Prefazione di Emilio Quadrelli
Tra la sera dell'otto e del nove maggio 1976, nel carcere speciale di
Stammhein, moriva Ulrike Meinhof. Una morte giunta attraverso la messa
in scena di un suicidio tanto tragico quanto grottesco, e che ai più
parve l'inizio di quella «soluzione finale» annunciata e auspicata
da tempo da parte degli organi dirigenti della Repubblica federale tedesca
nei confronti dei militanti della Rote Armee Fraktion.
La morte «eccezionale» di Ulrike, nella migliore tradizione
«decisionista», si trasformò in ordinario elemento normativo
finalizzato a liquidare una volta per sempre la questione della prigionia
politica all'interno della Germania Occidentale. Poco più di un
anno dopo, il 18 ottobre 1977, morivano per «suicidio» Andreas
Baaader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe. L'11 novembre del medesimo anno,
Ingrid Schubert veniva trovata impiccata nel carcere di Monaco. Una cappa
di oblio e di terrore calava sulla società tedesca. Il sogno dei
militanti della Raf e di un'intera generazione, che aveva avuto il coraggio
di fare i conti con il passato nazista e si batteva contro le politiche
imperialiste del presente, andava in frantumi. Ancora una volta in molti
potevano con tranquillità dichiarare: l'ordine regna a Berlino.
Alla messa in mora di tale ordine Ulrike Meinhof aveva dedicato integralmente
la sua esistenza. Una critica la cui origine va colta nell'ambito dell'etica
e della morale e che solo in seguito troverà una concreta dimensione
politica, fino a farla approdare nella guerriglia metropolitana.
Ed è questa dimensione prevalentemente «esistenziale»
che il libro di Prinz ci restituisce. Ulrike giunge alla militanza politica
perché indignata. Indignata per il silenzio e la complicità
che la società tedesca mantiene verso il suo recente passato nazista;
per l'adesione entusiasta agli armamenti atomici; per la compiaciuta sudditanza
alle politiche imperialiste statunitensi; per il ruolo attivo che la Rft
gioca nel dominare, depredare, reprimere i popoli del Terzo Mondo, fornendo
copertura e sostegno ai regimi più brutali e dittatoriali; per le
condizioni in cui versano i lavoratori stranieri venuti a produrre nelle
grandi fabbriche del «miracolo tedesco» e così via.
Ma sullo sfondo di tutto ciò vi è soprattutto una critica
radicale e priva di qualsiasi possibile mediazione nei confronti del carattere
inumano della società tedesca. È l'assenza di «umanesimo»
in tutto ciò che la circonda a trasformare Ulrike in una militante
politica che, solo nella prassi rivoluzionaria, può pensare di ri/trovare
una dignitosa dimensione etica e umana. Una militanza come territorio al
contempo liberato e belligerante, posto al di fuori e in contrapposizione
ai rapporti sociali totalmente reificati e mercificati dello stile di vita
tedesco-occidentale. Una ricerca che la porta a rompere, non senza contraddizioni,
con il suo ruolo sociale di madre prima e donna professionalmente affermata
poi. Senza la sua scelta radicale, infatti, sarebbe andata incontro a un
destino facilmente ipotizzabile.
Grazie alle sue indubbie qualità intellettuali, avrebbe avuto
un posto di prim'ordine all'interno dei numerosi e compiacenti salotti
radical della Rft. Un destino che la tentò non poco, grazie anche
a una serie di gratificazioni non secondarie, ma che cozzava contro una
dimensione dell'etica, influenzata non poco dalla sua formazione protestante,
alla quale non poteva volgere le spalle. Tra i salotti buoni e confortevoli
della borghesia progressista e i mondi duri e spietati dei «dannati
della terra», Ulrike non poteva che schierarsi con costoro. Una scelta,
ed è questo forse uno dei grandi pregi del lavoro di Prinz, che
non ha nulla di eroico. Il libro non ci restituisce alcuna dimensione eroica
così come non ci consegna una figura estremista, fanatica o imbevuta
fino all'ossessione di ideologia. A emergere è, al contrario, una
donna umana forse troppo umana che non ha voluto volgere lo sguardo altrove
ma lo ha tenuto lucidamente fisso verso il mondo reale. Il Vietnam devastato
dalle bombe e dal napalm, l'Iran assoggettato a uno dei più sanguinari
e spaventosi regimi dittatoriali, l'America centrale e meridionale continuamente
sotto il giogo di regimi militari e fascisti, l'Africa e infine il grande
amore per il popolo palestinese e la sua indomita e fiera lotta di liberazione.
È per amore del mondo che Ulrike decide di portare la guerra dentro
le retrovie dell'imperialismo, identificandosi fino all'estremo con le
sorti dei dannati della terra e delle metropoli.
Un amore e una coerenza che, la società tedesca, non le perdonerà
mai. Ma l'interesse che le vicende della Raf suscitano nel nostro paese
non si limita a quella parte di storia, ormai obiettivamente archiviabile,
degli anni '70, un periodo storico intorno al quale, dopo anni d'oblio,
inizia a fiorire una letteratura storica e sociologica in gran parte «oggettiva»
e «scientifica», ma si protrae fino a sfiorare i giorni nostri.
La pubblicazione "Donne nella guerriglia" (a cura di Maurizio Ferrari,
edito dai centri di documentazione Nexus, di Milano, e Ombra rossa, di
Padova) è una preziosa raccolta di documenti e testimonianze intorno
al dibattito sviluppatosi tra la Germania e la Svizzera in seguito allo
scioglimento ufficiale della Raf da parte di quei militanti che, fino ai
primi anni '90 del secolo scorso, continuavano a riconoscersi all'interno
di quell'esperienza. Una decisione non interamente condivisa da una parte
di quel movimento che, per anni, aveva cercato di mantenere aperto un canale
di discussione tra la Raf e alcuni ambiti dell'antagonismo mitteleuropeo.
La validità strategica della lotta antimperialista, per alcuni di
questi, oltre a non esser oggetto di discussione deve, se possibile, essere
ulteriormente rafforzata. È in questo contesto che Andrea Wolf e
Barbara Kistler maturano la decisione di recarsi in Kurdistan per combattere
a fianco del Pkk l'una e di una formazione di ispirazione maoista l'altra.
Una scelta che le porta entrambe a morire in combattimento per mano dell'esercito
turco. La raccolta di testi è una piccola ma non secondaria iniziativa
che consente, soprattutto, di far emergere, senza eccessi retorici o eroismi
di maniera, la biografia di due donne in fondo «comuni» che,
per la libertà dei popoli, hanno messo in gioco tutto, esistenza
compresa.