Una rivista, gli anni ’70 e un’area politica e culturale che voleva misurarsi col declino dell’operaio-massa e con un nuovo soggetto rivelato dalle lotte «oltre la catena, al di là dei muri della fabbrica, lungo le dorsali d’una produzione che s’innerva sul territorio, sguscia nel terziario e sussume la società». Un operaio carne e sangue, «meno rude ma più irriverentemente pagano»
«A noi piacciono i film western, quelli della “crisi”, il teatro-provocazione,
il rock, i fumetti più illogici possibili, i libri senza martiri
ed eroi, la riscoperta del proprio corpo [...] e il comunismo lo pensiamo
come una cosa molto lussuosa, dove nessuno starà in piedi su una
zolla di terra a sudare piscia e sangue»
«Pat Garret e Billy Kid erano due che facevano una loro battaglia
contro i proprietari fondiari. Ma Pat Garret era un legalitario: non gli
piaceva che Billy ammazzasse i nemici anche alla festa di nozze quando
lui aveva deciso per la tregua con l'esercito, la polizia, i proprietari.
Pat fa la scelta e diventa sceriffo. A malincuore. Di fatto diventa alleato
dei proprietari, non senza cercare, ogni tanto, di lasciare perdere Kid
e di mantenere una buona fama tra i suoi vecchi compagni. Ma, in fin dei
conti, Pat spara contro Kid. La storia finisce lì. Qualcuno immagina
che il Kid sia stato solo ferito e come ogni eroe degli oppressi, rinasca
dopo ogni ferita e alla fine trionfi su Garret. Il "compromesso storico",
la questione sindacale della battaglia delle vertenze, Enrico B. e Luciano
L. sono fratelli gemelli di questo vecchio Garret. Era l'autunno 1973».
Cominciava così l'articolo "Pat Garret e Billy Kid ovvero i
consigli del sindacato e l'autonomia operaia" sul numero 10, maggio 1974,
di Rosso , all'indomani della chiusura della vertenza dell'Alfa Romeo.
Un numero che, non per caso, ammoniva in prima pagina: «Una crisi
è vera crisi se è crisi del padrone». Si noti: "padrone",
non "lavoratore che intraprende". Non è un mero slittamento semantico:
nomina sunt consequentia rerum . Bastano questi pochi elementi a dare l'idea
di cos'è stata la rivista Rosso : un potente laboratorio dell'antagonismo
sociale degli anni Settanta. Di questa rivista l'editore DeriveApprodi
ci restituisce oggi tutta la forza, e tutte le contraddizioni, in un dvd
che ne riproduce l'intera vita, dal marzo 1973 al maggio 1979, un mese
dopo quel 7 aprile che inaugurò con un colpo di mano giudiziario
un'epoca in cui nessun compagno «avrà più tempo o modo
di occuparsi di una rivista». Accanto al dvd, un densissimo saggio
di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi, Massimiliano Mita: "Avete pagato
caro non avete pagato tutto. La rivista Rosso ", arricchito dai contributi
di Funaro e Pozzi e da uno stralcio dell'intervista sull'operaismo di Toni
Negri del 1979.
Un'operazione editoriale importante per almeno tre ragioni: innanzitutto,
per la riproduzione di materiale storico altrimenti destinato all'oblio
e alla mistificazione, e che invece ridiventa disponibile e fruibile, quantomeno
in termini documentari. In secondo luogo, per la serietà della curatela
dei tre autori del saggio, provenienti dall'esperienza di Banlieues e Frame
, due tra le più interessanti riviste di movimento degli ultimi
anni, che hanno saputo coniugare il puntiglio storiografico con una forma
espressiva accattivante, improntata a un taglio narrativo (una precisa
scelta stilistica: l'estetica è una forma dell'etica, non il riposo
del guerriero) che mescola parafrasi politica e citazioni letterarie colte
e raffinate, ottenendo talvolta lo spiazzante effetto di passare la prosa
negriana al filtro dell'editing di un Ellroy o un Izzo. Infine - ed è
l'aspetto di maggior rilievo - per il taglio ermeneutico dei tre curatori.
