Indice
1. Che cos'è un movimento globale
Prima e dopo Seattle. – Una protesta non prevista. – Le risorse per
una protesta globale. - Movimento sociale globale: una definizione.
2. La globalizzazione dei diritti: cosa vogliono i new global
Un «movimento di movimenti»? – New global contro il neoliberismo…
- …per i vecchi diritti... – …per nuove libertà… - …in nome della
solidarietà … - dal Sud del mondo… - per la pace… - e per
la democrazia. – Un movimento o più movimenti?
3. Mediatico e non violento? I repertori della protesta
Il lobbying. – Controvertici. – Campagne e boicottaggi. – L'azione
diretta tra non violenza e disobbedienza civile. – Violenza e black bloc.
– Il repertorio della protesta: una conclusione.
4. Tra nodi e reti
Soggetti in rete. – Reti di reti. - Una sfera pubblica virtuale? –
I forum e il sapere. – La politica istituzionale e l'altra politica. –
Gli esperimenti di democrazia partecipativa. – Politica, antipolitica,
altra politica.
Conclusione. Un movimento new global?
Capitolo 1
Cosa è un movimento “globale”
30 novembre 1999. A Seattle, città americana divenuta, grazie
a Microsoft, simbolo della New Economy, circa cinquantamila persone protestano
contro la terza conferenza dell’OMC, Organizzazione Mondiale per il Commercio
(World Trade Organization, WTO) convocata per avviare il Millennium Round,
un nuovo ciclo di negoziati per una ulteriore liberalizzazione dei mercati,
in particolare su investimenti e servizi pubblici. La protesta a Seattle
era stata decisa nel 1999 a Ginevra da un coordinamento di organizzazioni
di varia provenienza, che si era già mobilitato (con successo) per
impedire la firma del Multilateral Agreement on Investment (MAI), accusato
di ridurre, in nome edl libero commercio, la capacità degli stati
di intervenire su temi sociali e ambientali. Le manifestazioni contro il
Millennium Round—precedute da assemblee e iniziative di informazione in
tutto il mondo—sono state indette da 1387 organizzazioni non governative,
sindacati, ambientalisti e chiese di varie convinzioni. Tra gli slogan
della manifestazione, "the world is not for sale", “No globalization without
participation”; “we are citizens, not only consumers”; “WTO=Capitalism
without Conscience”; “Trade: clean, green and fair”.
Già la mattina del primo giorno, una serie di sit-ins, coordinati
dal Direct Action Network, impedisce alla maggior parte dei 3.000 delegati
di 135 paesi di raggiungere il luogo dove si doveva tenere la cerimonia
inaugurale. Organizzati in “gruppi di affinità”, autonomi ma in
collegamento tra loro, circa 10.000 manifestanti si siedono infatti per
terra e si incatenano insieme, utilizzando tecniche di così detto
“lockdown” e “tripodi” per rendere più difficile la rimozione dei
blocchi. Alla polizia, intervenuta per sgombrare le strade di accesso al
vertice, i dimostranti non oppongono resistenza, applicando le tattiche
apprese durante corsi di educazione alla nonviolenza. Nelle strade di Seattle,
tra bande e gruppi teatrali, gli attivisti di Greenpeace si presentano
con giganteschi preservativi con scritto “Practice Safe Trade”, mentre
contadini francesi distribuiscono circa 250 chili di Roquefort, formaggio
sottoposto a alti dazi in USA come ritorsione ai vincoli introdotti dall’Unione
Europea (UE) ai prodotti alimentari trattati con ormoni. Jubileum 2000,
una coalizione di gruppi (tra cui molte organizzazioni religiose) per l’abolizione
del debito estero dei paesi più poveri, organizza una catena umana.
Una grossa manifestazione è convocata dal sindacato americano AFL-CIO
(American Federation of Labor—Congress of Industrial Organization), che
mobilita oltre ventimila lavoratori, in particolare del porto e dei servizi
pubblici, chiedendo una estesione globale dei diritti dei lavoratori. Organizzazioni
degli agricoltori insieme ad associazioni di consumatori ed ecologisti
chiedono, in nome del principio di precauzione, l’esclusione dei prodotti
alimentari dagli accordi di liberalizzazione.
