«C'era la volontà di sap e r e , m a nessuno ci raccontava.
Abbiamo aspettato q u a s i trent'anni per conoscere. E ora che sappiamo,
possiamo scriverne». Con semplicità Silvia Ballestra racconta
la sua "svolta". Un romanzo sugli anni Settanta e la deriva successiva,
nel quale quel decennio non è solo un pretesto, un'occasione laterale
per una storia ben congegnata, un semplice sfondoo- come s'usa dire oggi-
una location suggestiva. Ne "I giorni della Rotonda" (Rizzoli, pagg. 374,
euro 18,50), gli anni Settanta fungono da architrave e protagonista, con
un prezioso bagaglio di vincoli ideali e conquiste civili, la magnifica
saldatura tra i laconici pescatori di San Benedetto del Tronto e i facondi
militanti di Lotta Continua, perfino le ingenuità di quei primi
lottatori, gli eccessi dettati da esuberanza giovanile, il "vatterizzo"
e il "rattattù", la voglia di menar le mani e la sfrontatezza, ma
anche la repressione incoraggiata da una politica miope, l'indole persecutoria
delle cosiddette autorità, fino al vortice oscuro delle pistole
in grado di ingoiare tutto: «Il bene e l'assurdo male, vite, anni,
giovinezze, lavoro, speranze, idee, generazioni a venire». A San
Benedetto il terrorismo ebbe il volto spietato degli assassini di Roberto
Peci, un tecnico-antennista "buono come il pane". Lo uccisero per punire
il fratello Patrizio, accusato di tradimento. Dopo - racconta Ballestra,
che nella città marchigiana è cresciuta - niente fu come
prima. «Solo macerie. Buio e silenzio. Lutto e dolore. Senso di colpa
e rancori, sospetti mai provati». La ribellione e il sogno che si
trasformano in incubo: la storia dei Settanta, in periferia come altrove.
Narrata da chi allora era una bambina. Non basta un romanzo per fare una
tendenza, ma il lavoro di Ballestra (classe 1969) contribuisce a rompere
un silenzio che nella narrativa italiana con poche eccezioni per un ventennio
è stato blindato, solo negli ultimi tempi ha mostrato qualche crepa,
interrotto da prove di racconto talvolta ancora timidee impacciate, comunque
tentativi di misurarsi col "grande rimosso" della storia nazionale. Il
decennio dei Settanta - rileva Demetrio Paolin in Una tragedia negata.
Il racconto degli anni di piombo nella narrativa italiana (Il Maestrale)
- comincia ad affacciarsi in libreria tra il 2003 e il 2004: dopo Marco
Baliani ed Erri De Luca, se ne occuparono anche Antonella Tavassi La Greca
(classe 1951) in La guerra di Nora, Giuseppe Culicchia (1965) ne Il paese
delle meraviglie, Gian Mario Villalta (1959) in Tuo figlio, Luca Doninelli
(1956) in Tornavamo dal mare, poco più tardi Girolamo De Michele
e Attilio Veraldi. A questi titoli - un po' troppo severamente accusati
da Paolin di annacquare la tragedia, anestetizzando gli scenari tragici
in interni borghesi- si potrebbero aggiungere La Banda Bellini di Marco
Philopat (1962), le storie generazionali narrate da Bruno Arpaia (1957)
in Il passato davanti a noi, il lavoro su Napoli di Angelo Petrella (1978)
e il recentissimo Tempo materiale di Giorgio Vasta (1970), che sceglie
di ambientare i "giochi" di ragazzini nel 1978, l' annus horribilis della
storia repubblicana. Può colpire che a scrivere di quel decennio
siano molti scrittori allora assenti o, meglio, appena nati, dunque sostanzialmente
estranei alla temperie politica e culturale, però attratti dal suo
fascino, ipnotizzati dalla possibilità di ribellione e dalla fiducia
nell'esito della rivolta. I più giovani vi si rifugiano «come
l'ultima opportunità di crescita civile, l'occasione mancata della
storia italiana», interviene Oliviero Ponte Di Pino, direttore editoriale
di Garzanti che ha incoraggiato la riflessione in forma narrativa. Li sorregge
una crescente curiosità per un evo ancora misterioso, «sia
per le reticenze dei suoi protagonisti», dice Ballestra, «sia
per le difficoltà della stessa storiografia, che non dispone di
una verità giudiziaria». Curiosità per una stagione
«etichettata indecentemente come plumbea e da dimenticare»,
sostiene Nanni Balestrini, scrittore rappresentativo di quegli anni, «mentre
è proprio dalla sua repressione e annullamento che è cominciato
l'imbarbarimento italiano». Ma c'è qualcosa ancora più
importante, avverte Domenico Starnone: «Per alcuni di questi narratori,
come Ballestra e Vasta, gli anni Settanta rappresentano l'infanzia. Ed
è una prospettiva narrativamente promettente sentire quel tempo
come anni di piombo e contemporaneamente come gli anni in cui si era bambini».
