Intervista a Daniele Sepe
Il musicista napoletano racconta il suo nuovo affondo sugli anni '70: «Più che il suono mi interessava dare una lettura diversa del movimento» Quasi una rock opera, sguaiata e molto pensata. «Dopo Victor Jara e Matteo Salvatore volevo ricordare chi non stava né con lo stato né con le br»
Un disco tenero e feroce, come uno di quei disegni di Andrea Pazienza
che fanno sorridere e inquietano ancora oggi. Una Radio Alice senza filtro,
fiume carsico di parole, idee, suoni slogan, tra quella storica che trasmetteva
l'irruzione della polizia a Bologna, 1977, e quella di Indymedia che nei
giorni bui del G8 genovese rimandava mille testimonianze perché
almeno una fosse vista o ascoltata. Un modo di buttare fuori tutto, prima
che anche le ultime «parole per dirlo» finiscano nel logorio
che tutto appiattisce su un passato prossimo un milione di volte definito
sempre e solo «anni di piombo». Tutto questo, e molto altro
ancora, nel nuovo disco di Daniele Sepe, con una copertina spietatamente
ironica, e che per molti sarà l'equivalente grafico di un cazzotto
alla bocca dello stomaco: lui e i compagni di suono della Rote Jazz Fraktion
con i cartelli al collo che dicono Suonarne uno per educarne cento (i cd
del manifesto, 10 euro). C'è anche il «falso» del Male,
con il titolo della Stampa che strilla «Clamoroso arresto di Ugo
Tognazzi, capo delle Brigate rosse».
Una simil rock opera sguaiata, eccessiva e molto, molto pensata che
si permette il lusso di citare alla lettera il sempre amato padre baffone
dei musicisti liberi, Frank Zappa, ma anche i Led Zeppelin e i Deep Purple,
Napoli Centrale e Hair, lo stupidario sonoro «disco» e Miles
Davis. Di tutto e di più, perché di tutto e di più
erano quegli anni colorati soppesati oggi solo sul metallo pesante delle
pallottole. Se ne accorge amaramente Piero Zamponi, autonomo, un colpo
alla testa in una manifestazione del '77, un risveglio ben più che
traumatico negli anni 2000 dei cellulari che non sono più i furgoni
della polizia, e la Lega che non è certo più quella dei lavoratori.
Lasciamo la parola a lui, a Daniele Sepe: «Più che il
suono di quegli anni (che poi già più volte ha fatto capolino
nei nostri cd) mi interessava dare una lettura diversa del movimento di
quegli anni. Nei film o negli speciali televisivi che ho visto passa sempre
la visione di chi in quegli anni gestiva il potere, e quindi la repressione.
Dopo aver fatto cd per ricordare Victor Jara o Matteo Salvatore mi sembrava
giusto ricordare chi in quegli anni non stava "né con lo stato né
con le br" ma credeva fermamente che la lotta di classe non è un
"pranzo di gala". Né andare a votare questo o quello.
Alessio Viola segnala, nelle sue note, il senso di «appartenenza»
e di «partecipazione» di quegli anni. Tu sai che Radio padania
libera usa la canzone di Gaber «Libertà è partecipazione»
come sigla?
Mi sembra che gli impegni politici della moglie di Gaber diano la risposta.
Gaber come tanti cantautori di allora aveva posizioni vagamente libertarie,
io mi sentivo rappresentato di più da un Claudio Lolli, Manfredi
o gli Area. Dicevano cose più nette, che certamente non potremmo
ascoltare a un congresso dei Ds o a un raduno della Lega. Penso a La socialdemocrazia
di Lolli per esempio.
Dici nelle note: «Oggi mi manca la possibilità di pensare
alla rivoluzione».
Non è che è solo una questione generazionale, e siamo
noi che non siamo capaci di vedere, penso ad esempio a come sta virando
a sinistra l'America latina, che era qualcosa di ben importante, per noi,
a Marcos in Messico... O anche la Spagna, perché no. Guarda la reazione
dei giovani francesi al progetto di precarizzazione del governo. In Italia
stiamo vivendo da decenni un letargo di cui partiti, sindacati e confindustria
approfittano alla grande. Parlano di crisi, ma non ho visto nessuna scritta
«vendesi» né sugli yacht ormeggiati a Mergellina né
sulle ville di via Posillipo. In crisi stiamo solo noi.