Travestiti da tartarughe—specie in pericolo—240 dimostranti si aggirano
tra la folla con il compito di evitare violenze; come spiega l’autore dei
colorati costumi, Ben White, attivista del Sea Turtle Restoration Project,
“Da tempo immemorabile le tartarughe sono il simbolo della saggezza: non
fanno mai battaglia. Non usano violenza. Noi le rappresentiamo e dobbiamo
essere la loro voce.... Chi si comporta in modo aggressivo, anche solo
verbalmente, deve subito togliersi il costume... non siamo solo nonviolenti,
siamo anche contro la violenza. Laddove le tartarughe incontrano comportamenti
violenti, cercano di riportare la pace. Ai margini delle proteste, tuttavia,
piccoli gruppi intervengono in modo violento, rompendo le vetrine di alcuni
negozi di multinazionali--tra cui Nike, Levi’s e McDonald--già sottoposte
a campagne di boicottaggio per l’utilizzo di lavoro infantile o di prodotti
geneticamente modificati. E' comunque prima ancora delle azioni violente
degli anarchici che la polizia interviene in forze contro il blocco nonviolento,
con gas lacrimogeni e spray al pepe. Dopo la proclamazione del coprifuoco,
blocchi e cariche si ripeteranno, di giorno e di notte, anche nei tre giorni
successivi, fino alla conclusione, senza accordo, del vertice intergovernativo.
Tra i 600 arrestati, attivisti della organizzazione nongovernativa Global
Exchange che, utilizzando i loro permessi, erano entrati nei locali della
cerimonia inaugurale e, dal podio, avevano indirizzato un discorso critico
nei confronti del WTO ai pochi delegati presenti. Mentre le autorità
dichiarano il coprifuoco, una petizione lanciata via Internet per protestare
contro la scarsa trasparenza dei negoziati raccoglie in 24 ore 1700 adesioni
di svariati gruppi, molti dei quali del Sud del mondo. Il capo del dipartimento
di polizia di Seattle si dimetterà la settimana successiva.
Sulla battaglia di Seattle investigheranno quattro commissioni di inchiesta,
condotte dalla American Civil Liberty Union, dal Seattle National Lawyers
Guild WTO Legal Group, dal Committee for Local Government Accountability
e dal WTO Accountanability Review Committee, le prime tre associazioni
per i diritti civili, la quarta organo semiufficiale del governo
locale di Seattle.
1.1. Prima e dopo Seattle
Seattle è stato definito momento di svolta, ma anche punto culminante
di un processo di integrazione di gruppi e organizzazioni attivi in varie
parti del mondo: di operai dei paesi ricchi o poveri e contadini, consumatori
ed ecologisti, chiese e femministe, pacifisti e associazioni per i diritti
umani. Del resto già prima di Seattle vi sono state mobilitazioni
di gruppi eterogenei e inizialmente poco connesse, indirizzate soprattutto
contro organizzazioni internazionali.
Il WTO è stato contestato dagli ambientalisti a seguito delle
condanne per violazione degli accordi di liberalizzazione dei mercati da
esso comminate agli Stati Uniti, per il divieto di importare gamberetti
pescati con reti prive del Turtle Excluder Divide (che permette alle tartarughe
marine di liberarsi); al Giappone per il divieto di importare prodotti
trattati con pesticidi; all’Europa, per le leggi contro l’importazione
di carne di animali alimentati con ormoni; al Canada, per un bando sulla
benzina con aggiunta di metanolo. I contadini indiani avevano già
nel 1990 manifestato contro i brevetti su semenze e organismi geneticamente
modificati, appoggiati dal WTO. Le organizzazioni a difesa dei consumatori
si erano mobilitate contro gli accordi sovranazionali (NAFTA, nel Nord
America, e, ancora, GATT e WTO) accusati di ridurre, in nome del libero
commercio, gli standard di protezione dei cittadini. Alle conferenza dell’ONU
sui diritti delle donne si erano incontrate le organizzazioni femministe
del Nord e del Sud del mondo. Le organizzazioni nongovernative per lo sviluppo
hanno fatto pressioni per un aumento degli aiuti al terzo mondo, fino a
rivendicare “la riparazione dei debiti storici, sociali ed ecologici” imposti
dal Nord al Sud. Coinvolgendo soprattutto, ma non solo, gruppi religiosi,
la campagna Jubileum 2000 ha chiesto la cancellazione del debito dei paesi
più poveri. Particolarmente forte negli Stati Uniti, con l’appoggio
tra l’altro delle comunità afro-americane, era stata la denuncia
delle condizioni di estremo sfruttamento, soprattutto di donne e bambini,
nei così detti sweatshops nel Sud del mondo—mentre i sindacati hanno
chiesto l’introduzione nei trattati internazionali dei diritti dei lavoratori.
