La pubblicazione del primo volume del dizionario biografico degli anarchici
italiani (il secondo volume dovrebbe uscire nel mese di giugno) conclude
un lungo e scrupoloso lavoro di ricerca archivistica e bibliografica che
ha impegnato oltre un centinaio di studiosi, diretti e coordinati da Maurizio
Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele, Pasquale Iuso.
Si tratta della prima sistematica mappatura della “base” del
movimento anarchico: centinaia e centinaia di biografie di semplici militanti
che hanno costituito il tessuto connettivo del movimento, assieme a quelle
di militanti più noti e conosciuti quali Malatesta, Berneri, Bresci,
Caserio. Un lavoro, quindi, che propone spunti e dati nuovi per la storia
dell’anarchismo in Italia e che, contemporaneamente, illumina un aspetto
trascurato della storia politica e sociale del nostro paese.
L’opera è edita dalla Biblioteca Franco Serantini (BFS),
casa editrice pisana che prende nome dal giovane morto in carcere a Pisa
il sette maggio del 1972, dopo essere stato arrestato nel corso di una
manifestazione antifascista cittadina, ed è pubblicata col contributo
del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Varie e molteplici sono state le fonti consultate per scrivere le duemila
biografie che compongono il dizionario: dai fascicoli del Casellario Politico
Centrale, depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, agli
archivi familiari, a quelli giacenti presso le sedi del movimento libertario
italiano, alle testimonianze orali. Le voci biografiche, scelte tra i 26.626
fascicoli riguardanti gli anarchici, conservati nel Casellario Politico
Centrale, coprono un arco temporale che va dalla metà dell’Ottocento
alla fine degli anni Sessanta del Novecento.
La maggior parte dei “biografati” è nata nel periodo che
va dal 1860 al 1899, momento storico nel quale si è misurata
la massima fortuna del movimento, vale a dire l’età coincidente
con il primo cinquantennio della vita unitaria. L’espansione massima del
movimento si ha negli anni 1880-1914. Questo dato è solo uno dei
tanti che è finalmente possibile trattare con cognizione di causa
relativamente ad una storia sociale, umana e politica nota ma poco conosciuta.
Ne segnalo alcuni altri ricavabili grazie alla ricognizione sociografica,
storica e politica del Dizionario. Gli anarchici italiani hanno un tasso
di emigrazione elevatissimo: il 60% dei “biografati” sono emigrati dall’Italia
almeno una volta; i luoghi principali dell’emigrazione sono stati in ordine
Francia, Spagna, Svizzera e Belgio, e poi i paesi dell’America Latina,
dell’Africa, il Nord America. E ancora: le schedature raccolte dalla polizia
sommano un numero impressionante di denunce, ammonizioni, arresti, detenzioni,
domicili coatti e altre misure repressive collezionate soprattutto negli
anni Novanta dell’800. Interessante e vivido il ritratto della matrice
culturale che anima “l’anarchico” di fine Ottocento inizio Novecento: si
tratta di militanti pervasi da una fede antiautoritaria, anticapitalistica
e socialista, quasi tutti formatisi nell’humus culturale del positivismo
e dell’anticlericalismo, rappresentano quell’Italia che non si è
arresa alla vittoria istituzionale della monarchia e che rifiuta ogni compromesso
politico e sociale, crede nel progresso ma ancor più nell’azione
risolutrice prodotta da minoranze agenti. Hanno alle spalle i miti rivoluzionari
prodotti dall’Ottocento: il ’48, il Risorgimento, La Comune di Parigi.
Geograficamente il movimento anarchico ha le sue radici nell’Italia centro-settentrionale.
In primo luogo la Toscana col 31%, seguono l’Emilia Romagna 15,5%, la Lombardia
10%, le Marche 7,3%, il Lazio 5,8%, il Veneto 4,7%, il Piemonte 4,6%,
la Sicilia 4,2%.
I dati raccolti smentiscono anche lo stereotipo secondo il quale
movimento anarchico era socialmente composto di ceti artigianali e piccolo-borghesi.
La stragrande maggioranza dei suoi aderenti proveniva dalle fasce sociali
più basse, il 64,75% erano lavoratori salariati, il 25% autonomi,
l’8% liberi professionisti, il 32% operai dei comparti industriali; debole
invece il radicamento nelle campagne, che conferma il dato relativo al
volto urbano moderno dell’anarchismo italiano a cavallo tra i due secoli.
Le vite biografate si muovono nell’ambito storico dell’Italia
crispina, poi giolittiana, nei moti della settimana rossa che, in piena
prima guerra mondiale sembrano consumare la maggiore occasione rivoluzionaria
che si presenta al movimento. L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915,
provoca un piccolo scossone tra gli anarchici, una parte, minoritaria,
si dichiara a favore dell’intervento, alcuni aderiranno, nel primo dopoguerra,
al fascismo. In quegli anni, dopo un momentaneo protagonismo, culminato
nei moti per il caroviveri dell’estate 1919 e nell’occupazione delle fabbriche
dell’agosto-settembre 1920, inizia la crisi del movimento, acuita dall’affermazione
del fascismo e della dittatura. Tra il ’22 e il ’27 vi è la diaspora
drammatica degli esponenti maggiori e dei militanti più attivi,
gli altri, quelli che non possono espatriare, sono incarcerati, costretti
tacere, sorvegliati strettamente dalla polizia politica; si lacera così
un tessuto di relazioni e contatti provocando una perdita che non sarà
più recuperata. E ancora, sempre le biografie, ci raccontano della
lotta contro il fascismo a cominciare dalla partecipazione anarchica al
movimento degli Arditi del popolo, alla guerra in Spagna a fianco della
repubblica, paese nel quale, durante la guerra civile affluiscono circa
4 mila italiani, di cui 700-800 sono anarchici. Molti muoiono, uccisi non
solo dai fascisti e dai franchisti, ma anche dagli stalinisti (è
il caso di Camillo Berneri) e questo spiega, in parte, perché non
hanno avuto, in seguito, un ruolo determinante nella Resistenza.