Che non si nascondono dietro l'acribia ricostruttiva che espone senza interpretare
(la sostituzione dell'esposizione all'interpretazione è un'operazione
ermeneutica eminentemente politica, come sa chi ha frequentato l'incompiuto
libro di Benjamin su Parigi), né cede all'ennesima riedizione dello
stucchevole derby Roma-Milano (o Roma-Padova) sulle responsabilità
della sconfitta dei movimenti degli anni Settanta: le questioni poste,
attraversate, non risolte dall'esperienza di Rosso - la violenza, il «maledetto
problema del politico», il rapporto tra il multiforme proliferare
delle pratiche e la riduzione ad unità del comando capitalistico
(e della direzione politica leninista?) - sono ancora qui, sul terreno
dell'esistente. Si parla dei "ruggenti Settanta" per parlare del terzo
millennio: «è bene rimarcare come proprio l'annosa questione
del potere e delle forme politiche sia tornata d'attualità nel momento
in cui la Storia ha ripreso la sua irrefrenabile corsa verso la barbarie,
la guerra ha saturato la profondità dell'orizzonte [...]. È
cominciato il tempo della catastrofe planetaria, quotidiana, generalizzata.
Ed è persino possibile che, in quest'epoca, non basti neppure una
nuova, creativa manifestazione della potenza moltitudinaria. Di sicuro,
è inutile eludere il problema. Farlo non è servito. Il Novecento
è tornato, una volta di troppo, a bussare a tutte le porte. E non
ne ha risparmiata nessuna».
La storia racconta di Rosso come di una rivista nata dall'incontro
tra il Gruppo Gramsci, un polo attrattivo lombardo capace di tenere insieme
militanti operai e intellettuali di spessore come Romano Madera e Giovanni
Arrighi, e il versante milanese di quella parte di Potere Operaio che si
riconosceva nelle teorizzazioni di Negri. Una rivista che prende ben presto
il sottotitolo di "Giornale dentro il movimento", e che dentro il movimento,
nel suo periodo più alto (dal '73 al '76) sa confrontarsi con quella
componente "underground" del movimento che ha come riferimento l'esperienza
di Re Nudo . Se torniamo a quel pezzo del '74 su Berlinguer e Pat Garret,
vi troviamo le due simultanee pinze dell'astice sovversivo che attanaglia
il reale: il soggetto dell'antagonismo, e il linguaggio espressivo che
lo nomina. «Non più la tradizionale declinazione dell'"inchiesta
operaia" e della "conricerca", bensì una narrazione frattale, sincopata,
"sporca", dei nuovi metodi di vivere e di confliggere». Lo sforzo
è quello di misurarsi col declino dell'operaio-massa e con il nuovo
soggetto che va delineandosi nelle lotte: «oltre la catena, al di
là dei muri della fabbrica, lungo le dorsali d'una produzione che
s'innerva sul territorio, sguscia nel terziario e sussume la società».
L'operaio di cui parlano le pagine di Rosso non discende dall'alto della
tradizione teorica tardo-ottocentesca che vuole il lavoro essere il luogo
dell'eticità dispiegata, dal cui fango si raccattano le bandiere
dei Valori e del Progresso che la borghesia ha lasciato cadere: l'operaio
di cui qui si narra è carne e sangue, «meno rude ma più
irriverentemente pagano». Con i suoi comportamenti: rifiuto del lavoro,
sabotaggio, boicottaggio della catena e del ciclo produttivo. Un operaio
che non ama, ma odia il proprio luogo di lavoro; che odia il sistema che
lo ridefinisce in quanto produttore di merce e valore di scambio; che odia
la propria stessa condizione.
La violenza dei comportamenti antagonisti, al di là della dialettica
repressione-reazione nelle strade e nelle piazze, esprimeva questo irriducibile
dato, che solo delle menti povere di comprensione potevano ricondurre alle
devianti pedagogie di cattivi maestri. La rimozione di questo dato, congiunta
alla cattiva infinità di una nostalgica e mitologica rievocazione
dell'età dell'oro della classe operaia, ha reso quantomeno ambiguo
il dibattito che sull'uso della violenza, contribuendo a perpetuare quell'equivoco
che vuole, nella comune opinione, equiparati lo sciopero selvaggio e la
banda armata, l'illegalità di massa e la pratica terroristica. Un'ambiguità
che si fa costitutiva dell'incapacità di leggere - e contrastare
- l'altra forma di violenza: quella dei cicli produttivi, delle nuove servitù,
della precarizzazione dell'esistenza esperita nella dissoluzione di ogni
pratica (prima ancora che cultura) della sicurezza sui luoghi di lavoro.
Una Thyssenkruppizzazione diffusa che nasce a cavallo degli anni '70-'80:
prosciugato o esaurito il mare dell'antagonismo sociale, l'ostilità
anti-istituzionale e anti-burocratica si è riconvertita nell'individualismo
proprietario dell'ex operaio del nord-est che si fa padroncino investendo
la liquidazione nel capannone industriale, mettendo il sapere operaio al
servizio del capitale globale, diventando leghista o berlusconiano.