A queste domande si sono sommate quelle delle organizzazioni pacifiste
e per i diritti umani per la libertà di movimento per i migranti,
ma anche contro le mine anti-uomo.
Tema comune di queste campagne è la critica ad una sorta di
degenerazione dell’economia di mercato, conseguente alla egemonia acquisita,
a partire dagli anni ottanta, dalle dottrine economiche neoliberiste. In
particolare, in nome del libero mercato si sarebbe rinunciato alla difesa
quei diritti sociali che erano entrati, almeno nel Nord del mondo, nella
definizione stessa dei diritti di cittadinanza. Inoltre, mentre molti economisti
ancora enumeravano i vantaggi della eliminazione delle barriere protezioniste
per il Sud del mondo, “controesperti”, mobilitati nella protesta, hanno
sostenuto invece effetti complessivamente negativi anche nei paesi in via
di sviluppo. Le proteste si sono rivolte quindi contro quello che una esperta
di relazioni internazionali, Susan Strange, ha descritto come un corporation
empire, composto da una burocrazia imperiale con a capo dipartimento del
tesoro USA e multinazionali, che controlla la leadership delle organizzazioni
finanziarie internazionali--“L’autorità in quest’Impero non territoriale
è esercitata direttamente sulle persone–non sulla terra. E’ esercitato
sui banchieri e sugli esecutivi delle corporations, sui risparmiatori e
investitori, sui giornalisti e sui professori. E’ anche esercitata naturalmente
sui vertici dei governi alleati e associati” (Strange 1989, 170). Elemento
comune alle varie campagne è, inoltre, il considerare la liberalizzazione
dei mercati non come effetto “naturale” dello sviluppo tecnologico, ma
piuttosto come strategia, vantaggiosa per le imprese multinazionali, adottata
e difesa dalle istituzioni finanziarie internazionali (Banca Mondiale,
Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione mondiale per il commercio)
e dai governi dei paesi più potenti (in particolare, attraverso
G7 e G8).
Da questo punto di vista, le organizzazioni della protesta hanno spesso
rifiutato la definizione di noglobal, preferendovi quella di new global:
esse sostengono infatti di non opporsi alla globalizzazione né come
intensificazione degli scambi culturali, né come sviluppo di strutture
di governo sovranazionali, ma di contestare piuttosto le specifiche scelte
neoliberiste di queste istituzioni, oltre che dei governi nazionali, chiedendo
una diversa globalizzazione. Soprattutto dopo Seattle, la critica alle
forme neoliberiste di globalizzazione e le domande di “un’altra globalizzazione”
entreranno nel dibattito pubblico—come si legge in un editoriale nel settimanale
americano “Newsweek” (13/12/1999, 28): “Fino ad ora, era facile affermare
che chiunque era opposto al commercio era per definizione un protezionista,
contento di nascondersi dietro le pareti dello stato-nazione. Questa semplice
equazione non tiene più; una delle più importanti lezioni
di Seattle è che ci sono ora due visioni della globalizzazione che
vengono proposte: una guidata dal commercio, l’altra dall’attivismo sociale”.