Infine, emerge tutta la peculiarità della forma organizzativa
che si sostanzia nel carattere federativo e plurale del movimento, nel
senso che ogni gruppo e ogni federazione, e persino i singoli militanti,
tendono a fare politicamente in proprio, dando vita ad una serie svariatissima
d’iniziative, specialmente di carattere editoriale e culturale. Ne risulta
una struttura decentrata, costituita da innumerevoli punti attivi, basata
su un irriducibile pluralismo fondato sulla pratica dell’ “azione diretta”.
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Anarchici in un dizionario
È uscito, per i tipi della BFS di Pisa, il primo volume del
"Dizionario Biografico degli Anarchici Italiani". Eccone la premessa scritta
dai docenti universitari direttori del progetto.
Negli ultimi trent’anni la storiografia sull’anarchismo ha compiuto
significativi progressi, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo.
Opere di vario genere hanno gettato luce su figure, aspetti, momenti e
problemi della storia libertaria italiana e internazionale, ampliando e
approfondendo il quadro generale della sua conoscenza. Quasi tutti questi
lavori, tuttavia, hanno posto l’attenzione sui personaggi e sugli avvenimenti
più noti ed emblematici, con l’inevitabile conseguenza di delineare
un quadro «elitario» del fenomeno. Mancava cioè, fino
ad oggi, una storia «di base», una storia di quelle migliaia
e migliaia di oscuri militanti che hanno costituito in gran parte il tessuto
connettivo del movimento. Il presente dizionario, ovviamente, non può
colmare tale lacuna; costituisce però, con le sue duemila voci,
uno strumento fondamentale per progredire in tal senso. Gran parte dei
personaggi qui biografati sono, infatti, «portati alla luce»
per la prima volta, permettendo una conoscenza più ricca del fenomeno
anarchico. Si tratta di uno squarcio della storia politica e sociale italiana
del tutto inedito, che allarga notevolmente lo sguardo generale sul movimento
operaio e socialista e anche, naturalmente, sulla storia del sovversivismo
nazionale e internazionale. Complessivamente esso copre un arco temporale
che va dalla metà dell’Ottocento alla fine degli anni Sessanta del
Novecento, con alcuni prolungamenti biografici giunti fino ai nostri giorni.
Tre anni di lavoro
Frutto di un lavoro archivistico e bibliografico che per tre anni ha
impegnato a vari livelli oltre un centinaio di studiosi, esso presenta
alcune caratteristiche delle quali è necessario dar conto. Come
si può vedere dalle fonti utilizzate, la ricerca si è mossa
in varie direzioni, al fine di offrire uno spaccato documentario e interpretativo
il più vario e articolato possibile. Sono stati utilizzati innanzitutto
i documenti relativi al Casellario Politico Centrale depositati presso
l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, che, come è noto, offrono
la possibilità di ricostruire l’attività e i movimenti principali
dei soggetti sottoposti al controllo; questi documenti sono stati integrati
con altre carte di polizia e di prefettura provenienti da fonti diverse.
Naturalmente la ricognizione è avvenuta sulla base della consapevolezza
che tali testimonianze presentano due fondamentali caratteristiche: da
una parte l’aspetto descrittivo e burocratico, dall’altra quello ermeneutico
e storiografico.
In generale, lo storico dell’anarchismo è interessato solo alla
prima caratteristica. Questa, infatti, se gli informatori sono dei veri
professionisti, è costituita dalla somma – a volte anche copiosa
– delle relazioni stese dagli investigatori sull’attività dei soggetti
sottoposti a sorveglianza. Possiamo così avere una mappa abbastanza
dettagliata degli spostamenti e delle relazioni dei militanti, acquisendo
anche la conoscenza del contesto sociale e geografico entro cui tutto ciò
è avvenuto. Va tuttavia tenuto presente che queste stesse fonti
non sempre sono attendibili perché la pura registrazione dei fatti
svoltisi nel tempo e nello spazio dice comunque poco rispetto alla trama
effettiva d’azione e d’intenti che animava veramente i protagonisti. Il
movimento anarchico, infatti, è stato fin dal suo inizio un movimento
antilegalitario e rivoluzionario: senza dubbio, in generale, il più
antilegalitario e il più rivoluzionario dell’intero sovversivismo
italiano. Data questa inequivocabile natura, molte azioni e, ancor più,
molti intenti d’azione, non avendo avuto un seguito concreto e visibile,
sono rimasti ignoti ai contemporanei e ai posteri. Gli stessi anarchici,
poi, quasi mai hanno ricostruito le varie vicende che li hanno visti protagonisti.
Naturalmente queste considerazioni non implicano affatto l’idea che tali
zone d’ombra costituiscano la parte più interessante della storia
dell’anarchismo: la parte più interessante e più importante
della storia dell’anarchismo è quella che già conosciamo.
Detto questo, vanno comunque considerati degni di studio tali anfratti
storici ed è ovvio, a questo punto, che le uniche fonti utili per
far luce su di essi siano fornite dagli archivi della questura, della prefettura
e della magistratura.