Hai paura di equivoci, sulla «durezza iconografica» della
copertina del disco?
No. Ma quali equivoci, voglio solo ricordare in maniera allegra che
la politica, l'impegno antifascista non si misurano sul costo di una vetrina
infranta di un McDonald (che poi è anche assicurata...). Quando
a Milano dei ragazzini disturbano una manifestazione di Forza Nuova incendiando
una sede di An mi sento meglio. Vuol dire che per qualcuno l'antifascismo
non è una parola vuota. E quando da tutte le forze politiche arriva
solo una netta condanna non mi sento più rappresentato manco da
Rifondazione. Nei '70 io non avrei mai avuto il coraggio, e oggi è
lo stesso, di sparare a nessuno, ma la canea che si alza ogni volta che
una merce o una vetrina viene danneggiata non mi piace. Il potere ha a
disposizione milizie ed eserciti per esercitare violentemente il suo dominio
dentro e fuori i nostri confini: io dovrei pormi il problema della nonviolenza?
In 40 anni di non violenza dei movimenti mi sembra che non abbiamo fatto
un solo passo in avanti.
Mentre usciva il tuo lavoro, usciva anche la sentenza definitiva della
Corte di i Cassazione sulla tragedia di Ustica, con l'assoluzione dei generali
coinvolti. Singolare concomitanza, no?
Non avevo dubbi. Abbiamo già avuto un governo di centro sinistra
e un presidente della commissione stragi ex comunista e non abbiamo avuto
una sola risposta sui grandi misteri d'Italia.
Sempre mentre usciva il tuo lavoro, i media hanno tirato fuori la storia
della dichiarazione dell'anziano poeta comunista Sanguineti (candidato
sindaco a Genova, peraltro), sulla necessità di «tornare all'odio
di classe», come antidoto alle fandonie sul «successo individualistico»
messeci in testa dagli anni '80 a oggi con le televisioni...
Grande Sanguineti. Lo prenderei come paroliere volentieri. Ha ragione.
Un cococo o un cocopro di oggi, una ragazza che sta attaccata al telefono
in un call center senza nessun diritto, che deve preoccuparsi per il suo
lavoro se ha l'influenza e non può andare al lavoro o se rimane
incinta non è diversa dalle nostre nonne che lavoravano ai telai
o nelle risiere cento anni fa. Ma sono isolate e non organizzate, e i sindacati
non le rappresentano.
Negli ultimi anni, un po' di memoria «vera» sugli anni
Settanta è stata fatta, almeno in letteratura: penso ai libri di
Tassinari, di Rastello, di Arpaia, di Piersanti. Pensi che serva un lavoro
«a tutto campo» per ri-portare un po' di verità su quegli
anni non solo di piombo?
Pensa che con Ugo (Tassinari) avevamo un collettivo, o meglio una piccola
squadra, e che ai cortei ci organizzavamo insieme. Ma lui era un leninista
di ferro e io un anarchista convinto. Quindi un sacco di discussioni. Eh,
eh. Penso che un disco, una canzone possa arrivare a più gente di
quanto possa fare un libro. Poi va benissimo approfondire. Dovrebbe uscire
a giorni un libro, Gli autonomi, di cui in anteprima ci sono alcune pagine
nel libretto del cd, gentilmente messe a disposizione dagli autori e l'editore.
In conclusione?
Da che mondo è mondo i grandi cambiamenti non sono stati fatti
con le elezioni o i referendum. Spartaco, la Rivoluzione francese, la Resistenza
antifascista non erano sit-in o girotondi. Nessun padrone ci regalerà
mai niente o rinuncerà alla villa a Montecarlo per farci più
felici. La chiesa cattolica ha un ingerenza sulla vita di tutti, anche
quelli che cattolici non sono, che è andata aumentando progressivamente.
Le divise militari sono più aggressive e nessuno dice niente, ci
hanno pure rimesso quella vergogna che è la parata militare del
2 giugno. Un rumeno che veniva rimpatriato due mesi fa senza tanti complimenti
oggi invece è un libero cittadino d'Europa. Questo a voi sembra
un mondo razionalmente ed equamente organizzato? Che aspettiamo a rialzare
la testa?
Guido Festinese, "il manifesto", 8 febbraio 2007