Dopo Seattle, sempre più frequenti saranno anzi i riferimenti
ad un movimento globale. Anche se la maggior parte dei dimostranti a Seattle
sono Nord Americani (secondo alcune stime, 20/25mila sono venuti dallo
stesso stato di Washington; 15/20.000 da altre regioni USA; 3/5.000 dal
Canada), il carattere internazionale delle manifestazioni è confermato,
non da ultimo, dalle iniziative organizzate parallelamente in oltre cento
città nel Nord e nel Sud del mondo per quello che sarà definito
come Global Action Day. La protesta sul tema della globalizzazione è
inoltre continuata, in decine di paesi, dopo la contestazione del WTO,
acquistando sempre più visibilità. Da Seattle in poi, ogni
vertice internazionale di qualche rilevanza è stato accompagnato
da controvertici e manifestazioni di protesta, riportate dalla stampa,
spesso con più enfasi del programma ufficiale degli incontri: tra
le altre, nel 2000 al World Economic Forum di Davos in gennaio; contro
la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale (FMI) a Washington
in aprile; al vertice dell’ONU sulla povertà a Ginevra in giugno;
alla riunione di FMI e Banca mondiale a Praga in settembre, al vertice
della UE a Nizza in dicembre. Né le contestazioni scemeranno l’anno
successivo quando proteste saranno registrate in febbraio, ancora a Davos,
al World Economic Forum; in aprile a Quebec City contro il Free Trade Area
of the Americas; a Goeteborg al summit della UE in giugno e in luglio
a quello del G8 a Genova. Si dirà che, a partire da Seattle, la
contestazione ha, se non altro, l’immediato succeso di fare uscire i negoziati
internazionali dall’ombra degli accordi discreti tra diplomatici e tecnocrati,
dando visibilità mediatica.
Accanto ai controvertici, incontri su un’altra globalizzazione possibile
si terranno ai Forum Sociali Mondiali di Porto Alegre, con una partecipazione
crescente dai 16.400 iscritti del primo incontro, nel gennaio 2001, ai
52.000 del 2002, fino ai 100.000 del 2003. In letteralmente migliaia di
seminari e assemblee si elaboreranno proposte, più o meno realistiche
e originali, per una “globalizzazione dal basso” e si discuterà
di politica e politiche alternative, alcune di queste già in corso
di sperimentazione (tra l’altro del “bilancio partecipativo”, processo
di partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche, da tempo sperimentato
proprio a Porto Alegre). Soprattutto a partire dal 2002, l’esperienza dei
Forum Sociali come luoghi di incontro e di dibattito si estenderà
a livello locale, e anche regionale. In particolare, a Firenze si svolgerà,
nell’autunno di quell’anno, il primo Forum Sociale Europeo, con tre giorni
di seminari, ai quali parteciperanno 60 000 iscritti. Dibattiti su modelli
di sviluppo alternativi—di costruzione di “società sostenibili”--si
svolgeranno a Bamako per il Forum Sociale Africano, Beirut per il Forum
Sociale Mediorientale, Belem per quello Panamazzonico, Hyderabad, in India,
per il Forum Sociale Asiatico..
1.2. Una protesta non prevista
L’emergere di una protesta globale non era era stato previsto, né
da studiosi, né da commentatori. Inizialmente, anzi, molte analisi
sulla globalizzazione tendevano verso la pessimistica previsione di una
fine dei movimenti. Dei fenomeni di globalizzazione erano stati messi infatti
in evidenza soprattutto i vincoli da essi introdotti allo sviluppo di azioni
collettive.
Le riflessioni sulla “post-modernità” avevano sottolineato soprattutto
processi di individualizzazione, che avrebbero isolato l’individuo dalla
comunità, accentuando l’egoismo e quindi la difficoltà di
agire insieme ad altri. Nell’analisi di Zygmunt Bauman, ad esempio, nelle
società contemporanee la crisi delle reti tradizionali di sicurezza
produce una interruzione di solidarietà, con una crescita di ansie
esistenziali che ostacolano l’azione collettiva: “In tutte le società,
la solidarietà, o piuttosto la fitta rete di solidarietà,
grandi e piccole, sovrapposte o incrociate) è servita da protezione
e da garanzia di certezza (per quanto imperfette), producendo fiducia,
sicurezza di sé e coraggio indispensabili all’esercizio della libertà
e alla sperimentazione. La vittima principale della teoria e della pratica
neoliberali è stata proprio quella solidarietà” (Bauman 1999,
37). Ne deriva la convinzione che “gli individui non possano far molto,
singolarmente o collettivamente, per contrastare, e tanto meno sconfiggere,
le minacce alla sicurezza della loro condizione sociale o alla certezza
delle loro prospettive future”. Tentativi di localizzare le minacce, sfociano
“nella rassegnazione o nella disperazione, cioè in un atteggiamento
del tipo ‘Non c’è niente che io possa fare’”(ibidem, 55). Dopo il
crollo del muro di Berlino, in un sistema internazionale unipolare, non
ci sarebbe stato posto per grandi utopie alternative a quella del libero
mercato. La protesta si sarebbe quindi frammentata in tante campagne “single-issue”
e di corto respiro. Negli anni novanta, infatti, si è spesso parlato
di una crisi dei movimenti sociali come parte di una più ampia crisi
della politica dopo la fine della Guerra Fredda.
