La prosa di Adriano Sofri è
involuta, barocca, spesso noiosa. Ma non è per questo, credo, che
un libro come La notte che Pinelli, malgrado la notorietà dell’autore,
ha trovato scarsa eco sulla stampa. Il fatto è che va in totale
controtendenza rispetto a una insistita campagna che, dall’uscita del memoriale
di Mario Calabresi Spingendo la notte più in là, a una puntata
di Ballarò in cui lo stesso enunciava le proprie verità senza
contraddittori, fino all’incontro al Quirinale tra le vedove Pinelli e
Calabresi voluto da un Napolitano alla perenne ricerca di pacificazioni
improponibili, si è fatta strada ed è affermata con granitica
supponenza (per esempio da Marco Travaglio, che alcuni scambiano per un
duro oppositore del sistema) l’ipotesi per cui Giuseppe Pinelli sarebbe
morto accidentalmente o per suicidio, e che comunque il commissario Luigi
Calabresi non avrebbe avuto alcuna parte nella tragedia. Il libro di Adriano
Sofri, pur fingendo di astenersi dal giungere a conclusioni certe, dimostra
l’esatto contrario, con abbondanza (anzi, sovrabbondanza) di prove documentali.
Sofri simula di rivolgersi a un’ipotetica ragazza dei giorni nostri
che della vicenda - che vide un ferroviere anarchico, il 15 dicembre 1969,
cadere dalla finestra di un ufficio della Questura di Milano, dove era
trattenuto da tre giorni perché ingiustamente accusato di essere
tra i colpevoli della strage di Piazza Fontana - non sappia nulla. L’espediente
retorico è molto mediocre, e spesso l’autore se ne dimentica (con
lui il lettore, è ovvio). Sta di fatto che, attraverso un vaglio
scrupoloso e persino pedissequo (ma a fin di bene) delle dichiarazioni
dei questurini, delle loro contraddizioni sugli orari, delle possibili
e impossibili dinamiche nella stanzetta, delle testimonianze, si perviene
ad alcune conclusioni piuttosto certe: 1) Pinelli fornì dall’inizio
alibi inoppugnabili; 2) non poté cadere accidentalmente; 3) non
aveva alcun motivo per suicidarsi, e gli sarebbe stato materialmente difficile
farlo.
Il resto sarebbe farsa se non fosse tragedia. Le deposizioni assurde,
e talora ridicole, dei poliziotti (che, per dirne una, caduto il prigioniero
si guardano dallo scendere subito in cortile per sapere se è ancora
vivo); le insistenze del questore Guida e del commissario Calabresi nel
sostenere per giorni e mesi la sua colpevolezza; la grottesca faccenda
delle scarpe, satireggiata da Dario Fo, per cui a un questurino ne sarebbe
rimasta in mano una, mentre il morto le ha tutte e due; e così via.
Di fatto, Sofri riprende i capi d’accusa formulati a suo tempo dal libro
collettivo La strage di Stato e da Camilla Cederna (Una finestra sulla
strage), però li poggia su una massa impressionante di dati di fatto,
che nessuno riuscirebbe a smentire.
Due personaggi escono molto male da queste pagine: il giudice Gerardo
D’Ambrosio, che chiuse il caso Pinelli invocando un bizzarro “malore attivo”,
qualsiasi cosa ciò voglia dire, e il commissario Luigi Calabresi.
Secondo il figlio Mario, oggi direttore de La Stampa, questi e Pinelli
erano buoni amici e si scambiavano regalini a Natale. Sarà. Ma fin
dopo le bombe dell’estate 1969 (Fiera di Milano, Altare della Patria a
Roma) e prima di Piazza Fontana, Pinelli raccontava a chi gli era vicino
di sentirsi “perseguitato” da Calabresi e di averne subito minacce (una
teste fasulla degli attentati alla Fiera di Milano, Rosemma Zublena, confessò
in aula di avere incolpato gli anarchici per le pressioni di Calabresi).
Del resto, è ben strano il comportamento di un “amico” che ti sequestra
in Questura per tre giorni, oltre i termini di legge, e dopo la tua morte
ti addossa nelle conferenze stampa crimini inesistenti.
Sofri avrà forse avuto i suoi motivi, per scrivere un libro
simile: magari contrastare un poco il successo di Mario Calabresi, un tempo
suo collega su Repubblica, che aggravava oggettivamente la posizione di
chi aveva condotto una campagna contro il commissario, fino a essere incolpato
di averne ordinato l’assassinio. Ciò non toglie che Sofri, nello
scrivere un testo letterariamente nullo, ma validissimo sul piano della
controinformazione, abbia compiuto un atto meritorio. D’ora in avanti sarà
un testo di riferimento, a fronte dei molteplici revisionismi sulla morte
in Questura di un uomo buono e generoso, appartenente, quale anarchico,
a un universo di valori che i suoi aguzzini non potevano nemmeno intuire.
Un’ultima annotazione. Il giudice D’Ambrosio, come ho detto, esce da
queste pagine fatto a pezzi. Eppure si tratta dell’idolo di certa opposizione
legalista e di certa sinistra moderata. Di recente abbiamo visto all’opera
altri di questi “idoli”: Giancarlo Caselli che avalla l’arresto di ventuno
studenti dell’Onda implicati in scaramucce insignificanti avvenute mesi
fa, Guido Salvini che sponsorizza con una presentazione pubblica un libro
assurdo in cui si torna ad addebitare la strage di Piazza Fontana a Pietro
Valpreda, Ilda Boccassini che ottiene condanne gravissime, basate sul solo
reato associativo, contro gli imputati della cosiddetta Operazione Tramonto
(al termine di un procedimento istruttorio gestito inizialmente dallo stesso
Salvini).
Non basta essere magistrati invisi a Berlusconi o avere avuto un ruolo
meritorio in Mani Pulite per avere diritto a una patente di dirittura e
di coerenza. Il test decisivo è la risposta alla domanda: “Come
è morto Giuseppe Pinelli?”
Fu da quell’episodio di ingiustizia palese, e dalla colpevolizzazione
arbitraria di Valpreda, che si aprirono fratture durate per oltre un ventennio.
PS. Il libro di Camilla Cederna Una finestra sulla strage può
essere letto integralmente sul notissimo blog del poeta Sergio Falcone
Nutopia.
Anche La strage di Stato si trova facilmente in rete, ma preferiamo rinviare
all'edizione aggiornata, pubblicata dalle edizioni Odradrek di Roma.