«Cosa diavolo fai qua?» mi chiede Sergio Bologna, fermo
sulla soglia del mio ufficio di capo del reparto imposte dirette dell’Intendenza
di Finanza.
E’ un uomo magro, alto ed elegante. Per me è quasi un simbolo.
Esponente di un operaismo per metà in galera e per metà in
esilio, lo hanno fatto fuori all’università di Padova, in cui aveva
una cattedra, con un pretesto miserabile (se ricordo bene, una domanda
presentata in ritardo). Vive parte in Italia e parte in Germania. Scrive
per Primo Maggio, rivista che sta nel movimento senza schierarsi, saggi
corposi sulla centralità del trasporto merci. Un’anticipazione delle
sue future tesi sui lavoratori autonomi – all’epoca poco comprensibili,
ma diventate meglio decifrabili ai giorni nostri, quando tanti precari
sono stati classificati come “autonomi”, imprenditori di se stessi volenti
o nolenti.
All’epoca – si era alla soglia della Pantera – io dirigevo una pubblicazione
intitolata Progetto Memoria – Rivista di storia dell’antagonismo sociale.
Non un’imitazione di Primo Maggio, bensì una testata altrettanto
militante che condivideva con PM uno scopo centrale: attingere alla storia
per dimostrare che il movimento aveva precedenti illustri e sue radici.
Assunto indispensabile, a nostro avviso, in una fase in cui il ’77 sembrava
definitivamente tramontato, ciò che restava dei gruppi armati faceva
cose incomprensibili e le lotte di massa, quando risorgevano, parevano
del tutto prive di radici.
Progetto Memoria (poi ribattezzato per un certo tempo La Comune, per
non intralciare una casa editrice omonima di Renato Curcio) ebbe il suo
momento più felice proprio durante la Pantera, con oltre mille copie
vendute essenzialmente nell’università di Bologna. In seguito andò
incontro a un progressivo declino. Ciò che rimase dell’esperienza,
cambiati i linguaggi, fu travasato nella rivista cartacea Carmilla, che
univa analisi politiche a narrativa di genere; infine diventò Carmilla
On Line, con quasi mezzo milione di lettori al mese.
Quando Sergio Bologna apparve nel mio ufficio, che avrei lasciato definitivamente
sette anni più tardi, tutto ciò era ancora al di là
da venire. Poche sere dopo lui partecipava a una cena della gente di Progetto
Memoria e delle aree circostanti. Si trattava dei “sottufficiali” del ’77.
Personaggi secondari (me compreso) portati in primo piano dal fatto che,
dei vecchi leader, non ne restava nessuno. Intenti a traghettare altrove
ciò che restava di un movimento a suo tempo glorioso, ma falcidiato
dalla repressione, dalle defezioni, dalle scelte suicide individuali, dai
rigurgiti dei gruppi armati. Insomma, una tavolata di sfigati, che però
avevano tenuto duro.
Di Primo Maggio avevo conosciuto, un paio d’anni prima, Cesare Bermani.
Tipo singolare, che non si muoveva senza avere a tracolla un enorme registratore
a bobine, per raccogliere testimonianze di quella “storia orale” di cui
era fra i teorici, sulla scia di Gianni Bosio. Dalla sua metodologia nacquero,
su Primo Maggio, saggi memorabili: uno sulla Volante Rossa, uno sul processo
al partigiano Pometi sospettato di tradimento, e altri ancora. Di Bermani,
che aveva già barba e capelli bianchi, ricordo però soprattutto,
nel Kamo (una specie di centro sociale bolognese), la domanda che pose
a bruciapelo a una compagna spagnola che ci visitava: «Tu come fai
a essere così bella?» Vista la reazione dell’interessata,
usai l’approccio per mio conto parecchie volte.
Ma torniamo a Primo Maggio. Si occupava di storia, ma era storia mirata
alle esigenze del presente. Molti articoli sugli IWW, gli Industrial Workers
of the World, il primo sindacato (americano) ad avere assunto come tema
centrale il lavoro precario. Altri su pagine del movimento operaio cadute
nell’oblio a causa del mainstream storiografico dominante. Interventi numerosi
sull’economia, lontani dalla vulgata marxista e dall’ottica liberale. Parecchie
ricerche di storia orale, tra cui una, fulminante e anche un poco commovente,
sulla storia del Collettivo autonomo milanese della Barona. L’autobiografia
giovanile di Primo Moroni, un grande. Un interesse peculiare per il contesto
statunitense, la cui logica capii solo in seguito.
Invece, per dire i pochi limiti, nessuna attenzione al contesto latinoamericano
(su cui invece si concentrava Progetto Memoria, per particolari esperienze
del sottoscritto e di molti dei suoi redattori). Rare menzioni della questione
palestinese. Ma erano peccati veniali, rispetto alla ricchezza dell’offerta.
Grazie alla conoscenza con Bermani e con Bologna, arrivò da
Milano una proposta che mi emozionò: partecipare a una riunione
redazionale di Primo Maggio! La sede non era lontana da Corso Buenos Aires,
e dunque dalla stazione centrale, in un ambiente che definirei bello. Le
strade milanesi, per chi le sappia leggere, hanno un loro fascino. Specie
quelle vecchie, con case alte abbrunite dallo smog. Primo Maggio si riuniva
in uno stabile quasi di fronte a una chiesa. In un tizio che zoppicava
riconobbi Primo Moroni, una leggenda. Salii con lui.