Le possibilità di azione collettiva sarebbero state anche ridotte
dal trasferimento della produzione nei paesi dove i salari sono più
bassi e minore la protezione dei lavoratori e dalla necessità, per
mantenere la competitività, di attrarre i capitali fluttuanti, attraverso
la flessibilizzazione del mercato del lavoro. Se, dagli anni sessanta,
si sono susseguiti studi e ricerche che indicano un indebolimento della
coscienza operaia, la globalizzazione stessa, con la delocalizzazione della
produzione e la conseguente disoccupazione, indebolirebbe strutturalmente
la forza-lavoro, portando infatti ad una costante caduta dei tassi di sindacalizzazione.
La flessibilizzazione e i lavori “atipici” sono legittimati da una aspettativa
di successo individuale, temporaneamente sostenuta dalla dinamicità
di alcune aree di nuova economia. Lo scontento dei disoccupati è
sempre difficile da organizzare in azioni di protesta collettiva. In generale,
i gruppi socialmente più deboli—gli “sconfitti” della globalizzazione—hanno
perso protezione politica quando, per evitare fughe di capitali, anche
partiti (e governi) di centro-sinistra hanno accettato politiche neoliberiste
di deregolamentazione e riduzione della spesa sociale. La globalizzazione
economica avrebbe, da questo punto di vista, non solo messo in discussione
il ruolo dello stato-nazione, considerato come sempre meno capace di governare
entro i suoi stessi confini, ma anche, più in generale, le capacità
della politica di intervenire sull’economia e regolare i conflitti sociali.
In questa immagine, lo spazio per la politica si sarebbe ristretto alla
capacità di fornire incentivi per attrarre il capitale: il capitalismo
globale avrebbe rotto l’alleanza storicamente consolidata tra capitalismo,
stato del benessere e democrazia.
Le capacità di mobilitazione dei movimenti sociali, attori tipicamente
nazionali, si sarebbero infine ridotte a fronte di una internazionalizzazione
dell’autorità politica—con una crescita delle organizzazioni intergovernative
da 37 nel 1909 (anno di un primo censimento) a 1592 nel 1997. Insieme al
loro potere, è cresciuto anche il dibattito sul “deficit di democrazia”
che caratterizza questi organismi, in massima parte non elettivi e poco
trasparenti nel modo di funzionare, rendendoli poco sensibili alla protesta
dei cittadini. Le organizzazioni intergovernative infatti riuniscono prevalentemente
governanti che, anche quando sono democraticamente eletti, raramente lo
sono su programmi relativi alle decisioni da prendere a livello internazionale—con
una scarsa trasparenza delle loro scelte. Con l’eccezione della UE (dove
comunque i poteri del parlamento sono ancora limitati), esse non prevedono
assemblee rappresentative elettive, dove anche le opposizioni siano presenti.
In organizzazioni come la Banca Mondiale o il FMI, il peso decisionale
dei diversi paesi dipende dai loro contributi economici. In molti casi—come
quelli dei molto contestati vertici delle nazioni più industrializzate
G7 e G8—le organizzazioni intergovernative non hanno neanche formali statuti.
La mancanza di “accountabily” democratica di queste istituzioni è
stata vista come causa di ulteriore “disempowerment” dei cittadini, governati
da attori non eletti e spesso poco visibili.
