Il testo è prevalentemente costruito su interviste raccolte
tra i protagonisti della storia narrata e si colloca in un ambito disciplinare
che sta sui confini di vari saperi e di varie metodologie che l’autore
padroneggia e mescola, per produrre un quadro storico narrativo ricco di
documentazione e di “emozioni” che ricostruiscono l’hegeliano spirito del
tempo riportato alla luce. Lo sfondo è quello di una società
italiana che conosce, a partire dagli anni del boom fino alla fine del
decennio settanta, profonde trasformazioni economiche, sociali, culturali,
di mentalità, che sconvolgono tradizioni e costumi, rimescolano
la composizione delle classi sociali, pongono sulla scena nuovi protagonisti
e soggetti della conflittualità: gli operai comuni, gli immigrati
meridionali, i giovani, le giovani donne, gli studenti, i militanti, gli
estremisti, i matti, i carcerati e via di seguito. Un caleidoscopio di
fermenti, mutazioni repentine che cambiano tutto, relazioni tra delinquenti
e tra detenuti comprese. Un libro che è anche una trascrizione
linguistica fedele di un lessico che rappresenta un mondo, un modo di dire,
di esprimersi e di vivere: andare ai resti (giocarsi tutto), andare
giù di dura (fare una rapina), batteria (gruppo di rapinatori),
erba (ergastolo), ferro (pistola), sgobbo (lavorare), spaginare (dividere)
e tanti altri termini raccolti e spiegati in un divertente e utile glossario
pubblicato a fine libro.
Nell’Italia del boom e del conflitto sociale e di classe degli
anni ’60 e ‘70 si materializza nelle periferie delle città industriali
una sorta di conflitto generazionale che attraversa il mondo della delinquenza
e della criminalità. Si formano bande giovanili di rapinatori che
rompono con gli stili di vita e le convenzioni dei vecchi fuorilegge. Si
caratterizzano per una forte solidarietà interna al gruppo di pari,
per una sfida dai toni esagerati alle forze dell’ordine, che sembra racchiudere
forme di ribellione esistenziali simili a quelle che muovono tanti loro
coetanei che manifestano nei cortei che attraversano in quegli anni le
strade e le piazze delle città italiane. Come quei giovani, anche
le gang giovanili che evolvono rapidamente in temibili gruppi di rapinatori,
sono irriverenti verso le gerarchie consolidate della malavita di quartiere,
a modo loro sono antiautoritari e contestatori verso il mondo degli adulti.
Inoltre, fatto nuovo per questo mondo, emergono figure di giovani donne
bandito, rapinatrici decise, sicure, capaci di farsi rispettare in un ambiente
dove prevaleva, spesso con violenza, la mascolinità. Non sono più
le donne del capo banda, spesso sono loro stesse a capo della banda.
Quando queste nuove figure sociali finiscono in carcere, condannate
per reati comuni, rovesciano l’universo consolidato di questa istituzione,
sovvertono la gerarchia interna che regola la vita dei detenuti e il rapporto
con secondini e controllori. Incontrandosi con i giovani contestatori di
quegli anni, imprigionati per reati politici, danno vita alla lunga serie
di rivolte e di contestazione dell’istituzione carceraria. Nascono, come
si diceva, nuovi rapporti di forza, nuove relazioni, anche la vita sociale
in carcere è attraversata da una ventata nuova, antigerarchica,
anticonformista, antiautoritaria.
Sul finire degli anni settanta, il quadro muta nuovamente. I
mafiosi, la nuova camorra, la nuova criminalità, riportano, con
la violenza e lo scontro, l’ordine gerarchico nelle carceri, il rispetto
che si deve anche in cella all’uomo d’onore. Le leggi sui pentiti e sui
dissociati, l’istituzione delle carceri speciali nei primi anni ottanta,
disfanno quel terreno comunitario e solidale che si era determinato tra
i detenuti per reati politici e non. Il sospetto, l’illazione, il timore
del tradimento, la spaccatura e le varie scissione che conoscono i gruppi
della lotta armata all’inizio degli anni ottanta, separano, dividono, frammentano
ancora di più e si concludono, a volte, con feroci esecuzioni “sommarie”
di detenuti da parte di altri detenuti. Sfuggono a questo destino infernale
le carceri femminili, la comunità delle detenute resiste alla diaspora
distruttiva, si salva in qualche modo, come guidata da un’atavica “saggezza
femminile”(un capitolo è appunto dedicato alla “saggezza femminile”
e alla “sorellanza”).
In quel frangente, non solo cambiavano i rapporti sociali e la
vita relazionale negli istituti di pena, mutava anche il tessuto urbano,
la realtà del quartiere in cui molti detenuti erano cresciuti, avevano
operato e vissuto. La distruzione di un certo tipo di proletariato fordista,
la ristrutturazione produttiva, la disoccupazione e il lavoro precario
e flessibile, intaccavano in quegli anni l’humus della comunità
operaia e giovanile di quartiere, la dissolvevano. Così, quando
quei detenuti, generazionalmente cresciuti negli anni sessanta e settanta,
uscivano dal carcere, perché avevano terminato la pena, si ritrovavano
in un ambiente che era stato il loro ma che ora non riconoscevano più:
era cambiata la toponomastica (bar e punti di ritrovo non c’erano più)
e l’umanità che vi viveva.
Il libro si conclude con un capitolo che narra delle nuove mappe
carcerarie italiane attraversate dalla multietnicità della popolazione
che vi è rinchiusa: abitudini, usanze, modi di trattare il proprio
corpo, di concepire la vita e il suo scopo sono talmente nuovi da produrre
storie che appaiono “cronache marziane”.