Emilio Quadrelli, "Andare ai resti. Banditi, rapinatori, guerriglieri nell’Italia degli anni Settanta", Roma, Derive e approdi, 2004, pp. 315, euro 17.50

 Il testo è prevalentemente costruito su interviste raccolte tra i protagonisti della storia narrata e si colloca in un ambito disciplinare che sta sui confini di vari saperi e di varie metodologie che l’autore padroneggia e mescola, per produrre un quadro storico narrativo ricco di documentazione e di “emozioni” che ricostruiscono l’hegeliano spirito del tempo riportato alla luce. Lo sfondo è quello di una società italiana che conosce, a partire dagli anni del boom fino alla fine del decennio settanta, profonde trasformazioni economiche, sociali, culturali, di mentalità, che sconvolgono tradizioni e costumi, rimescolano la composizione delle classi sociali, pongono sulla scena nuovi protagonisti e soggetti della conflittualità: gli operai comuni, gli immigrati meridionali, i giovani, le giovani donne, gli studenti, i militanti, gli estremisti, i matti, i carcerati e via di seguito. Un caleidoscopio di fermenti, mutazioni repentine che cambiano tutto, relazioni tra delinquenti e tra detenuti  comprese. Un libro che è anche una trascrizione linguistica fedele di un lessico che rappresenta un mondo, un modo di dire, di esprimersi e di vivere: andare ai resti (giocarsi tutto),  andare giù di dura (fare una rapina), batteria (gruppo di rapinatori), erba (ergastolo), ferro (pistola), sgobbo (lavorare), spaginare (dividere) e tanti altri termini raccolti e spiegati in un divertente e utile glossario pubblicato a fine libro.
 Nell’Italia del boom e del conflitto sociale e di classe degli anni ’60 e ‘70 si materializza nelle periferie delle città industriali una sorta di conflitto generazionale che attraversa il mondo della delinquenza e della criminalità. Si formano bande giovanili di rapinatori che rompono con gli stili di vita e le convenzioni dei vecchi fuorilegge. Si caratterizzano per una forte solidarietà interna al gruppo di pari, per una sfida dai toni esagerati alle forze dell’ordine, che sembra racchiudere forme di ribellione esistenziali simili a quelle che muovono tanti loro coetanei che manifestano nei cortei che attraversano in quegli anni le strade e le piazze delle città italiane. Come quei giovani, anche le gang giovanili che evolvono rapidamente in temibili gruppi di rapinatori, sono irriverenti verso le gerarchie consolidate della malavita di quartiere, a modo loro sono antiautoritari e contestatori verso il mondo degli adulti. Inoltre, fatto nuovo per questo mondo, emergono figure di giovani donne bandito, rapinatrici decise, sicure, capaci di farsi rispettare in un ambiente dove prevaleva, spesso con violenza, la mascolinità. Non sono più le donne del capo banda, spesso sono loro stesse a capo della banda.
 Quando queste nuove figure sociali finiscono in carcere, condannate per reati comuni, rovesciano l’universo consolidato di questa istituzione, sovvertono la gerarchia interna che regola la vita dei detenuti e il rapporto con secondini e controllori. Incontrandosi con i giovani contestatori di quegli anni, imprigionati per reati politici, danno vita alla lunga serie di rivolte e di contestazione dell’istituzione carceraria. Nascono, come si diceva, nuovi rapporti di forza, nuove relazioni, anche la vita sociale in carcere è attraversata da una ventata nuova, antigerarchica, anticonformista, antiautoritaria.
 Sul finire degli anni settanta, il quadro muta nuovamente. I mafiosi, la nuova camorra, la nuova criminalità, riportano, con la violenza e lo scontro, l’ordine gerarchico nelle carceri, il rispetto che si deve anche in cella all’uomo d’onore. Le leggi sui pentiti e sui dissociati, l’istituzione delle carceri speciali nei primi anni ottanta, disfanno quel terreno comunitario e solidale che si era determinato tra i detenuti per reati politici e non. Il sospetto, l’illazione, il timore del tradimento, la spaccatura e le varie scissione che conoscono i gruppi della lotta armata all’inizio degli anni ottanta, separano, dividono, frammentano ancora di più e si concludono, a volte, con feroci esecuzioni “sommarie” di detenuti da parte di altri detenuti. Sfuggono a questo destino infernale le carceri femminili, la comunità delle detenute resiste alla diaspora distruttiva, si salva in qualche modo, come guidata da un’atavica “saggezza femminile”(un capitolo è appunto dedicato alla “saggezza femminile” e alla “sorellanza”).
 In quel frangente, non solo cambiavano i rapporti sociali e la vita relazionale negli istituti di pena, mutava anche il tessuto urbano, la realtà del quartiere in cui molti detenuti erano cresciuti, avevano operato e vissuto. La distruzione di un certo tipo di proletariato fordista, la ristrutturazione produttiva, la disoccupazione e il lavoro precario e flessibile, intaccavano in quegli anni l’humus della comunità operaia e giovanile di quartiere, la dissolvevano. Così, quando quei detenuti, generazionalmente cresciuti negli anni sessanta e settanta, uscivano dal carcere, perché avevano terminato la pena, si ritrovavano in un ambiente che era stato il loro ma che ora non riconoscevano più: era cambiata la toponomastica (bar e punti di ritrovo non c’erano più) e l’umanità che vi viveva.
 Il libro si conclude con un capitolo che narra delle nuove mappe carcerarie italiane attraversate dalla multietnicità della popolazione che vi è rinchiusa: abitudini, usanze, modi di trattare il proprio corpo, di concepire la vita e il suo scopo sono talmente nuovi da produrre storie  che appaiono “cronache marziane”.
 

Diego Giachetti