1.3. Le risorse per una protesta globale
Soprattutto, ma non solo, dopo Seattle, è stato comunque sottolineato
che, se la globalizzazione riduce alcuni spazi per l’azione collettiva,
essa crea però anche nuove opportunità. Innanzitutto, la
globalizzazione culturale, con la conseguente crescita dell’attenzione
a temi e problemi spazialmente lontani e accelerazione della comunicazione,
permette la costruzione di una sfera pubblica transnazionale, definita
come arena in cui attori di diversi paesi elaborano discorsi e pratiche
che vengono diffusi al di là delle barriere nazionali”. Le nuove
tecnologie, soprattutto Internet, hanno ridotto enormemente i costi della
comunicazione, permettendo a idee e progetti di viaggiare rapidamente su
scala globale. Sia nel Sud che nel Nord del mondo, i già menzionati
processi culturali di individualizzazione avrebbero aumentato, almeno in
alcuni gruppi, sia la consapevolezza dei propri diritti, che la fiducia
nelle proprie capacità di intervenire sul proprio destino. I valori
di democrazia, propagati non da ultimo dalle stesse organizzazioni governative
internazionali, sarebbero stati presi sul serio dai cittadini, con crescenti
richieste di partecipazione.
Anche la convinzione—egemonica negli anni novanta--che la mobilità
del capitale, favorita da fattori tecnologici, eroda le capacità
della politica di governare i mercati, è stata messa in discussione.
Le manifestazioni sui vertici globali, affermando che “un altro mondo è
possibile”, suggeriscono la non-ineluttabilità delle scelte di riduzione
degli interventi della politica nei mercati e della pressione fiscale,
con conseguente smantellamento dello Stato sociale. Non solo secondo chi
protesta, le misure di liberalizzazione degli scambi e, in particolare,
dei mercati finanziari sono state volute e realizzate da specifici attori
politici sia all’interno dei diversi stati (e soprattutto di quello più
potente, gli Stati Uniti d’America) che a livello internazionale, prime
fra tutte le istituzioni finanziarie internazionali: Banca Mondiale, FMI
e WTO. Soprattutto nella seconda metà negli anni novanta, le crisi
finanziarie nei paesi dell’Est Asiatico (normalmente portati ad esempio
del successo delle politiche neoliberiste) e, successivamente, dell’Argentina
(anch’essa vincolata dai prestiti del FMI a realizzare privatizzazioni
e deregulation), hanno inoltre reso visibile l’insoddisfazione verso la
dottrina del « libero mercato »--se non altro accentuando la
consapevolezza della necessità di creare istituzioni globali capaci
di governare l’economia, manifestamente incapace di autogovernarsi. Lo
spostamento delle decisioni a livello sovranazionale ha, a sua volta, favorito
lo sviluppo di Organizzazioni non governative (ONG, o NGOs, nell’acronimo
inglese) internazionali che sono infatti cresciute in numero--da 176 nel
1909 a 15.965 nel 1997; da 832 nel 1951 a 10.000 nel 1999 secondo altre
stime----membri e risorse materiali disponibili.
Da Seattle in poi, è così divenuto evidente che i diversi
fenomeni combinati insieme, con un qualche azzardo, nella definizione di
globalizzazione, producono conflitti nuovi, creando anche una complessa
struttura di opportunità e vincoli. Come è stato confermato
a Praga, Porto Alegre, Goteborg, Genova, i vari attori impegnati nelle
proteste fin qui menzionate si sono sempre più frequentemente “messi
in rete”, dando vita a mobilitazioni comuni. Un interrogativo è
tuttavia emerso, sia fra gli attivisti che, soprattutto, fra commentatori
e studiosi: nelle parole di tre intellettuali critici della globalizzazione
neoliberista (Brecher, Costello e Smith 2000, 43), la convergenza di attivisti
per proteste comuni, “darà vita ad un movimento globale o siamo
ancora alla semplice collezione di movimenti ancora separati?" Se certamente
ci troviamo di fronte a nuove ondate di mobilitazione sia nel Sud che nel
Nord del mondo, si può davvero parlare di un movimento sociale globale?
1.4. Movimento sociale globale: una definizione
Per cercare di rispondere a questa domanda, collegata anche alle aspettative
di continuità (o, viceversa, natura effimera) delle mobilitazioni,
si deve partire da una definizione di movimento sociale globale. Cosa sono,
innanzitutto, i movimenti sociali? Il concetto di movimento sociale si
riferisce alla presenza di reti di interazioni prevalentemente informali,
basate su credenze condivise e solidarietà, che si mobilitano su
tematiche conflittuali attraverso un uso frequente di varie forme di protesta.
