansoino Andreassi,
prefetto e vicecapo vicario della polizia con un incarico di supervisione
sulla gestione dell’ordine pubblico, promosso al Sisde come vice del generale
Mario Mori, è per così dire in contro tendenza. Andreassi,
infatti, non è stato autore di reati ma ne è stato bersaglio:
alla vigilia del G8, una denuncia anonima lo screditava come simpatizzante
dell’estrema sinistra. Al processo, Andreassi si è rivelato il principale
teste dell’accusa.
Centosettantadue udienze in Tribunale e diciotto in Corte d’Appello,
sessantamila pagine di atti trecento testimoni, migliaia di fotogrammi,
hanno ricostruito ciò che è successo prima, durante e dopo
quel sabato notte del 21 luglio 2001. Soprattutto le bugie smascherate
durante il processo, a cominciare dall’accusa, associazione a delinquere
finalizzata alla devastazione e al saccheggio, formulata dalla polizia
per i 93 arrestati e cassata dai giudici che, nei giorni seguenti li rimisero
in libertà. Clamorosa la messa in scena dell’accoltellamento dell’agente
Numera. Per chiarire la dinamica dell’episodio c’è voluto «un
processo nel processo», come l’hanno definito i Pm. Intanto l’agente
non si era accorto di essere stato accoltellato, se ne avvide solo in un
secondo momento, tornando nella stanza dell’«aggressione» dove
trovò il coltello per terra. Poi non ci fu nessun testimone né
dell’aggressione né del ritrovamento dell’arma. Ma a mettere in
dubbio sul piano tecnico la testimonianza di Nucera, furono i carabinieri
del Ris, i quali conclusero che i tagli riportati su corpetto e giubbotto
dell’agente non erano compatibili con le modalità dell’aggressione.
Fra i 25 condannati c’è anche l’allora capo della Polizia Giovanni
De Gennaro. Per lui il minimo della pena (un anno e quattro mesi) «per
aver istigato l’ex questore di Genova Francesco Colucci alla falsa testimonianza
nel processo per l’irruzione alla Diaz del G8 nel 2001».
Mentre i 25 condannati confidano nel giudizio in Cassazione dove, come
scrive Mantovani, «dopo il ribaltamento fra il primo e secondo grado
può succedere di tutto», nel decennale dei fatti di Genova
si moltiplicano le iniziative per ricordare e informare su quanto è
avvenuto. Oltre al libro di Mantovani è in uscita anche un film:
Diaz. Don’t clean up that blood, realizzato da Daniele Vicari, con Elio
Germano e Claudio Santamaria. La lavorazione è stata travagliata:
Fandango non ha trovato co-finanziatori e ha dovuto produrlo insieme a
una società romena e una francese.