Quando l'antimilitarismo era considerato una malattia mentale.
Le vicende umane e politiche di Augusto Masetti costituiscono l’argomento
della monografia di Laura De Marco "Il soldato che disse no alla guerra.
Storia dell’anarchico Augusto Masetti (1888 – 1966)". Come sottolinea Fiorenza
Tarozzi nella sua prefazione, merito indiscusso del libro (Edizioni Spartaco,
settembre 2003, pp. 147, Euro 12) è quello di far riemergere il
suo protagonista dall’oblio in cui, dopo aver infiammato la scena politica
nazionale nel periodo 1911 – 1914, era ingiustamente finito.
Nato nel 1888 a Sala Bolognese, Augusto risiede e lavora come muratore
a San Giovanni in Persiceto. E’ iscritto alla locale Camera del Lavoro
ed Armando Borghi lo ricorda come un attivista valido ma estremamente schivo,
tanto che non saprebbe precisarne gli orientamenti ideologici. Occorre
dire che Masetti, di famiglia numerosa e povera, è uomo di scarsa
cultura e probabilmente le distinzioni teoriche tra anarchici e socialisti
non lo appassionano. In occasione della guerra di Libia, il giovane viene
richiamato per la seconda volta alle armi nell’ottobre del 1911. La sera
del 29 ottobre è l’ultimo ad essere sorteggiato per la partenza
in terra libica, in programma il giorno seguente. Alle sei di mattina,
nel cortile della caserma Cialdini di Bologna, si stanno radunando le truppe
in attesa del discorso di saluto del colonnello: improvvisamente un colpo
parte dal fucile di Masetti e ferisce ad una spalla il tenente colonnello
Stroppa. L’autore del gesto grida: "Viva l’anarchia, abbasso l’esercito!";
mentre viene bloccato incita alla ribellione i camerati. Gli viene trovato
in una tasca un volantino antimilitarista (forse consegnatogli dall’anarchico
Clodoveo Bonazzi) che invita i soldati a sparare verso bersagli diversi
da quelli indicati dai superiori. Durante gli interrogatori si dichiara
anarchico rivoluzionario. Il reato è quello di "insubordinazione
con vie di fatto verso superiore ufficiale", punibile con la fucilazione
alla schiena.
L’avvenimento divide l’opinione pubblica: da una parte si tengono manifestazioni
a sostegno dell’esercito e della guerra, dall’altra si creano le condizioni
per una crescita improvvisa della propaganda antimilitarista tramite la
fondazione del Comitato Nazionale "Pro Masetti" ad opera di anarchici,
socialisti, repubblicani e varie personalità non appartenenti alle
organizzazioni "sovversive". Lo slogan "viva Masetti, abbasso l’ esercito"
si diffonde per tutta l’Italia centrale e settentrionale, nascono numerosi
comitati locali, ovunque si tengono manifestazioni e comizi costantemente
osteggiati dalle forze dell’ordine. Masetti diventa il simbolo dell’opposizione
ad una guerra che non aveva trovato consensi negli strati meno abbienti
della popolazione, impermeabili alla robusta campagna di stampa colonialista
e guerrafondaia. L’ antimilitarismo non è infatti solo una presa
di posizione politica o di principio delle organizzazioni di estrema sinistra,
ma soprattutto rappresenta un sentimento largamente diffuso tra le classi
popolari, che conoscono l’esercito come strumento di repressione interna
di uno Stato ben lontano dal rappresentare gli interessi dei lavoratori.
La coscrizione viene vissuta come un’ imposizione odiosa.
In questo clima, lo Stato giolittiano manovra abilmente per evitare
che Masetti diventi un martire e, tramite la perizia di due psichiatri
nominati dal Tribunale di Venezia, l’ imputato viene dichiarato un ‘soggetto
degenerato’, che ha agito in stato di "morboso furore" a causa di un "acuto
stimolo passionale"; il tutto suffragato dalle pittoresche teorie di antropologia
criminale prese a prestito da Cesare Lombroso.
L’11 marzo 1912 la sentenza: il fatto non costituisce reato e Masetti
viene trasferito dal manicomio giudiziario di Reggio Emilia, dove si trovava
in osservazione, a quello di Mon-telupo Fiorentino. L’ agitazione per la
liberazione di Masetti pare inarrestabile e si ottiene che venga trasferito
nel manicomio civile di Imola (gennaio 1914). Sia il direttore del manicomio
che gli infermieri (la cui lega aderisce al comitato Pro Masetti), non
credono alla pazzia del degente. Il comitato chiede una nuova perizia che
affermi la "ritrovata" sanità mentale del Masetti, il Tribunale
di Venezia accoglie l’istanza ma fa trasferire il degente presso il manicomio
di Brusegana (Padova), nominando due periti che tergiversano affinché
diminuisca l’attenzione nei confronti della vicenda.