40 paesi 5 continenti
Il fatto che tale documentazione governativa sia stata quasi sempre presente in questa ricerca, costituendone per molti aspetti la base principale, è dovuto anche alla ovvia considerazione che l’azione degli anarchici è, per sua natura, un’azione immediatamente politica. Il suo carattere fortemente antilegalitario e rivoluzionario li ha continuamente posti in un rapporto diretto con le autorità costituite, attraverso una lotta che si è svolta – come dire – in prima persona. Ciò spiega perché molti militanti, al fine di sottrarsi ai vari mandati di cattura, hanno dovuto sottoporsi a continui e logoranti spostamenti tra diverse città e regioni e anche, molte volte, a ripetuti espatri in vari Paesi. Rispetto all’intera massa dei biografati qui considerata, sono circa il 60% quelli che sono emigrati dall’Italia almeno per una volta nella propria vita, rimanendovi lontani oltre sei mesi. Gli anarchici biografati emigrano in tutto il mondo, toccando oltre 40 destinazioni diverse, dalle Antille all’Argentina, dalla Bulgaria al Paraguay. Raccogliendo – per semplicità – i paesi di destinazione per continente, risulta che gli anarchici italiani soggiornano prevalentemente in altri paesi europei (70% delle migrazioni registrate), in particolare in Francia, Spagna, Svizzera e Belgio, che sono anche fra i paesi più toccati in assoluto (rispettivamente 700, 260, 230 e 130 soggiorni di almeno 6 mesi ciascuno). Seguono come aree di destinazione l’America latina (13,5%), dove spicca soprattutto l’Argentina (120 soggiorni), e l’America del nord anglofona (9,7%, con 150 soggiorni negli Stati Uniti). L’Africa nel complesso accoglie il 6,2% dei movimenti migratori, diretti in particolare verso i paesi dell’Africa mediterranea (Algeria, Egitto e Tunisia). Asia e Australia, invece, sono mete marginali, con uno 0,3% di soggiorni. Ovviamente questo dato non è tutto politico, perché molte emigrazioni sono avvenute anche per altri motivi, soprattutto per cercare lavoro, ma non si deve dimenticare che spesso la disoccupazione dei militanti – anche nella più tranquilla età giolittiana – non era il semplice portato dell’andamento del mercato del lavoro, ma il risultato di un processo di emarginazione (licenziamenti e sfratti) del quale era in larga misura responsabile il continuo e assillante controllo poliziesco. Il dato in ogni caso conferma ulteriormente l’idea che, in generale, la vita del militante anarchico, migrante irrequieto o continuo soggetto di espulsione da una patria «matrigna», sia stata sempre molto movimentata. Lo testimonia, del resto, la somma davvero impressionante delle denunce, delle ammonizioni, degli arresti, delle detenzioni, dei domicili coatti e di qualsiasi altra forma repressiva collezionata dagli anarchici (ad esempio, solo nel 1894 risultano 560 gli anarchici finiti al domicilio coatto). Da questo punto di vista è incomparabile il tasso di repressione esercitato dalle autorità governative verso i libertari, rispetto alle altre forze politiche di segno antimonarchico e anticapitalistico. Il che, naturalmente ha degli effetti non secondari, nel moltiplicare ed accelerare i movimenti migratori. Tutto ciò emerge in modo inequivocabile da quasi tutte le biografie raccolte nella presente opera. Di qui la difficoltà, per lo studioso, di ricostruire i percorsi dei militanti, sia sotto il profilo puramente materiale, sia sotto quello politico e sociale, considerando anche il dato della forte valenza internazionalistica dell’anarchismo. Si deve infatti osservare che la ripetuta circolazione europea e atlantica dei suoi maggiori esponenti deriva, per l’appunto, da questa caratteristica, che appare del tutto unica rispetto alle altre formazioni del movimento operaio e socialista. Quest’ultimo, tra Otto e Novecento, subisce un processo di nazionalizzazione, mentre l’ala libertaria mantiene inalterata la dimensione transnazionale della sua azione politica.
«Immaginario» poliziesco
Di scarsa – per non dire nulla utilità – è invece il secondo
aspetto accennato sopra, vale a dire quello propriamente storiografico
ed ermeneutico. I rapporti di polizia e le varie relazioni sugli intenti
d’azione degli anarchici, stilati dagli investigatori, rimangono inevitabilmente
«fuori» dalla vera natura delle cose. Tali documenti, che pretendono
di interpretare l’anarchismo, non solo sono quasi sempre «grossolani»
per l’utilizzo costante di categorie definitorie burocratiche e precostituite,
ma anche viziati da un ovvio pregiudizio a favore dell’ordine costituito,
che spinge inevitabilmente l’occhio dell’indagatore a «demonizzare»
ogni mossa dell’avversario, rendendo insignificanti anche quegli elementi
di rilievo che potrebbero verificarsi in un determinato contesto. E ciò
perché tutte le azioni e tutti gli intenti sono posti sullo stesso
piano: il risultato, quasi sempre, è quello di dedicare la medesima
attenzione sia ad un insignificante episodio sia ad un fondamentale avvenimento.
Volendo spingere in avanti tali considerazioni, potremmo dire che il panorama
delle biografie degli anarchici qui presentate costituisce, semmai, una
ricca e avvincente documentazione dell’«immaginario» poliziesco
in relazione alle sue capacità di valutare i pericoli reali (dopo
Bresci l’ossessione dell’attentato ai reali determina situazioni che sfiorano
la comicità dell’assurdo) e di difendere lo Stato dagli assalti
del sovversivismo. Ma ciò apre un capitolo di storia istituzionale
che non costituisce oggetto precipuo di questa trattazione.