Movimenti sociali globali dovrebbero dunque essere attori organizzati attorno
a reticoli estesi al di là dello stato nazionale, dotati di identità
globali, che definiscono le loro cause come sovranazionali, organizzando
campagne di proteste che coinvolgono più stati. La questione della
esistenza di un movimento sociale globale deve essere dunque discussa guardando,
come faremo nel corso di questo volume, a tutti e tre le condizioni menzionate:
identità e valori comuni (capitolo 2), repertori d’azione nonconvenzionali
(capitolo 3), reticoli organizzativi (capitolo 4).
In primo luogo, caratteristica fondante di un movimento sociale è
l'elaborazione di una comune interpretazione della realtà, capace
di nutrire solidarietà e identificazioni collettive. Uscendo dalla
routine, i movimenti elaborano nuove visioni del mondo e sistemi di valori
alternativi rispetto a quelli dominanti. I valori emergenti sono, poi,
alla base della definizione dei conflitti attorno ai quali gli attori si
mobilitano. In particolare, a partire dagli anni settanta si è cominciato
a parlare, contrastandoli con il “vecchio” movimento operaio considerato
ormai istituzionalizzato, di “nuovi movimenti” come attori di nuovi conflitti.
Se le analisi marxiste avevano tradizionalmente sostenuto la centralità
della lotta tra capitale e lavoro, le trasformazioni del secondo dopoguerra
hanno invece accresciuto la rilevanza di criteri di stratificazione sociale--come
il genere o la generazione--non fondati sulla collocazione di classe. Le
società contemporanee vengono descritte come sistemi altamente differenziati,
che investono risorse crescenti per fare degli individui centri autonomi
d'azione, ma richiedono anche un'integrazione crescente, estendendo il
controllo alle motivazioni stesse dell'agire umano. In esse, nuovi movimenti
sociali tenterebbero di opporsi alla penetrazione dello stato e del mercato
nella vita quotidiana, rivendicando il diritto di realizzare la propria
vita privata e affettiva contro la manipolazione onnicomprensiva del sistema.
Differenza di genere, difesa dell’ambiente naturale, convivenza tra diverse
culture sono alcuni dei temi attorno ai quali si sono costituiti, di recente,
movimenti sociali. La creazione di un movimento globale comporta l’elaborazione
di un discorso che individui ad un livello sovranazionale sia l’identità
comune—il noi—che il bersaglio della protesta—l’altro. Come vedremo, le
opinioni degli osservatori divergono però tra chi intravvede l’emergere
di identità globali e chi invece parla di un adattamento, quasi
opportunistico, di attori ancora prevalentemente nazionali ad un governo
territorialmente multilivello; tra chi considera le mobilitazioni sulla
globalizzazione come momenti di resistenza residuati dal passato e chi
invece come il movimento del futuro. Più in generale, la eterogeneità
sociale, generazionale, ideologica, evidente già a Seattle, è
secondo alcuni un nuovo elemento di forza della mobilitazione, capace di
mettere in rete identità differenti, secondo altri un segno di frammentazione,
indizio di debolezza.
In generale, i movimenti sociali si caratterizzano, inoltre, per adottare
forme “inusuali” di partecipazione politica: molti studiosi individuano
infatti la distinzione fondamentale tra i movimenti e altri attori politici
nell'utilizzo da parte dei primi della protesta come modo di fare pressione
sulle istituzioni. Chi protesta si rivolge, attraverso una forma non convenzionale
di azione che interrompe la routine quotidiana, alla opinione pubblica,
prima ancora che ai rappresentanti eletti o alla burocrazia pubblica. Se
con la creazione dello stato nazionale, le azioni di protesta si sono concentrate
su quel livello, ci si può aspettare che la globalizzazione produca
protesta organizzata a livello transnazionale contro attori internazionali.
Anche qui, comunque, i risultati delle ricerche empiriche sono ambigui.
