Il Meridione in movimento, quarant'anni dopo
Il saggio di Carmen Pellegrino «'68 napoletano.Lotte studentesche e conflitti sociali tra conservatorismo e utopie», di cui proponiamo qui a fianco ampi stralci dalla prefazione di Giovanni De Luna, è in uscita per la piccola casa editrice sarda Angelica (pp. 208, euro 14). Pellegrino, che ha trent'anni e vive a Napoli affiancando la sua attività di studiosa di storia dei movimenti collettivi alla collaborazione con associazioni socioculturali, si è basata soprattutto sulla documentazione dell'epoca (dagli articoli dei giornali ai materiali prodotti dal movimento) per inserire il '68 partenopeo, finora piuttosto trascurato dalla memoria storica, all'interno di quella fase di cambiamento radicale che investì tutto il paese e che ebbe proprio nel Meridione effetti profondi anche in ambiti che si sarebbero detti impermeabili a ogni innovazione, dalle istituzioni carcerarie all'esercito.
"il manifesto", 9 dicembre 2008
La prefazione al libro di Carmen Pellegrino
Sottratto all'oblio il lungo '68 di Napoli
Giovanni De Luna
Ci sono luoghi che sono entrati stabilmente nella mappa del '68 italiano.
Napoli non è tra questi. Torino e Palazzo Campana, Milano e la Statale,
Roma e valle Giulia e ci si ferma lì. Quasi che i giorni convulsi
e febbrili del '68 abbiano riproposto il lungo periodo di una questione
meridionale sprofondata in un tempo quasi immobile, fissando per il Sud
i tratti di una irrimediabile separatezza, di una sua chiusura in una storia
altra e diversa rispetto a quella nazionale. (...) Per reintrodurre Napoli
e il Sud nella storia del '68 occorreva quindi sconfiggere le banalità
e le semplificazioni, sottrarsi alla cappa asfissiante dei regolamenti
dei conti e delle invettive affidandosi alla linfa vitale della ricerca
e dell'approccio storiografico. Questo è il libro di Carmen Pellegrino,
il lavoro di chi ricordi non ne ha perché non era ancora nata, di
chi per conoscere il '68 è stato costretta a studiarlo e forse proprio
per questo è stato in grado di reintegrare Napoli nella geografia
di un evento compiutamente nazionale. (...)
Il primo elemento unificante è la cronologia. Il libro si sofferma
solo sugli esordi degli «anni '68», raccontandoci il triennio
1967-1969 e lasciando affiorare una catena di eventi che si ripete uguale,
a Pisa come a Trento, a Venezia come a Pavia: la mobilitazione contro la
legge 2314, il susseguirsi di occupazioni, controcorsi, assemblee, sperimentazioni
didattiche, sgomberi, cortei, scontri con la polizia e con i fascisti.
Si, la presenza dello squadrismo a Napoli era più marcata che in
altre situazioni, la violenza dei fascisti era molto più aggressiva
che a Torino e a Milano; per il resto però il percorso degli studenti
resta sostanzialmente lo stesso. (...) Soprattutto il movimento napoletano
condivide con quello delle altre città una dimensione politica fortemente
inclusiva, che ne rappresenta forse il tratto più significativo
e innovativo. Diciamolo subito. Nella loro stragrande maggioranza i militanti
si autorappresentavano come portatori di una ideologia di rottura, trasgressiva,
dirompente; molti si dichiaravo esplicitamente rivoluzionari. Quelli più
consapevoli replicavano il modello classico del militante rivoluzionario
novecentesco, lasciando che la loro scelta di vita divenisse totalizzante,
assoluta, tagliandosi i ponti alle spalle rispetto alle loro provenienze
sociali, azzerando ogni soluzione di continuità tra la propria dimensione
esistenziale e quella politica. Forse però ora è arrivato
il momento di scavare dentro quell'autorappresentazione, lasciandone emergere
contraddizioni e incertezze, forzandone la monumentalità a cui è
stata consegnata dai ricordi dei protagonisti. In questo senso credo che
nessuno degli studenti di allora avrebbe potuto riconoscersi nelle considerazioni
di Bobbio sulla dimensione inclusiva della democrazia: «la democrazia
è inclusiva in quanto tende a far entrare nella propria area gli
'altri' che stanno fuori per allargare anche a loro i propri benefici...
il processo di democratizzazione, dal secolo scorso a oggi, è stato
un processo graduale di inclusione di individui che prima erano esclusi...