Naturalmente è stata tenuta in debito conto la differenza tra
le carte prodotte dalla polizia e dalla magistratura durante l’età
liberale e quelle prodotte dalla polizia e dalla magistratura nel periodo
fascista. La differenza consiste nel fatto che durante la dittatura tutto
diventa illegale ed è perciò facile, per il ricercatore,
cadere nella trappola di «caricare» d’eccessiva importanza
alcuni avvenimenti minori: molti documenti che affollano e appesantiscono
i faldoni archivistici del Casellario Politico Centrale sono il frutto
maniacale di un enfatico rigore poliziesco che giunge a punte parossistiche
(continui e isterici allarmi per questa o quest’altra possibile azione
contro il regime). Quante «reti» di cospiratori, quanti complessi
movimenti sospetti sono risultati, a un più attento esame, il semplice
frutto della casualità o del modesto sforzo di piccolissimi gruppi.
In conclusione, per lo storico dell’anarchismo le fonti di polizia sono
indispensabili per ricostruire la cornice dei fatti, quasi mai, invece,
per interpretare il quadro esistente entro tale cornice.
Analisi di testi e opuscoli
Oltre alle fonti offerte dalle carte di polizia, della prefettura e
della magistratura, la ricerca si è avvalsa anche della stampa periodica
anarchica e socialista. Questa ricognizione è stata poi arricchita
dall’analisi dei testi e degli opuscoli (compresa la memorialistica) pubblicati
dai militanti. In questo caso si è proceduto ad un raffronto continuo
tra la documentazione archivistica e la documentazione bibliografica, onde
individuare il più possibile i punti di consonanza e i punti di
contraddizione. In tal modo si è avuta la possibilità di
«limare» e di rendere più coerenti molte voci biografiche.
Un ulteriore raffronto è avvenuto comparando molte biografie tra
loro, consultando gli archivi familiari, quelli del movimento libertario
e raccogliendo testimonianze orali, con lo scopo di eliminare eventuali
discrepanze e con il fine di individuare, nel contempo, situazioni ed avvenimenti
comuni, considerandoli alla luce dei grandi momenti della storia politica
e sociale italiana. Si è trattato di un lavoro complesso rivelatosi
lungo e minuzioso e che ha dato buoni frutti, anche se, inevitabilmente,
sono rimaste alcune zone d’ombra difficili da rischiarare.
Poiché l’oggetto di indagine è stato il movimento anarchico
italiano, lo scavo storiografico si è modellato sulla base di un
criterio metodologico preciso: porre in primo piano l’azione dei suoi aderenti,
cercando di calarla nel contesto più generale della storia politica
e sociale del tempo. Di qui il tentativo di correlare gli eventi del mondo
libertario con quelli del mondo repubblicano, socialista e operaio-sindacalista.
Si può notare, a questo proposito, come la forte contiguità
fra le varie formazione dell’Estrema si rinsaldi in modo particolare nei
momenti di maggior scontro sociale e politico. Il quadro complessivo che
ne è uscito rivela in modo assai preciso la natura storica del fenomeno
anarchico, che in parte conferma e in parte smentisce alcune idee storiografiche
rimaste pressoché dominanti fino ad oggi.
Nel Casellario Politico Centrale dell’Archivio Centrale dello Stato
di Roma – Casellario istituito alla fine dell’Ottocento e rimasto in vigore
fino alla Seconda Guerra mondiale – risultano conservati complessivamente,
per l’intero periodo, 152.652 fascicoli personali, di cui 26.626 (pari
al 17% circa) sono schedati come anarchici. Secondo una stima governativa
ufficiale stilata nel 1913, gli anarchici italiani militanti risultavano
allora 4.968, mentre i biografati raggiungevano il numero di 9.198. Era
considerato anarchico militante chi aderiva alle organizzazioni ufficiali,
mentre il biografato era giudicato tale indipendentemente dall’appartenenza
o meno a un’associazione. Si tratta di una cifra di tutto riguardo, qualora
si considerino i numeri presenti contemporaneamente nello schieramento
della sinistra italiana. In termini «partitici», cioè
di stretta militanza e appartenenza, l’inferiorità numerica dei
libertari non era così significativa rispetto alle altre formazioni
anticapitalistiche e antimonarchiche: gli anarchici (circa 9.000) risultavano
poco meno di un terzo dei repubblicani (33.000) e circa un quarto dei socialisti
(40.000). Comunque, dei 26.626 anarchici schedati, annoverati per tutto
il periodo in cui è rimasto in vigore il Casellario, il presente
dizionario ne riporta, sotto forma di lemma, circa un decimo. In realtà,
la cifra è decisamente superiore, perché spesso sotto una
voce apparentemente singola vengono segnalati più individui. È
il caso tipico di alcuni gruppi familiari biografati sotto il nome dell’esponente
più significativo, padre, madre, fratello, compagno che fosse, quando
non è parso opportuno dare loro uno spazio autonomo per povertà
di notizie o per scarsità di rilievo del personaggio. Un esempio
per tutti. Di Angelo Galli, morto poco più che ventenne, e i cui
funerali sono entrati nella storia della pittura grazie ad un fortunato
quadro di Carlo Carrà, non si conosce quasi nulla, ma Angelo figura
nella voce dedicata al fratello Alessandro, importante organizzatore sindacale.
A volte, però, non sono i legami familiari a tenere assieme più
individui ma eventi o azioni collettive che in qualche modo ne esauriscono
la parte recitata nella storia dell’anarchismo e che sono stati collegati
nel dizionario ad una figura che finisce per costituire il capofila di
un gruppo più o meno nutrito.