Innanzitutto, le proteste riportate sulla stampa nazionale continuano a
concentrarsi sul livello statale o substatale di governo—come è
stato confermato per movimenti diversi come quello ecologista o quello
antirazzista. Inoltre, delle organizzazioni attive a livello transnazionale,
si è spesso sottolineato l’azione convenzionale, più orientata
al lobbying discreto che alla protesta di piazza. E’ da valutare, tuttavia,
se mobilitazioni come quella di Seattle abbiano in effetti segnato un salto
qualitativo nell’azione collettiva, con una diffusione delle proteste transnazionali—tra
l’altro, con una sempre maggiore partecipazione in esse di quelle organizzazioni
non-governative, spesso descritte come sempre più istituzionalizzate,
se non “normalizzate”.
Infine, i movimenti sociali sono reti di relazioni informali tra una
pluralità di individui e gruppi, più o meno strutturati dal
punto di vista organizzativo. Se i partiti o i gruppi di pressione hanno
confini organizzativi abbastanza precisi, essendo l’appartenenza normalmente
sancita da una tessera di iscrizione ad una specifica organizzazione, i
movimenti sociali sono invece composti da reticoli dispersi e debolmente
connessi di individui che si sentono parte di uno sforzo collettivo. Sebbene
esistano organizzazioni che fanno riferimento ai movimenti, i movimenti
non sono organizzazioni, ma piuttosto reti di relazioni tra attori diversi,
che spesso includono anche organizzazioni dotate di una struttura formale.
Un tratto peculiare dei movimenti è infatti il poterne far parte,
sentendosi quindi coinvolti in un’azione collettiva, senza dover automaticamente
aderire ad una specifica organizzazione. Un movimento globale dovrebbe,
dunque, coinvolgere reticoli organizzativi di diversi paesi. In effetti,
gli studiosi di scienze sociali hanno utilizzato sempre più il termine
“transnazionale” per sottolineare la presenza di attori sovranazionali
diversi dai governi nazionali, considerati tradizionalmente come gli unici
soggetti rilevanti nelle relazioni internazionali. La globalizzazione ha
accentuato il potere di alcuni di questi attori (come le imprese multinazionali),
ma ha anche facilitato l’emergere una “società civile globale”—o
di una “politica civile mondiale”. Il numero della organizzazioni transnazionali
collegate a movimenti sociali sarebbe cresciuto, secondo stime recenti,
da 110 nel 1963 a 631 nel 1993, con una dinamica particolarmente vivace
nei paesi del Sud. Se non vi sono dubbi sulla maggiore influenza di queste
organizzazioni, i pareri sono invece divergenti sulla misura in cui questi
attori sono stati capaci di „mettersi in rete“ in modo più che occasionale.
Ad esempio, se sono state sottolineate crescenti interazioni tra
cittadini dei diversi paesi, la stabilità dei reticoli sovranazionali
è stata comunque messa in discussione. Così, una struttura
organizzativa estremamente flessibile, con manifestazioni convocate via
internet da coordinamenti ad-hoc, viene vista da alcuni come scelta vincente
di adattamento alla società globale, da altri come segno di una
una incapacità di dotarsi di strutture durature.
In quanto segue affronteremo questi temi, utilizzando sia i documenti
delle organizzazioni critiche della globalizzazione che i risultati delle
prime ricerche condotte, in Italia e all’estero, sulle proteste a Seattle
e dopo Seattle. Partiremo, nel prossimo capitolo, dall’analisi delle identità
emergenti, sottolineando in particolare la compresenza nelle mobilitazioni
di diversi attori accomunati non da un rifiuto della globalizzazione, ma
da una richiesta di una globalizzazione più equa e partecipata “dal
basso”--non, quindi noglobal ma piuttosto new global. Come vedremo nel
capitolo 3, la contestazione della globalizzazione assume forme diverse,
che vanno dal lobbying alla disobbedienza civile, con una critica crescente
all’uso della violenza contro le cose, che pure aveva contribuito, a Seattle,
a rendere visibile la protesta. Infine, come osserveremo nel capitolo 4,
ad identità composite corrispondono modelli organizzativi reticolari,
con una serie di coordinamenti a diversi livelli territoriali, resi possibili
da un uso intenso di Internet. Le prospettive del movimento new global
verranno discusse nel capitolo conclusivo.