Alla riunione partecipavano Bermani, Franco Coggiola (poi deceduto,
un vero esperto in culture popolari), Cosimo Schirinzi (un anarchico baffuto
esponente dei Cobas, fondatore della rivista Gatto Selvaggio), l’americanista
Bruno Cartosio (che non sopportava che gli altri, cioè tutti meno
lui, fumassero), naturalmente Primo Moroni (che fumava più di ogni
altro), Bermani, Bologna e personaggi non identificati.
Io avevo un po’ di familiarità solo con Dario, l’altro “giovane”
oltre a me, conosciuto quando era un leader dell’Autonomia padovana. Lo
avevo ascoltato durante un’assemblea di studenti medi a Padova in cui aveva
parlato in puro dialetto. Poi aveva lasciato l’Autonomia e veniva considerato
dagli ex compagni, se non un “traditore”, qualcosa che gli somigliava.
Non gli chiesi le ragioni, mi bastò avere incontrato a Milano qualcuno
un poco “affine”.
Il grado generale di affinità tra i presenti si svelò
ben presto. L’assemblea milanese aveva, per tema unico, il calo di vendite
di Primo Maggio. I “giovani” – io e Dario – eravamo stati convocati solo
per portare fasci di PM nelle librerie delle nostre città. Di Progetto
Memoria e della sua travagliata storia non importava niente a nessuno.
Non ci furono domande, in merito. Le uniche riguardarono quante copie di
Primo Maggio avremmo potuto fare avere alle librerie Feltrinelli più
prossime a noi. I rapporti ulteriori, lasciata Milano, non furono molto
diversi. I compagni della redazione di PM non parevano rendersi conto che
io e Dario, per quanto miserevoli, rappresentavamo schegge di ciò
che restava del movimento. Si preoccuparono solo di caricarci di copie,
come coolies cinesi.
Feci diligentemente il mio lavoro, ma di lì a poco Primo Maggio
morì. Fu un piccolo grande dramma. Si era in anni di restaurazione
pesante. Le Brigate Rosse, dopo avere chiamato l’antagonismo sociale a
un livello di scontro superiore alle sue forze, avevano pronunciato vuoi
una loro “ritirata strategica”, vuoi una dichiarazione di fine della loro
storia, per bocca del “nucleo storico”. Gli altri gruppi armati avevano
partorito una quantità abnorme di pentiti e dissociati. Il movimento,
benché liberato da quei pesi, era ridotto ai minimi termini, e produceva
scarsa prassi e rare idee. Che cosa ci restava, se non Primo Maggio?
Compresi solo allora, in qualche misura, il perché della sostanziale
chiusura della rivista, che inizialmente – lo ammetto – mi aveva indignato.
Un nucleo di compagni di provata fede, dal passato spesso lunghissimo,
dal largo affiatamento, aveva deciso di partecipare al movimento prendendone,
nel contempo, le distanze. Non voleva a giusto titolo trovarsi rinserrato
in una congerie di polemiche quotidiane, di brevi avanzate e di lunghi
arretramenti, di sussulti e di rilanci fallimentari. Poteva somigliare
a un Olimpo inaccessibile, ma dell’Olimpo coltivava una caratteristica:
la stabilità. Immobile come un faro, cercava di ignorare le onde
che lo attorniavano. Emanava luce senza preoccuparsi dei marosi circostanti.
Operazione saggia, per chi voglia far transitare una struttura, un laboratorio
di analisi e di lucidità, tra epoche diverse.
Il guaio è che le costruzioni troppo rigide, quando crollano,
lo fanno di colpo, e lasciano macerie che l’oceano degli eventi si incarica
di logorare e di disperdere. Così successe per Primo Maggio. Chiuse
le pubblicazioni, lasciò poche scie: testimonianze culturali, impegni
quasi eroici di lavoro, riproposizioni della storia – orale, musicale,
sociale ecc. – di un proletariato tramontato per sempre, in quelle forme.
Se i compagni di Primo Maggio avessero saputo interrogare meglio i
loro più giovani interlocutori – invece di impiegarli come fattorini
– forse avrebbero capito meglio quanto i tempi stavano cambiando, e in
che modo. E magari aiutare la poca resistenza che rimaneva.
Preferirono restare torre d’avorio, e lasciare a chi fosse venuto dopo
– se mai fosse venuto qualcuno - un tesoro di materiali preziosi. Però
sepolto sotto gli strati delle mutazioni, innumerevoli, della composizione
di classe e della cultura conseguente.
Sta di fatto che una ripresa dell’antagonismo (prima o poi ci sarà,
è nella logica degli eventi) avrà bisogno di qualcosa di
equivalente a Primo Maggio, nella metodologia. Un raccordo con le ribellioni
pregresse, la congiunzione con il filo perduto di un “sovversivismo” che
va dal tardo Risorgimento ai giorni nostri. Il movimento no-global è
entrato in agonia, da Genova 2001, non solo per la repressione selvaggia
che lo ha colpito, ma anche per il mancato raccordo con filoni tellurici
emersi in superficie, in forma a volte sporadica, altre volte continuativa,
da almeno due secoli a questa parte. Non c’è interrogativo che non
abbia avuto, a suo tempo, adeguata risposta. Ignorarlo significa porsi
in eterno gli stessi quesiti.
Mancano al momento nuove leve di intellettuali capaci di raccogliere
l’eredità di Primo Maggio. La Restaurazione li ha espulsi, ne ha
disperso la voce. Altre ne sorgeranno, e avranno la fortuna, se si attarderanno
a scrutare il passato recente, di scoprire una rivista che, praticamente,
aveva già detto tutto.
Le chiederanno: “Come fai a essere così bella?”
di Valerio Evangelisti, "Alias", supplemento de "il manifesto", 1 maggio 2010