Fugace apparizione
Tenuto conto poi che in numerosi casi i personaggi presenti nel Casellario
Politico Centrale (non per tutti esiste un cenno biografico vero e proprio)
hanno fatto solo una fugace apparizione nel mondo libertario, possiamo
senz’altro dire che il campione considerato è più che rappresentativo
e riflette in modo abbastanza attendibile le caratteristiche generali dell’intero
movimento. La scelta è avvenuta tenendo conto dell’incidenza e dell’importanza
che i soggetti presi in esame hanno avuto nei confronti della più
generale storia anarchica e socialista, aggiuntovi il criterio elementare
dell’autodichiarazione ideologica dei militanti stessi e dell’effettiva
attività da loro svolta. Per la maggior parte si tratta di individui
che sono rimasti politicamente sulla breccia per molti anni, nella quasi
totalità sono uomini, le donne rappresentano solo il 3% circa dei
biografati. Questo dato è comune con il resto delle formazioni politiche
dell’epoca e conferma il fatto che la politica, nel periodo considerato,
è un fenomeno soprattutto «maschile» nel senso che essa
è figlia di una cultura dominante legata ad un mondo dove le donne
sono ancora considerate solo un’appendice dell’umanità. Nel nostro
caso specifico la conferma viene dalle stesse fonti di polizia che considerano
l’attività politica svolta dalla donna quasi sempre subalterna a
quella del marito/compagno tant’è che spesso i suoi dati sono inseriti
nella scheda di quest’ultimo con pochi riferimenti e notazioni. Tuttavia,
le poche biografie di donne che sono state inserite nel presente dizionario
sono l’esempio di un cambiamento culturale e di costumi. Si tratta in alcuni
casi di figure assai significative nel panorama italiano, come Virgilia
D’Andrea, Nella Giacomelli e Leda Rafanelli, che rappresentano anche la
viva testimonianza della presa di coscienza del mondo femminile di allora.
Dalla ricerca sono stati deliberatamente esclusi tutti coloro che sono
diventati anarchici durante e dopo gli anni della contestazione studentesca
perché il loro anarchismo è molto diverso da quello «tradizionale»,
anche se, ovviamente, esistono elementi di forte continuità.
Prima di affrontare questioni specifiche, vogliamo premettere che i
dati raccolti sono stati inseriti in un data base che verrà periodicamente
aggiornato in relazione al progresso delle ricerche storiche tramite il
sito web http://www.dbai.it. Il quadro sintetico dei dati statistici, qui
di seguito riportato, si riferisce appunto a tutte le schede biografiche
giunte in redazione, comprese quelle che per motivi tecnici o per scelte
redazionali non sono state inserite in questa edizione. Queste, comunque,
rappresentano una percentuale minima dell’intero patrimonio della ricerca.
Classi decennali
Osserviamo innanzitutto che il 73% circa dei biografati è nato
nel periodo che va dal 1860 al 1899; scomponendo il dato per classi decennali
d’età, risulta che la percentuale di anarchici biografati nati nel
decennio 1870-1879 è pari al 19,7%, e sale rispettivamente al 20,7%
e al 22,1% nei due decenni successivi. Nell’arco dei vent’anni seguenti
– 1900-1919 – la percentuale si riduce al 14,5%, mentre tra il 1920 e il
1939 si scende all’1,2% e tra il 1940-1959 allo 0,27%. Sono dati molto
significativi perché individuano il periodo storico entro cui vi
è stata la massima fortuna del movimento, vale a dire l’età
coincidente con il primo cinquantennio della vita unitaria del Paese. Durante
il regime fascista e, posteriormente, nel Secondo dopoguerra, l’anarchismo
italiano subisce un calo numerico assai vistoso, fin quasi a segnalare,
di fatto, una sua estinzione. Si dovrà attendere l’ondata del ’68
affinché esso ritorni in auge, tuttavia con forme, sentimenti e
ideologie molto mutati rispetto al passato.
Dunque l’espansione massima del movimento si ha soprattutto negli anni
1880-1914. Dopo la fase della Prima Internazionale, l’anarchismo italiano
scandisce tre momenti fondamentali della sua storia: gli anni Novanta,
che lo vedono particolarmente colpito dalla repressione crispina, suggellata
dalla «crisi di fine secolo» (si aggiunga a questo, naturalmente,
anche la dolorosa scissione con i socialisti avvenuta nel 1892); l’età
giolittiana, in cui si assiste ad una sua parziale metamorfosi sotto la
forma del sindacalismo rivoluzionario; infine il moto della Settimana rossa,
dove si consuma – e si frantuma – la sua maggiore occasione rivoluzionaria
e con la quale, si può dire, si chiude anche l’Ottocento barricadiero.
I militanti che si trovano al centro di queste fasi storiche costituiscono
la parte più ricca, sotto il profilo politico e ideologico, del
movimento. Molti, naturalmente, fanno avanzare la propria vicenda biografica
anche negli anni seguenti; tuttavia è qui che, per gran parte, si
forma e si consolida l’eredità ideale dell’anarchismo: si tratta,
in sostanza, di militanti pervasi da una «fede» antiautoritaria,
anticapitalistica e socialista; donne e uomini, quasi tutti, formatisi
nell’humus culturale del positivismo e dell’anticlericalismo. Essi sono
altresì animati dalla profonda convinzione che sia cosa ovvia, giusta
e indispensabile lottare per l’avvento della rivoluzione liberatrice. Sono
quella parte dell’Italia che non si è arresa alla vittoria istituzionale
della monarchia e che rifiuta radicalmente ogni sorta di compromesso politico
e sociale, crede nel progresso ma, ancora più, nell’azione risolutrice
prodotta da minoranze agenti. Non sono giacobini, ovviamente, però
hanno alle spalle i miti rivoluzionari prodotti dall’Ottocento: il ’48,
il Risorgimento, la Comune di Parigi (molto diverso sarà invece
l’Ottobre del 1917); miti, peraltro, che sono giunti fino ai giorni nostri.
