E’ da poco uscito “La notte
che Pinelli”, di Adriano Sofri, editore Sellerio. Una basilare regola (di
buon senso, se non di giornalismo) consiglierebbe di evitare a questo punto
una chiosa, del tipo “si tratta di un lavoro in cui viene ricostruita la
morte dell’anarchico Pinelli, precipitato nella notte fra il 15 e il 16
dicembre 69 da una finestra della questura milanese…”: basta il titolo
del libro a renderla ridondante. Quella banale annotazione diventa necessaria,
viste le anticipazioni apparse su molti organi di stampa, dove il libro
viene descritto come un lavoro sul caso Sofri/Calabresi, quando non addirittura
un mea culpa dell’ex leader di Lotta Continua nei confronti del commissario
ucciso il 17 maggio 1972 (omicidio per cui Sofri è stato condannato
come mandante, dopo una controversa vicenda processuale oggetto di dubbi
e polemiche). Diciamolo chiaramente: questo è un libro sul “caso
Pinelli”, non sul “caso Calabresi”.
Nutrivo grande curiosità per questo lavoro. Anche (non solo)
per l’essere stato fra i pochi a cui Licia Pinelli, vedova del ferroviere
anarchico, ha concesso un’intervista (ne “La piuma e la montagna”, Manifestolibri
2008). Una curiosità che non è rimasta delusa. Il testo è
molto valido come ricostruzione storico-documentale, ma pure accattivante
nella forma narrativa: un monologo in cui Sofri si rivolge ad una ragazza,
ignara dei fatti che si dipanano da Piazza Fontana in poi.
Da questo spunto si sviluppa il racconto. Per la bomba alla banca dell’agricoltura
viene seguita la pista anarchica, privilegiata anche quando gli elementi
che emergono ne dimostrano l’inconsistenza. Poi la morte di Pinelli, uno
fra i tanti anarchici fermati nell’immediatezza. Entrato in Questura la
sera del 12 dicembre ne uscirà morto pochi giorni dopo, dopo un
volo dal quarto piano di quegli uffici, durante una pausa dell’ennesimo
interrogatorio; resterà indicato come uno degli autori della strage,
fino a quando sarà riconosciuto estraneo ai fatti. Il libro di Sofri
affronta pure la sentenza di Gerardo D’Ambrosio, che nel 75 escluderà
le contrastanti ipotesi di suicidio e omicidio, per scegliere una terza
versione: un malore avrebbe sorpreso il ferroviere anarchico, stremato
dopo ore di interrogatorio, mentre prendeva una boccata d’aria alla finestra.
Sofri smonta l’esito della sentenza: riconosce che al momento di quel volo
Calabresi era assente dalla stanza, ma esclude suicidio o malore, pur riconoscendosi
impossibilitato a formulare un’ipotesi definitiva. In seguito, affronta
la famosa campagna di stampa contro Calabresi, indicato da molti come colpevole
della morte di Pinelli, la drammatica fine del Commissario e – come già
accennato – le proprie responsabilità morali.
Riguardo l’atteggiamento dei funzionari della Questura durante il fermo
di Pinelli e dopo la sua morte, Sofri supporta ogni affermazione con documenti
dell’epoca, sottolineando incongruenze e contraddizioni nelle versioni
date sull’accaduto. Sofri si mantiene critico verso Calabresi, ma inquadrandolo
come componente di un contesto in cui le accuse maggiori vanno indirizzate
verso livelli superiori: il Questore di Milano, Marcello Guida, e ancor
più il Commissario capo, Antonino Allegra. Quest’ultimo, va ricordato,
fu l’unico per cui venne accertata una responsabilità penale, seppure
senza conseguenze: D’Ambrosio lo riconobbe colpevole per il fermo illegale
dell’anarchico, ma il reato si era estinto per intervenuta amnistia.
Vorrei tornare ora alle anticipazioni apparse sui media prima dell’uscita
del libro. Lo confesso, in base a quelle nutrivo più d’un dubbio
su “La notte che Pinelli”. Mi è sembrato corretto attendere la lettura
per commentare a mia volta: atteggiamento a quanto pare giudicato balzano
per chi ha pensato di poterlo recensire o commentare “a prescindere”. Ho
già detto che la lettura mi ha confortato, nel merito del volume;
si sarà già capito che mi ha sconfortato riguardo la professionalità
– se non l’onestà morale – di chi ne ha parlato prima dell’uscita.
Sono quindi necessarie alcune precisazioni per chi, interessato al
libro, dopo averne seguito le premature recensioni si è probabilmente
formato impressioni distorte. Ad esempio, va chiarito che il riconoscimento
di una responsabilità morale che Sofri assume su se stesso per l’uccisione
di Calabresi non è la parte caratterizzante del lavoro, ma soprattutto
non è la grande novità venduta da molti giornalisti, essendo
solo la conferma di precedenti e analoghe dichiarazioni dell’autore (seppure,
forse, mai espresse con l’intensità usata in questa occasione).