Nel 1914 scoppia anche il caso di Antonio Moroni, giovane socialista
rivoluzionario che a causa della sua militanza politica è inviato,
subito dopo l’arruolamento, ad una compagnia di disciplina. La vicenda
dà nuovo slancio alla propaganda antimilitarista: il 7 giugno 1914,
festa nazionale dello Statuto, si tiene una manifestazione non autorizzata
ad Ancona pro Masetti e Moroni, duramente repressa dalle forze dell’ordine
che uccidono tre partecipanti. Lo sciopero generale si estende rapidamente,
in Romagna e nelle Marche assume un carattere insurrezionale: è
la "Settimana Rossa". Lo slogan è ora "Viva Masetti, abbasso il
re". Ma la fine dell’agitazione, la successiva partecipazione dell’Italia
al conflitto mondiale, la rottura del fronte antimilitarista che aveva
costituito i comitati (con molti personaggi di primo piano che passano
improvvisamente nelle file dell’ interventismo), fanno dimenticare in fretta
il caso Masetti. Approfittando della situazione, viene emessa la seconda
perizia psichiatrica che lo considera un soggetto socialmente pericoloso
in quanto "mentalmente anormale". Tuttavia Masetti resta un simbolo per
tanti giovani che scelgono di disertare la chiamata alle armi in occasione
della I° guerra mondiale.
Tornato nel manicomio di Imola, il degente può uscire abbastanza
liberamente dalla struttura, fino a frequentare le riunioni serali degli
anarchici organizzati nell’Unione Sindacale Imolese: a quel punto interviene
il sottoprefetto che chiede al direttore del manicomio un trattamento più
adatto ad un malato mentale. Ciononostante nel 1919 Masetti viene dato
in affidamento ad una famiglia imolese, riprende l’attività di muratore
e nel 1932 viene definitivamente revocato l’ordine di ricovero. Nel frattempo
si era creato una famiglia con l’imolese Concetta Pironi, dalla quale aveva
avuto tre figli.
Masetti resta però fedele ai suoi principi: Nel settembre 1935
chiede di poter disertare le adunate del regime per la guerra d’Etiopia,
viene subito incarcerato e quindi confinato per 5 anni a Thiesi (Sassari).
Durante il trasferimento "dà prova di squilibrio mentale" e giunto
a destinazione viene rinchiuso nel locale manicomio, dove resta circa tre
mesi. Nel maggio 1940 può ritornare a Imola. E’ nuovamente incarcerato
il 13 settembre 1943, durante la retata operata dalle truppe naziste che
prendono possesso della città. L’11 settembre 1944 viene ucciso
in combattimento il figlio Cesare, partigiano della 36° Brigata Garibaldi.
Nel dopoguerra prosegue l’attività antimilitarista in vari modi,
ad esempio correggendo in modo originale i manifesti di chiamata alle armi.
Continua a frequentare gli ambienti anarchici fino alla morte, che avviene
nel marzo 1966 quando è investito da una motocicletta di un vigile
urbano.
Entrando nel merito del libro, risulta indubbiamente accurato il lavoro
di ricerca, svolto dalla De Marco in buona parte a Imola presso l’Archivio
Storico della Federazione Anarchica Italiana. L’opera, rielaborazione della
tesi di laurea dell’autrice, avrebbe potuto approfondire maggiormente il
contesto e le vicende che ruotando intorno al protagonista; si è
invece preferito privilegiare la scorrevolezza e l’agilità del testo,
che in effetti si legge d’un fiato. Risulta particolarmente efficace la
ricostruzione del gesto di Masetti e del suo stato d’animo in quelle ore
fatidiche (supportata da numerose testimonianze di commilitoni, ufficiali,
nonché degli amici più intimi visitati in libera uscita la
sera prima); ed il lettore si appassionerà nel seguire le tormentate
vicende giudiziarie e manicomiali di un uomo che, per aver commesso un
clamoroso atto di rifiuto nei confronti della guerra, il Potere ha preferito
dichiarare pazzo piuttosto che ribelle.
Roberto Zani, da "Cenerentola", n. 22, 6 ottobre 2003