L’entrata dell’Italia in guerra provoca un piccolo scossone nelle file
libertarie perché una parte, peraltro molto minoritaria (anche se
rumorosa), si dichiara a favore dell’intervento. Dal punto di vista numerico,
l’interventismo anarchico italiano è irrilevante. Il fenomeno, però,
è significativo in quanto evidenzia alcuni elementi eterogenei e
contraddittori del carattere culturale dell’anarchismo dovuti all’evidente
insorgenza idealistica e irrazionalistica, nel momento stesso in cui entrano
in crisi molte credenze positivistiche ed evoluzionistiche; non a caso
un certo numero di questi interventisti aderirà in seguito al fascismo.
Nello stesso tempo, però, mette in luce la persistenza di modelli
culturali contigui a quelli del mondo repubblicano, che affondano le proprie
radici nella tradizione risorgimentale delle guerre di liberazione nazionale
e in una ricca vena di tensioni di tipo garibaldino alla Cipriani. A questo
proposito, le biografie riportate risultano assai emblematiche: da una
parte, infatti, esse testimoniano un percorso che, oggi, potrebbe sembrare
del tutto logico e scontato, dall’altra mettono in luce alcune ambivalenze
dell’idea libertaria, la quale può effettivamente prestarsi a interpretazioni
non completamente «canoniche» rispetto ai suoi fini ultimi.
Disgregazione lenta, ma irreversibile
Con il Primo dopoguerra e poi il periodo fascista, la situazione cambia
moltissimo perché, dopo un momentaneo protagonismo culminato nei
moti per il caroviveri dell’estate del 1919 e nell’occupazione delle fabbriche
dell’agosto-settembre 1920, inizia il periodo della disgregazione del movimento;
disgregazione che sarà lenta, ma irreversibile.
La lotta degli anarchici italiani contro il fascismo è stata
fin dall’inizio una lotta radicale e senza esclusione di colpi. Anche in
questo caso le voci biografiche riportate danno un supporto notevole a
tale giudizio: laddove i militanti hanno potuto mettere in atto la propria
autonoma azione, senza che questa fosse condizionata dai tatticismi e dalle
titubanze delle altre forze politiche antifasciste (specialmente in alcune
zone della Toscana, della Liguria, delle Marche e del Lazio), si è
assistito alla notevole capacità di rispondere colpo su colpo alle
azioni squadriste. Segno evidente che esisteva in queste aree un rapporto
osmotico tra anarchici e popolazione locale. Possiamo osservare il fatto,
molto significativo, che sono un centinaio i militanti, qui biografati,
«arruolatisi» nelle formazioni degli Arditi del popolo (l’unico
serio tentativo «militare» di risposta allo squadrismo nero);
formazioni, peraltro, quasi sempre promosse e sostenute dagli anarchici
stessi.
Tra il 1922 e il 1927 vi è la diaspora drammatica degli esponenti
maggiori e dei militanti più attivi; gli altri, quelli che non possono
espatriare, sono messi a tacere o con il carcere o con il confino (per
quest’ultimo aspetto, è possibile costatare che, a fronte del numero
complessivo delle biografie prese in esame, i confinati risultano 228,
pari al 12%). Molti militanti, anzi la stragrande maggioranza, ancor prima
dell’istituzione del Tribunale Speciale, sono sottoposti a lunghi procedimenti
penali che in gran parte si riferiscono alle lotte del Biennio rosso e
all’opposizione armata al fascismo, subendo condanne durissime, come nel
caso dei processi collettivi avvenuti in Toscana e Emilia Romagna. Coloro
che sfuggono alle maglie della giustizia statale e fascista sono sorvegliatissimi
ed impossibilitati ad agire. Si lacera, per i libertari, un tessuto politico-sociale
stratificatosi nel corso dei decenni precedenti, con la perdita secca dell’aggancio
organico con la realtà; una perdita che, in generale, non sarà
più recuperata. È vero che la repressione dittatoriale colpisce
anche le altre forze politiche, tuttavia si può affermare, senza
alcun dubbio, che il movimento anarchico è quello che subisce, più
di qualsiasi altra formazione antifascista, gli effetti devastanti dell’esilio
politico. Sotto il profilo delle vicende strettamente biografiche (personali
e pubbliche), si deve, infatti, sottolineare che molti militanti saranno
bersagliati dalla repressione governativa anche nei Paesi che avevano concesso
loro l’iniziale ospitalità, con il risultato di fiaccare in modo
pesante le energie del movimento, spese soprattutto nell’opera di difesa
politica e giudiziaria. Anche in questo caso, le voci esaminate testimoniano
le drammatiche vicende di tali excursus, quasi sempre del tutto eccezionali
rispetto a quelli offerti dalla maggior parte del fuoriuscitismo italiano.
La mancanza di punti di riferimento internazionali – se escludiamo gli
aiuti della vasta comunità libertaria italo-americana del Nord America,
la Cnt spagnola durante la prima fase della Guerra Civile e la debole Ait
berlinese, sostenuta soprattutto dalle piccole formazioni anarcosindacaliste
svedesi e olandesi – impedisce agli anarchici di costituire robuste reti
di appoggio che non siano quelle prodotte dal consueto volontarismo solidale.
Contributo alla lotta antifascista
A questo punto corre l’obbligo di ricordare l’enorme contributo degli
anarchici italiani alla lotta antifascista combattuta in terra iberica.