Una democrazia non può essere esclusiva senza rinunciare alla propria
essenza di società aperta». Alla democrazia si guardava invece
come a una finzione giuridica, una «maschera» indossata per
l'occasione da uno Stato che voleva a tutti i costi celare il proprio volto
autoritario e liberticida. Eppure se un segno distintivo è possibile
riconoscere al movimento nel suo complesso (che si trova intatto a Napoli
come a Torino), è proprio la sua spinta inclusiva, la sua ferma
determinazione a lottare contro le separatezze, i compartimenti stagni
che frammentavano la società borghese, le riserve indiane in cui
agli studenti non era possibile incontrare se non altri studenti, agli
operai altri operai, e così via. (...)
Per un breve, intenso periodo Napoli non è più la stessa.
Gli studenti pendolari ritornavano a casa non più per passare il
week end ma per parlare delle loro lotte. E il rapporto centro-periferia
si rimodellò seguendo le rotte della mobilitazione, con la protesta
che dall'Università rimbalzava sui licei, sulle medie, sugli istituti
professionali. Non solo a Salerno, ma nei paesi abbarbicati sull'osso del
Mezzogiorno, il '68 arrivò attraverso il pendolarismo degli studenti.
Fu così tra Napoli e il resto del Sud, ma sopratutto fu così
anche tra il Nord e il Sud. Alla fine, quando la rissa delle memorie contrapposte
si placherà, bisognerà pur parlare dei «ragazzi che
andarono al Sud». Arriverà pure il momento di ricostruire
quelle scelte generose e coraggiose che coinvolsero non solo gli «studenti
fuorisede» ma anche quelli che partirono per andare giù a
«fare lavoro politico», come si diceva allora, ma in realtà
contribuendo a rimescolare differenze e separatezze, avvicinando il Sud
al Nord nella concretezza delle loro esperienze quotidiane, nella loro
disponibilità a vivere la vita degli altri, in luoghi sconosciuti
alla geografia del turismo ma divenuti allora importanti nella mappa dei
conflitti sociali (Gela, Taranto, Reggio Calabria...).
(...) A Napoli, come nel resto d'Italia, quei giorni erano destinati
a finire. Ci misero molto, molto più che negli altri paesi europei,
consegnando alla storia un '68 italiano più lungo degli altri. Però
finirono. Erano serviti a qualcosa? Nel libro di Carmen Pellegrino è
citato un dato su cui vale la pena riflettere. Nel popolare quartiere di
San Lorenzo, al referendum monarchia/repubblica del 2 giugno 1946 la repubblica
strappò un misero 16,8%. I consensi straripanti alla monarchia riproponevano
un blocco sociale fondato sull'antica promiscuità dei vicoli in
cui si affollavano nobili e plebei, insieme avviluppati nelle reti della
clientela e della protezione camorristica. Nel 1974, al referendum sul
divorzio, il fronte divorzista totalizzò il 56,4%. A San Lorenzo,
a Napoli e in tutta Italia fu il risultato più significativo ottenuto
dai fermenti innovativi che avevano investito il sistema politico italiano
in quegli anni. Poi quei fermenti, man mano che il vento del '68 affievoliva
il suo soffio, si stemperarono precipitando in un presente in cui Napoli
oggi celebra in Scampia il ripristino delle separatezze e delle chiusure.
(...) Non ci sono gli strumenti di «inclusione» con cui lo
Stato allarga la sfera della cittadinanza, non ci sono le scuole. Gli scugnizzi
che manifestavano per il Vietnam ora pascolano tutto il giorno intorno
agli adulti spiandone le mosse per imparare il mestiere, per prepararsi
a diventare ggente 'e miezz'a via. Il '68 è finito davvero.