È qui che la sinistra riformista perde, senza più saperla
recuperare, la capacità non di interpretare ed esprimere, ma persino
di leggere la società. Si badi: non la classe operaia, ma la società
tutta. Perché l'operaio di cui parla Rosso non è solo quello
di Mirafiori: nella fabbrica diffusa che è la società tardo-capitalistica,
Mirafiori è ovunque. Accanto agli operai delle grandi e piccole
fabbriche, la vera novità sta «nell'apparire di "aggregati
sociali" caratterizzati da rivendicazioni del tutto originali". Il movimento
femminista e quello del proletariato giovanile costituiscono specificità
d'indubbia rilevanza». Le lotte si diffondono sul terreno della produzione
culturale, dei bisogni diffusi: alla centralità della fabbrica si
sostituisce la metropoli. «Ora più di prima, la scelta delle
parole, l'invenzione lessicale, la definizione d'altre "grammatiche" diventano
strumenti specificamente politici». Non è, di nuovo, un orpello
estetico: non a caso dopo il '76, con la frantumazione del movimento in
mille rivoli che, ognuno perso per i fatti suoi, se non si disseccano a
Poona piuttosto che al Macondo o in qualche cupa sede clandestina, non
riescono più, se non eccezionalmente, a mordere il reale e a cogliere
l'estraneità dell'operaio sociale al militarismo, fa riscontro un
gap linguistico, una lignificazione dei linguaggi: «sembra che l'intero
piano delle metafore, delle ridefinizioni semantiche, dei richiami retorici,
degli slittamenti di senso, dell'eccedente nonsense, pieghi a un certo
punto verso l'allegoria bellicista e la ciclicità della Storia».
E invece nel 1975, in uno dei migliori (anche metodologicamente) articoli
di Rosso - "A Lenin non piaceva Frank Zappa" - viene fotografata la tristezza
del «militante perfetto [che] vive dei cascami della cultura riformista»
e pratica la dimensione culturale solo all'interno degli schemi della Terza
Internazionale: «evitare e il dubbio, scansare la crisi, parlare
poco di sé non approvare comportamenti violenti e spontanei che
non rientrano nelle tradizioni "pure". E infine: occhio alla decadenza
e al pessimismo». Invece, con un crescendo che sarà mirabilmente
sintetizzato da Gianfranco Manfredi nella sua "Quarto Oggiaro Story"):
«a noi piacciono i film western, quelli della "crisi", il teatro-provocazione,
il rock, i fumetti più illogici possibili, i libri senza martiri
ed eroi, la riscoperta del proprio corpo [...] e il comunismo lo pensiamo
come una cosa molto lussuosa, dove nessuno starà in piedi su una
zolla di terra a sudare piscia e sangue». Perché «non
si può essere autonomi in fabbrica e sul territorio, e riformisti
o neo-riformisti su "tutto il resto"».
Qui, di nuovo, è il metodo dell'analisi a segnare la differenza
tra Rosso e quella sinistra moderata che, cedendo ai «melanconici
toni d'un pessimismo "crepuscolare"» e alle sirene dell'autonomia
del politico, relega «la ricchezza del processo di produzione sociale
nei sordidi quartieri d'una "seconda società", versione imbellettata
del Lumpen». Come l'operaio sociale si coglie solo a partire dalle
lotte che ne marcano la genesi, e non dai banchi scolastici delle Frattocchie
o dai libri dei Padri Fondatori - l'operaio, diceva il filosofo Roberto
Dionigi, non si sfoglia; così i bisogni del proletariato metropolitano
si colgono solo all'interno della multiforme creazione di nuovo essere
sociale. È qui che cominciano a trovare cogenza gli strumenti interpretativi
elaborati in Francia da Deleuze, Guattari, Foucault; ed è qui che
balenano le prime scintille di «una soggettività moltitudinaria
irriducibile al concetto di popolo e nemica del potere costituito».
Una soggettività - è il dubbio che ci rimane e che rilanciamo,
in costruttiva polemica, non solo ai curatori, ma a chiunque vorrà
fare un uso critico e non museale di queste pagine - che non poteva ieri,
e non può oggi, vedere ridotta senza nocumento la propria complessità
dalla categorizzazione leninista espansività-centralizzazione; che
deve sapersi liberare, nei linguaggi e nelle pratiche, dalla necessità
del leninismo per costruire forme fluide di proliferazione orizzontale:
se Lenin non amava Zappa, ancor meno potevano piacergli Peckinpah e Leone.