Sono quasi 250 – il 13% circa sul totale dei biografati – i militanti che
sono accorsi nel 1936 a difendere la repubblica dall’assalto nazifascista
e, ancor più, ad aiutare i compagni spagnoli nello sforzo titanico
di costruzione di una nuova società: ci riferiamo, naturalmente,
a quella Spagna rivoluzionaria descritta da Orwell nel suo Omaggio alla
Catalogna. Gli anarchici nel complesso delle forze di volontari italiani
che combatterono durante la Guerra civile sono secondi e di poco solo ai
comunisti. Le ricerche storiografiche hanno individuato in poco più
di 4.000 gli italiani accorsi in Spagna, di questi circa un migliaio sono
comunisti mentre le cifre riguardanti gli anarchici parlano di 700/800
volontari. In rapporto alla propria consistenza numerica, lo sforzo esercitato
in Spagna dagli anarchici italiani con la perdita di molte vite si è
rivelato, per alcuni aspetti, esiziale. Ciò spiega perché
gli anarchici non abbiano avuto una parte determinante nella Resistenza:
il movimento, per molti aspetti, era esangue. Tuttavia non sono nemmeno
pochi – poco più di 200, pari al 10,6% delle biografie – coloro
che hanno combattuto, anche con formazioni proprie, contro i nazifascisti.
Venendo ora alla dislocazione geografica del movimento anarchico, che
ratifica in un certo senso gli snodi principali della sua storia collettiva,
anche qui abbiamo una conferma di alcune precedenti acquisizioni storiografiche
perché si nota, senza ombra di dubbio, che la stragrande maggioranza
del «popolo» anarchico si colloca nell’Italia centrosettentrionale.
Spicca, in primo luogo, la Toscana con il 31% dei biografati, seguita dall’Emilia
Romagna con il 15,5%, la Lombardia con il 10%, le Marche con il 7,3%, il
Lazio con il 5,8%, il Veneto con il 4,7%, il Piemonte con il 4,6% e finalmente
la Sicilia con il 4,2%; le altre regioni presentano un numero di militanti
inferiore (considerando il medesimo periodo temporale, si tratta di una
distribuzione che non è molto lontana da quella registrata dal partito
socialista). Questi dati fotografano una situazione stabilitasi fin dall’ultimo
ventennio dell’Ottocento (e protrattasi fino al Secondo dopoguerra), quando
il movimento, dopo un’iniziale espansione nelle regioni meridionali, si
era concentrato nella fascia centrale e centrosettentrionale della penisola.
Il parziale spostamento del movimento dal Sud al Centro-Nord, avvenuto
dopo gli anni Settanta dell’Ottocento, riflette indubbiamente il suo tasso
di radicamento nel tessuto sociale ed economico del Paese, nel senso che
il mutamento va letto considerando il contesto italiano della lotta antagonista
fra capitale e lavoro. Certamente gli anarchici non rappresentano la punta
più avanzata del movimento operaio in termini di stretto sviluppo
industriale (se si considera, cioè, il classico triangolo Lombardia-Piemonte-Liguria).
Però, sotto questo riguardo, non sono neppure legati a una situazione
di arretratezza, come è documentato dalla loro parziale metamorfosi
nel sindacalismo rivoluzionario. Sono molte le voci biografiche dedicate
a personaggi che hanno avuto anche posti di notevole responsabilità
nel movimento sindacale (Camere del Lavoro, Leghe di Resistenza, Federazioni
di categoria). Va ribadita perciò un’acquisizione che deve essere
definitivamente fatta propria dalla storiografia: fino all’avvento del
fascismo, il movimento anarchico è parte organica e attiva del movimento
operaio e, più in generale, di tutto il movimento dei lavoratori.
Lo è non soltanto sotto il profilo dell’azione politica, ma anche
sotto quello della composizione sociale.
Clamorosa smentita
E veniamo, così, ad un altro elemento importante emerso dalla ricerca. I dati che essa offre smentiscono clamorosamente alcuni precedenti stereotipi storiografici relativi all’ambito sociologico. Se rammentiamo, infatti, ciò che è stato asserito quasi sempre sull’argomento – secondo cui il movimento anarchico era composto, per la maggior parte, dai ceti artigianali e piccolo borghesi (di qui la connessa – e sconnessa – idea della sua arretratezza politica, sociale e culturale) – si deve invece costatare che la stragrande maggioranza dei suoi aderenti proveniva dalle fasce sociali più basse. Si tratta, cioè, di un movimento autenticamente popolare, qualora si consideri che esso conta il 64,75% di lavoratori salariati, il 25% di lavoratori autonomi e poco più dell’8% di liberi professionisti. In realtà queste macro aggregazioni ci dicono ancora poco. Molto più significativo il fatto che circa il 32% del campione preso in esame è composto da operai del comparto industriale ed estrattivo, con una considerevole presenza di metallurgici e di minatori; più del 9% da edili, mentre nell’ambito artigianale abbondano calzolai (6%) e falegnami (3,6%). Altrettanto significativa è la scarsa presenza di lavoratori della terra, con solo il 3,5% di braccianti, segno di una quasi totale egemonia socialista nell’area del bracciantato classico, della preponderanza cattolica nell’ambito degli obbligati e di quella repubblicana tra i mezzadri. Nonostante la diffusione del sindacalismo rivoluzionario in alcune aree agricole padane (piacentino, ferrarese, mantovano, parmense, basso modenese ecc.) si può affermare che gli organizzati abbiano più recepito il messaggio dell’azione diretta tout court che non accolto quello di una società libertaria. Il debole radicamento nelle campagne evidenzia il volto urbano dell’anarchismo, la sua geografia dei mestieri cittadini o che comunque gravitano sulla città oppure la sua dislocazione in zone periferiche ma ad alta concentrazione operaia e del tutto interne allo sviluppo capitalistico (come i centri minerari). Sarebbe tuttavia limitativo cercare di individuare un gruppo sociale o specifiche categorie di lavoratori alla base del movimento anarchico italiano. Per fare un esempio relativo alla Toscana, la regione più ricca di umori libertari, l’anarchismo si attesta solidamente tra i cavatori di Carrara, i minatori del Valdarno, i siderurgici di Piombino, i portuali e i lavoratori dei cantieri di Livorno, i ceramisti, i vetrai, i ferrovieri, i muratori e i «pigionali» di Pisa, i muratori di Firenze. In città come Milano, dove era concentrata gran parte dell’attività editoriale nazionale, consistente ad esempio è il gruppo dei tipografi, mentre ad Ancona assume rilievo la presenza di scaricatori di porto. Questi elementi, puntualmente ricavabili dalle biografie, fanno definitivamente giustizia di tutte le affermazioni categoriche volte a trasformare, in un senso o nell’altro, l’universo libertario in una sorta di «idealtipo» ad uso di letture tutte politiche.