Ma il tema della responsabilità morale sollevato da Sofri rende
possibile una riflessione proprio sul caso Pinelli. Se pare condivisibile,
nel ricostruire la dinamica del fatto, escludere l’ipotesi del suicidio
e non credibile la teoria del malore avallata nella sentenza D’Ambrosio,
e se pare dimostrata l’assenza del commissario dalla stanza dell’interrogatorio
al momento della caduta, resta mai affrontato il comportamento tenuto dalla
Questura milanese.
Anni fa Montanelli, ed altri lo seguirono sulla stessa linea, invitò
Sofri a fare ammenda di ciò che a suo tempo scrisse di Calabresi,
indipendentemente da sue responsabilità materiali nell’omicidio
del Commissario, perlomeno come atto di correttezza nei confronti della
vedova. In quel frangente pensai che esisteva un’altra donna in Italia,
alla quale non sono state fatte scuse e per la quale nessuno s’è
mai scomodato affinchè le arrivasse un’autocritica da parte di chicchessia.
La responsabilità morale è un fardello che in molti hanno
chiesto a Sofri di assumere su di sé. Poco conta, per quei commentatori,
che Sofri l’abbia già fatto, non solo a partire da questo libro;
quel che sembra importante è che quel fardello venga ricordato,
andando a cancellarne altri di cui nessuno ha mai chiesto conto.
La questione morale appare dunque, a ormai tanti anni dai fatti, rilevante
quanto se non più di quella materiale o penale. Tentare oggi un’inchiesta
alternativa sulla morte di Pinelli è molto difficile; il tempo passato
si aggiunge ad elementi già dubbi o vaghi, rendendo tutto ancora
più scivoloso. Ma il caso Pinelli non lo si può cristallizzare
nell’istante della precipitazione. Comincia con un fermo di polizia illegale
e termina con una campagna diffamatoria verso la vittima, di cui si volle
sostenere il suicidio e il coinvolgimento nella strage di piazza Fontana
(suicidio e coinvolgimento entrambi esclusi ad ogni livello, anche processuale).
Non vorrei essere frainteso, dunque preciso pure il superfluo: la campagna
a suo tempo condotta contro Luigi Calabresi fu assolutamente sbagliata,
nei toni e nei contenuti. Finì col cementare l’opinione pubblica
in una contrapposizione dove sola cosa su cui interrogarsi era accertare
se il commissario fosse o meno l’unico responsabile della morte di Pinelli,
o se fosse stato o meno presente nell’istante della precipitazione. Si
personalizzò una campagna di stampa che trascese nei modi e nei
tragici effetti, perdendo di vista la complessità della situazione
e i reali obbiettivi di verità cui si doveva aspirare.
Oggi assistiamo ad un risvolto negativo opposto: si è uniformata
la memoria di quegli anni, secondo una logica che preferisce infierire
su chi è già stato sconfitto dalla storia. Vittime delle
forze dell'ordine, dei neofascisti e della strategia della tensione sono
state rimosse, mentre lo Stato, per esorcizzare le proprie responsabilità,
si è semplicemente autoassolto.
Su tutti quelli che collaborarono al fermo di Pinelli grava una responsabilità,
morale se non penale. Laddove non si può parlare di colpe dirette
si può parlare di acquiescenza di tutti quelli che parteciparono
a diverso titolo al fermo e alle menzogne successive, nessuno escluso.
Tutto questo perlomeno nella costruzione della falsa versione dell’anarchico
“suicida in quanto gravemente indiziato”, e senza voler ricondurre il fatto
ad una sorta di guerra “Pinelli contro Calabresi”, semplificazione che
ha già causato abbastanza lutti e dolori. Per questo sarebbe necessario
che le responsabilità morali venissero esplorate (oggi, quando in
teoria lo si potrebbe fare con più serenità) a tutto campo,
senza accontentarsi della superficiale soddisfazione di chi del libro di
Sofri ha voluto leggere solo poche righe. Per questo sarebbe necessario
che altri pensassero a sgravare la propria coscienza. Magari cominciando
da chi era presente, o almeno sa cosa sia successo, al quarto piano della
Questura di Milano, la notte fra il 15 e il 16 dicembre 1969. E, più
in generale, per l’orrore di Piazza Fontana dovrebbero chiedere scusa –
come scrisse Norberto Bobbio a Sofri in una lettera del 98, riportata nel
libro – “non coloro che lo denunciarono e non furono ascoltati, ma i promotori,
gli autori materiali rimasti sinora impuniti, e tutti coloro che hanno
impedito sino ad oggi di conoscere la verità”.