Quando nel 1994 Nelson Mandela fu eletto presidente del Sudafrica, fu
proclamata la vittoria sulle politiche razziali. Ma la fine dell’apartheid
non portò a un reale cambiamento delle condizioni di vita della
maggioranza oppressa. Al contrario, le pratiche di segregazione ereditate
dal passato si adattarono perfettamente alle istanze di governo del neoliberismo
e delle istituzioni sovranazionali.
I protagonisti di questo libro sono i poveri che abitano i luoghi della
nuova apartheid. Lontani dallo stereotipo della miseria del continente
africano, gli abitanti di tali comunità sono gli artefici di un
radicale movimento di opposizione che, con inediti linguaggi e forme di
resistenza, ha saputo rivendicare con forza migliori condizioni di vita.
Noi siamo i poveri è l’entusiasmante ritratto di un’altra Africa.
È l’epopea di una rivolta imprevista, capace di far nascere da indigenza
e miseria nuove relazioni sociali e di dar vita a immediate comunità
politiche. È una storia narrata dalla voce collettiva di una comunità
di miserabili da cui, come in un romanzo, emergono affetti, passione, rabbia
e dolore. Il racconto di un altro volto della povertà che diventa
per noi l’irresistibile richiamo di un’altra politica.
Ashwin Desai insegna al Workers’ College a Durban. Autore di Arise
Ye Coolies e South Africa: Still Revolting, è uno dei più
noti attivisti sudafricani.
(scheda di presentazione a cura dell'editore)
Dalla prefazione di Naomi Klein
Noi siamo i poveri è uno tra i migliori libri sulla globalizzazione
e la resistenza. La sua forza consiste nel fatto che menziona a malapena
la globalizzazione, preferendo invece intrecciare ricche narrazioni locali
in grado di dare sostanza a questo oggetto così ampio e generico.
L’autore riesce brillantemente nell’impresa, soprattutto perché,
a differenza di tanti autori di saggistica politica, sembra apprezzare
veramente le persone di cui scrive. Questo significa che le famiglie dei
villaggi che perdono le case e si vedono tagliare l’acqua e l’elettricità
emergono non come vittime senza nome, ma come un’armata di personaggi sguaiati,
coraggiosi e singolari – dal rapper locale di nome Psyches, che Desai descrive
come un "pamphlettista dell’umanità", all’anziana "zia Girle", che
ha ispirato il titolo del libro. […]
La critica di Desai alle politiche neoliberiste non è imposta
o cucita artificialmente sulle vite dei "poveri", essa emerge piuttosto
dalle storie umane che si snodano lungo il libro – storie di famiglie "le
cui biografie sono sfigurate dalla povertà". Per esempio veniamo
a sapere che molte madri hanno perso il sostegno economico per i figli;
leggiamo storie di ragazze dodicenni che devono andare in cerca di "vecchi
danarosi" che le mandino a scuola. E incontriamo il tredicenne Valentino
Naidoo che è stato picchiato, denudato e arrestato per aver rubato
uno spazzolino da denti. (Ha raccontato poi alla polizia che la madre non
poteva permetterselo, e che i bambini a scuola lo prendevano in giro per
l’alito cattivo). […]
Secondo Desai, a tenere insieme le mobilitazioni comunitarie in tutto
il Sudafrica non è l’ideologia, ma il bisogno di acqua, medicine,
elettricità e terra. Se esiste un pensiero-guida a far da collante,
non si tratta certo di un’astratta fedeltà al nazionalismo, alla
liberazione o persino al socialismo. Si tratta piuttosto di un istinto
viscerale per il quale i bisogni umani devono avere la precedenza sulle
pretese del mercato, e ogni azione diretta intrapresa da persone comuni
per soddisfare questi bisogni non solo è giustificata, ma persino
eroica.
Il testo
La storia raccontata in questo libro ha inizio a Chatsworth, una township
alla periferia di Durban, la città più grande della costa
orientale del Sudafrica. Noi siamo i poveri descrive una spirale crescente
di lotte contro misure dettate dal mercato che – in una società
capitalistica resa teoricamente non razzista dalla sconfitta dell’apartheid
e dall’adozione al suo posto del libero mercato – miravano a trasformare
gli abitanti delle comunità povere in consumatori paganti. Da Chatsworth
questa lotta si è poi estesa ad altre comunità povere di
Durban e ad altre zone del Sudafrica. Dire che essa comincia a Chatsworth
è un po’ una semplificazione per non dover spiegare ogni volta che,
come tutte le rivolte che crescono, anche questa ha avuto molti inizi.
