Sette parole chiave per costruire un linguaggio comune
di Luca Casarini
Questo libro è il risultato di una riflessione che il Laboratorio
Teorico dei Disobbedienti del Nord Est ha proposto e sta sviluppando insieme
e all’interno del Movimento dei disobbedienti, e che ci sembra opportuno
proporre a un’attenzione più generale. Lo scopo non è solamente
quello di attivare un lavoro collettivo di ricerca – che certamente tutti
noi stiamo facendo quotidianamente dentro le pratiche di quello che Naomi
Klein chiama ‘movimento dei movimenti’ – ma anche quello di ridare un senso
al linguaggio della politica in relazione alla dimensione della prassi.
Perciò, la sfida, e la scommessa, che lanciamo attraverso queste
pagine è quella di elaborare un linguaggio nuovo e comune, una narrazione
di quell’insieme di esperienze, di esemplarità e di pratiche che
hanno costellato questi ultimi anni di conflitti. Ciò a partire
dalla nostra profonda internità al movimento per la democrazia e
per la giustizia globale.
Il Movimento dei disobbedienti non è solo la costruzione concreta
di percorsi materiali di lotta all’interno delle dinamiche e delle prospettive
che si sono aperte da Seattle in poi, o – come alcuni giustamente dicono
– dal 1 gennaio 1994 e dall’esperienza zapatista. I Disobbedienti sono
anche un modo – e una scelta concreta – di stare e agire come e da movimento
nel ‘movimento dei movimenti’. Dopo Genova e dopo l’11 settembre, in questa
nuova fase di ridislocazione e riarticolazione delle lotte sociali in Italia,
in Europa e sull’intero pianeta, crediamo che questa sia una scelta da
compiere fino in fondo. Essere come movimento nel ‘movimento dei movimenti’
significa riuscire a costruire una serie di sperimentazioni che diano luogo
a un pensiero e a un linguaggio comune capace di interpretare, anche su
un piano teorico dell’analisi e della ricerca, le trasformazioni che abbiamo
di fronte. Per questo motivo abbiamo scelto di aprire questo percorso a
partire da «sette parole chiave» e di costruire un primo momento
di riflessione a partire dalle esperienze di questi anni.
Si tratta di un percorso di alfabetizzazione che vive del e nel sapere
prodotto dai movimenti sociali di lotta di questi anni. Recuperare il loro
linguaggio, inteso come sapere e conoscenza, ma anche come agire comunicativo,
e cioè come un sapere che produce conoscenza ma anche trasformazione
della realtà, significa connettersi alla potenza dei movimenti –
che sempre, in termini innovativi, hanno messo in discussione l’egemonia
del pensiero unico, anche all’interno dei movimenti stessi. Riflettere
collettivamente sul nuovo linguaggio significa costruire una teoria e un
sapere che si formano dentro le nostre esperienze concrete del conflitto:
una teoria e un sapere delle esperienze concrete. Questo è un punto
importante: credo che oggi agire da movimento nel movimento significhi
riuscire a proporre un proprio quadro d’analisi che porti il suo contributo
alla riflessione sviluppatasi in questi anni e, recentemente, a Porto Alegre,
e arrivi a disegnare una possibilità di liberazione.
C’è un altro punto importante che si deve sottolineare. Noi
non crediamo che queste pagine si traducano in una linea politica. Questo
libro non è un manuale che spiega la linea politica della disobbedienza.
Quello che ci interessa è mettere in moto un meccanismo innovativo
anche nella produzione teorica e nel rapporto tra le esperienze concrete,
le pratiche di movimento e la produzione di inchieste. Questo meccanismo
innovativo ci deve portare ad abbandonare l’idea che ci sia una linea politica.
Gli stessi concetti che vengono discussi in questo libro non sono il frutto
di un ragionamento ma di molte esperienze. Sono il risultato di strade
e percorsi che si sono incontrati e reincontrati. Il nostro ‘camminare
domandando’, che sta dietro alla ricerca teorica, è quanto noi intendiamo
come militanza concreta nel movimento dei movimenti. Il ‘camminare domandando’,
cioè l’interrogarsi nel fare e il fare interrogandosi, che è
il metodo di procedere degli zapatisti, è anche il nostro metodo.