Pochi i borghesi e i benestanti
Rispetto all’intera massa che viene qui biografata, sono pochi gli individui
provenienti dai ceti borghesi e benestanti, come pochi, del resto, sono
coloro che hanno raggiunto la laurea (3,4%) o hanno frequentato le scuole
liceali o altre scuole superiori equivalenti (5,3%). La ricerca ha messo
bene in evidenza altresì come gli anarchici pongano un’attenzione
particolare alla formazione culturale propria e dei lavoratori cercando
di colmare autodidatticamente le lacune derivate da un’istruzione che per
la gran parte dei biografati si ferma al ciclo scolastico delle scuole
elementari. Il militante autodidatta è protagonista di molte iniziative
editoriali, che, benché spesso di breve durata a causa della scarsità
dei mezzi o della repressione poliziesca, hanno ricoperto un ruolo rilevante
sia nel campo propriamente giornalistico sia in quello più ampio
della formazione culturale delle avanguardie politiche e sindacali delle
classi subalterne italiane tra Otto e Novecento.
Altri elementi, di più difficile identificazione e con minore
possibilità di comparazione, si possono comunque desumere da una
lettura complessiva dell’opera. Tra questi, il livello di integrazione
degli anarchici nell’ambiente sociale che li circonda traspare dall’analisi
della struttura stessa delle famiglie, nonché dai tramiti e dall’età
di approccio alle idee libertarie. Prendono così forma le «comunità»
proletarie urbane e dei borghi, la cui ossatura è formata dal variegato
associazionismo operaio e laico, di cui gli anarchici sono parte integrante;
«comunità» con una forte carica «antagonista»
e una prassi solidale e ribelle che negli anni ha costituito uno dei tratti
più caratteristici di questa «contro società»
in divenire contrapposta, con i suoi riti laici e modelli comportamentali
etico morali, a quella borghese. E in questo contesto la scelta anarchica
è per i più non una fase di ribellione giovanile ma un’opzione
politica ed esistenziale durevole. Nella presente opera, tuttavia, vengono
prese in considerazione anche figure che hanno legato all’anarchismo solo
una fase della propria vita, o la cui presenza può essere stata
costante ma sempre sottotono, e questo spiega perché molte biografie
siano brevi, per non dire scarne. Abbiamo però voluto inserirle
ugualmente perché, considerate complessivamente, forniscono il senso
di una rivisitazione storiografica che si è mossa deliberatamente
anche verso lo scavo archivistico e bibliografico dell’elemento locale
e particolare al fine di fornire una rappresentazione a «tutto tondo».
Irriducibile federalismo
Proprio quest’ultima considerazione ci introduce all’ultimo aspetto
preso in esame, nel senso che l’analisi della dislocazione geografica ci
rivela pure un carattere «forte» dell’anarchismo: il suo fondamentale
e irriducibile federalismo. Il movimento anarchico italiano, ancor più
di quello francese e di quello spagnolo, è, infatti, costituito
da una base al plurale, nel senso che ogni gruppo e ogni federazione, e
persino singoli militanti, tendono a fare politicamente in proprio, dando
vita ad una serie svariatissima di iniziative, specialmente di carattere
editoriale e culturale (stampa di periodici e numeri unici e pubblicazione,
in proprio, di testi anarchici classici; la diffusione regionale della
produzione cartacea, ripropone la distribuzione geografica del movimento:
è maggiormente presente, ancora una volta, in Toscana, Emilia Romagna,
Marche e Lombardia). Sono queste diversificate realtà che costellano
e formano la sua azione complessiva. La molteplicità dell’azione
anarchica è del tutto consona alla sua diversificazione ideologica,
nel senso che nel movimento esistono e convivono, fin dall’inizio – anche
se a volte in modo rissoso – differenti tendenze ideali e politiche: comunista,
socialista, mutualista, individualista, sindacalista, antimilitarista,
educazionista, pacifista; oltre alla costante divisione fra organizzatori
e antiorganizzatori. Si delinea, insomma, una struttura decentrata, costituita
da innumerevoli punti attivi nei quali è possibile rintracciare
l’esistenza di questo irriducibile pluralismo fondato sulla pratica dell’«azione
diretta» e sulla preminenza assegnata all’opera di «apostolato»
espressa con la propaganda orale e scritta.
Emerge, in tal modo, l’antropologia dell’anarchico: ribelle e orgoglioso
del proprio sapere e della propria scelta politica. Un elemento quest’ultimo
che, senza nulla togliere ai militanti di base di altri partiti e organizzazioni,
rende sempre più significativo un approccio volto a cogliere la
specificità dei singoli anarchici attraverso le loro biografie nel
tentativo di intessere le storie individuali nella più vasta trama
della vicenda collettiva di ampi settori della società italiana.
Maurizio Antonioli, Giampietro Berti, Santi Fedele e Pasquale Iuso, "Rivista anarchica", N. 296, febbraio 2004