Sicuramente sarebbe stato possibile ricondurla anche ad altre origini.
Tuttavia ci sono validi motivi per partire da Chatsworth.
Quando ho iniziato a scrivere questo libro, Chatsworth era tanto un
luogo quanto una battaglia. Dovrebbe risultare evidente, con il procedere
del racconto, che Chatsworth è diventata anche una politica. Razza
e classe, le vecchie categorie, sono ancora ben presenti. Ma sono anche
emerse nuove variabili politiche, felicemente immuni dal contagio degli
ex detenuti di Robben Island, di esiliati e di imprenditori etnici: la
fazione politica che governa nel post-apartheid.
Disoccupato, madre single, difensore della comunità, vicino,
operaio, delinquente comune, rapper, brava persona: tutte queste formulazioni
hanno contribuito a creare le identità collettive dei "poveri".
La lotta di Chatsworth ha favorito l’esplosione di rivolte in altre zone
e ha illuminato le battaglie che già erano in corso. Tali battaglie,
condotte dapprima in una condizione di reciproco isolamento, hanno gradualmente
scavalcato le barriere razziali e geografiche. Continueranno a farlo, riducendo
in cenere le catene delle vecchie fedeltà politiche e del compromesso
di classe che ci hanno così immobilizzato in questi ultimi dieci
anni? O la massa sarà confinata ai margini della società,
sommersa da eserciti di politici un tempo maestri nell’aprire e chiudere
i rubinetti della lotta e della speranza? Oppure le persone resisteranno
fianco a fianco, illuminando così la strada verso una nuova società?
Queste lotte nascoste sono state epiche, perché hanno richiesto
fegato e immaginazione. Per prima cosa, affinché potesse emergere
una nuova base di solidarietà, bisognava abbattere l’handicap etnico.
La stessa Chatsworth è nata come discarica destinata alle persone
classificate come "indiane" dal sistema dell’apartheid, e indiani sono
quasi tutti quelli che vi abitano. Ciò rendeva quanti partecipavano
alla lotta – indiani scontenti di un governo africano – vulnerabili ai
contrasti di tipo razziale. Con lo svolgersi degli eventi, è apparso
chiaro che tale dimensione etnica è stata una benedizione, perché
ha procurato alla gente accuse volgari da parte di politici disperati.
Accuse che la gente ha preso in considerazione e poi rigettato formulando
contro-identità. Quando le sollevazioni si sono estese a comunità
africane, come Mpumalanga, e meticce, come Wentworth e Tafelsig, queste
nuove identità si sono consolidate e i tentativi di "dividere e
imperare" hanno suscitato più ilarità che preoccupazione.
La parte visibile di queste lotte – la mobilitazione di massa – ha
avuto un inizio esitante. Per crescere, richiedeva un’innovazione politica
e organizzativa. I leader delle comunità venivano etichettati di
volta in volta come agitatori, radicali o controrivoluzionari. Rispondere
era difficile. Le tradizionali capacità di resistenza e adattamento
hanno dovuto essere filtrate e adattate alle mutate condizioni attraverso
nuove terminologie. La facile soddisfazione morale della battaglia anti-apartheid
non c’era più. Il sostegno della piccola borghesia era esile, inesistenti
l’assistenza legale e le sovvenzioni dall’estero. Contro un nuovo governo
democratico, la battaglia ha dovuto rispettare limiti diversi e, quando
li ha violati, lo ha fatto con la forza piuttosto che con la violenza.
Si sono sviluppate capacità politiche notevoli. I legami con
alleati di nicchia in centinaia di minime occasioni sono stati estremamente
proficui. Dal nemico sono state prese in prestito alcune cose, e nei suoi
confronti è stato fatto un lavoro di lobbying. È stato preso
in giro, elogiato, combattuto, votato, calunniato, provocato, discusso,
cacciato via. Tutto ciò derivava dall’esigenza di impedire gli sfratti,
le interruzioni delle forniture di acqua o altre cose del genere. Nessun
ponte è stato bruciato senza motivo. Comunque questo istinto di
sopravvivenza ha portato anche ad alcune concessioni, e ha fatto sì
che talvolta le dichiarazioni pubbliche potessero risultare politicamente
oscure.