Per questo credo che sia giusto datare il nostro ingresso in un nuovo modo
di intendere l’agire politico e sociale, che è poi quello che stiamo
vivendo, al 1° gennaio 1994. A questo proposito, la scelta simbolica
di sottotitolare il seminario di Venezia, da cui è nato questo testo,
«Sette parole chiave per costruire un linguaggio comune», non
è casuale. Sette sono state le dichiarazioni della carovana zapatista
quando ha attraversato il Messico, sette le nostre dichiarazioni prima
di attraversare Genova. Per noi utilizzare questo elemento simbolico significa,
quindi, aprire e non chiudere un percorso.
Quando abbiamo organizzato il seminario di Venezia eravamo appena tornati
da Porto Alegre e dall’Argentina. A Porto Alegre abbiamo conosciuto due
diversi approcci a quell’enorme occasione di incontro tra le reti che quella
scadenza ha rappresentato. Il primo tipo – quello che abbiamo lasciato
ad altri – è l’approccio burocratico classico. Si traduce in costituzione
di maggioranze e minoranze, documenti prodotti da comitati promotori e
cose simili. È un modo di agire proprio del secolo scorso e della
vecchia Nuova Sinistra e non ci appartiene più. Il secondo approccio
– quello che i disobbedienti hanno avuto a Porto Alegre – è stato
quello di stare dentro l’orizzontalità delle reti e della comunicazione.
È un salto di paradigma, culturale e politico, perché significa
stare dentro alla maniera del ‘camminare domandando’, ma anche attraverso
un utilizzo creativo di questo tipo di occasione. L’incontro di Porto Alegre
ci è stato molto utile anche per capire che ci sono due grandi filoni
di ragionamento: uno è quello classico e resistenziale e l’altro,
che crediamo alternativo, è quello che ritiene che le trasformazioni
globali stiano formando tutto l’essere sociale e, quindi, anche la pratica
e l’azione politica concreta. Il ‘movimento dei movimenti’, già
nel suo nome, segna questo salto culturale e politico. Porto Alegre ci
ha poi condotto in Argentina dove abbiamo incontrato i pony express e abbiamo
discusso con loro su come avevano ricombinato il proprio essere all’interno
della rete metropolitana produttiva in forma antagonistica. È una
cosa di cui discutiamo spesso: in che modo, all’interno di quale dinamica,
mezzi di comunicazione diversi come le moto e le radio possono essere utilizzati
da un lavoratore della rete, da un lavoratore del terziario dentro una
metropoli come Buenos Aires (europea come tipologia) e come questi soggetti
e questi strumenti possono combinarsi con i piqueteros, i classici disoccupati,
i senza reddito esclusi che da anni sviluppano dinamiche conflittuali di
lotta come quella che abbiamo conosciuto alla fine del 2001 e nei primi
mesi del 2002. Come può combinarsi questo reticolo con le altre
reti e le altre lotte per il diritto ad esistere e decidere dei medici,
degli avvocati, dei lavoratori del terziario e degli studenti? Il fatto
di riuscire a definire ciò che di assolutamente nuovo si muove all’interno
di questo mondo significa leggere e utilizzare queste dinamiche in termini
di potenza. La richiesta costituente del movimento argentino, dell’assemblea
interbarriale del Parco centrale, dell’assemblea di barrio di Buenos Aires,
parla quel linguaggio comune che anche noi, in queste pagine e nelle nostre
lotte, cerchiamo di parlare. Nonostante la distanza che ci separa da un
paese e da un continente che ci sembra molto lontano per come è
fatto e per le contraddizioni che lo attraversano.
Sono concetti, ripetiamo, che non crediamo possano costituire la ‘linea
politica’ di un movimento. Ma certamente possono contribuire a costruire
un pensiero o una concatenazione di nessi che con le azioni formano un
linguaggio della politica. Perciò crediamo che queste parole chiave
possano essere l’inizio di un percorso promosso dal movimento dei disobbedienti,
ma aperto a tutti coloro che si sforzano di innovare il pensiero e la pratica
per costruire una nuova narrazione: la narrazione del tentativo di limitare,
o di sconfiggere, la sovranità dell’impero che mantiene questa antica
ingiustizia, in forme e dinamiche nuove. Questo era il senso del seminario
di Venezia e questo è, ci auguriamo, il significato di questo libro.