Franco Ferrarotti, "Il '68 quant'anni dopo", Edup, pp. 143, Euro 12
 

Innovazione svanita nel sogno della rivoluzione

Nel quarantennale della rivolta giovanile, e non solo, che sconvolse il mondo, anche Franco Ferrarotti, un decano degli studi sociali in Italia - fu il primo, tra l'altro, ad ottenere una cattedra in sociologia nel nostro paese nel 1961 - ritorna su tale avvenimento con questo volume. Bisogna dire, innanzi tutto, che il libro non brilla per originalità: del resto lo stesso Ferrarotti afferma esplicitamente di riprendere posizioni già espresse altrove. Per lo studioso italiano, il Sessantotto è stato essenzialmente un movimento giovanile, incapace inoltre di trasformare la realtà perché ha abdicato alla sue potenzialità di innovare e modernizzare le «società opulente».
Il discorso di Ferrarotti si sviluppa a partire da due presupposti che sembrano quasi voler legittimare la sua interpretazione degli eventi. Da un lato, il fatto che lui fosse presente (ha avuto la fortuna di essere presente a New York, Trento, San Francisco, Roma, Parigi, Berlino nel momento in cui gli studenti si ribellavano). Dall'altro che si trovasse ad assumere una posizione quanto meno inconsueta: era un «barone», ma si era schierato «a favore degli scopi innovativi del movimento», dichiarandosi, però, «decisamente contrario ai suoi metodi di attuazione». Insomma, molti docenti lo consideravano un «traditore», mentre gli studenti non si fidavano di lui.
Tutto questo lo porta ad essere critico sia nei confronti del movimento che delle istituzioni. Al primo rimprovera di essere stato «una protesta incapace di farsi progetto, priva di analisi adeguate, vociferante ed impaziente, desiderosa di avere "tutto e subito", convinta di fondare, infantilmente, un mondo nuovo mentre forniva stoltamente pretesti e appoggi a quello vecchio».
Ferrarotti nega anche che si sia trattato di un movimento mondiale, dato che ha coinvolto poco più di un quinto dell'umanità, e per di più quella opulenta. Inoltre, nega ogni continuità tra il Sessantotto e i movimenti che si sono sviluppati negli anni successivi. Infine, Ferrarotti rintraccia una responsabilità delle istituzioni le quali «non hanno saputo dare risposte tempestive, hanno bloccato la situazione invece di avviare a soluzione, razionalmente, i problemi, le domande della società, quelle aspirazioni che premevano, seppure in forma confusa, contro le pareti dell'ufficialità».
Ecco, allora, che una sezione del libretto viene intitolata «I giovani traditi: chiedevano pane e gli hanno dato pietre». Qui, grazie a una raccolta di articoli apparsi tra il 1985 e il 1997 su «il Sole 24 Ore», l'autore intende offrire «gli "spezzoni" di una ricerca longitudinale intorno alle ricadute del '68, dieci, venti, trent'anni dopo», affrontando temi come i naziskin, gli extracomunitari, la violenza giovanile, l'evoluzione della metropoli, i fondamentalismi, la famiglia.
In realtà, in questa serie di articoli non appare sempre chiaro ed evidente il rapporto con il movimento del '68. L'unico punto di contatto è dato dal fatto che l'ottica si incentra sempre sull'universo giovanile.
E allora ben più interessante appare l'ultima sezione del libro, dedicata a una raccolta di scritte apparse sui muri dell'università «La Sapienza» nei giorni dell'occupazione, a cura di M. I. Macioti e M. D'Amato: anche solo scorrendole distrattamente si riesce davvero a farsi un'idea di cosa il '68 sia stato ed abbia significato.

Mauro Trotta, "il manifesto", 26 giugno 2008