Una generazione più libera, in sostanza, meno coinvolta emotivamente
e politicamente, non più trattenuta da dolore e autocensure. Per
questo - anche sotto il profilo letterario - più adatta a scriverne.
«Non hanno come noi il problema della nostalgia e del rancore, soprattutto
delle parole che non sono e non possono essere quelle di allora»,
dice Starnone, autore di romanzi che riflettono sul periodo come Il salto
con le aste e Prima esecuzione. «Per loro gli anni Settanta sono
materia distante, che li costringe a inventarsi di sana pianta struttura,
lingua e tonalità poetica». Lo scrittore che fa letteratura
- aggiunge Balestrini - «non tramanda memorie ma inventa una storia
che può riferirsi a fatti storici più o meno lontani, però
difficilmente contemporanei, perché hanno bisogno di essere sedimentati,
spenti della loro bruciante attualità che confonderebbe il romanziere,
il quale lavora a freddo, anche quando maneggia una storia che lo appassiona.
Questo spiega perché è possibile solo oggi da parte di una
generazione allora assente farne letteratura». Eppure con Vogliamo
tutto e le poesie della Signorina Richmond Balestrini è stato uno
dei pochi autori che ha rappresentato gli anni Settanta mentre li viveva:
«Ho scritto libri contemporanei, ma usando un sotterfugio: non ho
raccontato la mia esperienza, ma mi sono fatto raccontare quelle di alcuni
protagonisti e ci ho lavorato per inventarne storie di linguaggi che raccontassero
quel tempo». Il linguaggio e le sue trappole: anche ostacoli di natura
lessicale possono spiegare il lungo esilio dei Settanta dalla narrativa
italiana. «Quel decennio per i narratori e per gli storici non ha
più linguaggio corrente», spiega Starnone. «Il lessico
dentro cui presero forma sentimenti, progetti, azioni, reazioni, vita e
morte non ha più corso. Le parole d'epoca sono state demonizzate,
criminalizzate, ridicolizzate, svuotate di senso, cancellate. Non solo:
gran parte di esse aveva una lunga tradizione politica e culturale che
è stata spazzata via. Raccontare davvero dunque significherebbe
muovere dal linguaggio di oggi per restituire senso e forza emotiva al
tessuto verbale di allora: un lavoro improbo, che non è riducibile
allo studio dei documenti d'epoca, a pennellate di colore nei dialoghi
e nella ricostruzione d'ambiente. Ma chi della mia generazione ha la forza
di farlo sul serio? Siamo troppo coinvolti, troppo cauti, troppo risentiti,
troppo nostalgicamente fieri della nostra giovinezza». Così
ci voleva Silvia Ballestra per indagare un "buco nero", un gorgo che ha
interrotto anche il passaggio di saperi tra una generazione e l'altra,
condannando chi non c'era al falso luccichio degli Ottanta. «A noi»,
dice la scrittrice, «rimane il rimpianto di non averli vissuti. Anche
per questo forse ne scriviamo: per recuperare un tempo perduto, che ancora
ci appartiene». Sogni e incubi di quel periodo sono raccontati oggi
da Silvia Ballestra, che contribuisce a rompere il silenzio su una stagione
rimossa anche dalla narrativa.
Simonetta Fiori, "la Repubblica", 23 novembre 2009