Andrea Colombo, "il manifesto", 10 gennaio 2014
Il film-tv di Graziano Diana, dedicato al commissario Calabresi, riscrive un periodo del nostro paese senza né storia né verità. Le bugie dello Stato, le montature contro gli anarchici, il buio che ancora avvolge la morte di Pinelli, scompaiono come in una foto sbianchettata.
La storia la scrivono i vincitori, e la torcono a proprio uso e piacimento.
Il fattaccio è noto, non c’è da sbigottire o fingere scandalizzata
sorpresa. Ai vinti, finché non sono afoni, spetta il compito, sovente
ingrato, di confutare e correggere e tentare di impedire che le versioni
addomesticate del passato s’impongano come senso comune per i posteri.
A volte gli riesce.
Gli anni spezzati, il brutto film-tv dedicato da Raiuno al commissario
Luigi Calabresi stupra la storia recente di questo Paese. Occorre segnalarlo
senza strilli, senza fingersene stupiti e, possibilmente, senza attaccarsi
a particolari in questo caso irrilevanti come «lo specifico filmico»
o lo scarso spessore psicologico dei personaggi. Non è di Re Lear
che qui si tratta né del Cittadino Kane, ma di un commissario ammazzato
per strada, sanguinoso epilogo di una storiaccia che più torbida
non si poteva e, allo stesso tempo, alba tragica di una fase storica che
di tragedie ne avrebbe contate a mazzi.
Lo scopo del regista Graziano Diana non era problematizzare la figura
della vittima: era santificare il martire. Nulla di strano, dunque, se
il commissario Calabresi appare il primo, se non l’unico, ad annusare il
marcio, a subodorare la mano fascista dietro la mattanza, se arriva addirittura
a individuare un progettato golpe e persino indica le responsabilità
(peraltro tutt’altro che accertate) dell’allora presidente del consiglio
Rumor Mariano. Non si può chiedere obiettività a un
santino in forma di filmetto.
Da una produzione sovvenzionata in parte dalle forze di polizia non
si può neppure pretendere che dipinga le medesime come gente abituata
a usare la mano pesante, spesso a sproposito. Giusto nella fase che nella
fiction occupava quasi per intero la puntata iniziale, primavera 1969,
quella delle prime bombe, capitò ai ragazzi in grigioverde
di stecchire due manifestanti a Battipaglia, e pochi mesi prima era stato
il turno di due braccianti ad Avola. Particolari.
È già grasso che cola se almeno gli apicali, al secolo
i dottori Guida e Allegra, ci fanno la figura dei pesci in barile e di
chi serra gli occhi per non vedere. C’è persino il caso che qualche
imberbe, alle prese per la prima volta con quella non lontanissima epoca,
si faccia l’idea che ai tempi la polizia democratica, almeno nei suoi vertici,
forse tanto democratica non era. Anche se non era certo questo il conclamato
intento degli autori-apologeti.
Tutto ciò andava messo nel conto già in partenza. La
falsificazione grossolana della verità storica va rintracciata altrove,
non nell’aura sacrale che circonda la polizia in genere e il protagonista
in particolare. La strage del 12 dicembre 1969 lacerò le coscienze
più di qualunque altra tragedia della storia repubblicana non tanto
per l’enormità del delitto quanto per il ruolo di copertura, complicità,
connivenza e depistaggio che giocarono subito dopo, e poi per anni, le
istituzioni dello Stato: tutte e ciascuna. La montatura a freddo contro
gli anarchici. La morte in questura di un poveraccio che non c’entrava
niente e che era a tutti gli effetti detenuto illegalmente, Pino Pinelli,
precipitato dalla finestra dell’ufficio del dottor Calabresi in corso d’interrogatorio.
Le ignobili menzogne con cui la polizia, commissario incluso, spiegò
il fattaccio: quel «balzo felino» verso il vuoto con tanto
di eloquente urlo, «È la fine dell’anarchia», che dalla
sceneggiatura sono scomparsi come da una foto sbianchettata. Le conclusioni
della magistratura su quel misterioso decesso: derubricato da suicidio
a non meglio spiegato «malore attivo», e se qualcuno capisce
cosa significhi è un campione. Le implicazioni del servizio segreto
e l’aiuto offerto dallo Stato all’agente Giannettini perché fuggisse
all’estero. Lo spostamento del processo dalla sua sede naturale a un porto
delle nebbie calabrese.
Tutto questo non venne fuori grazie alle intuizioni di qualche onesto
commissario, ma sulla base di una controinchiesta svolta dal movimento
di quegli anni. Le innumerevoli bugie non furono smascherate da qualche
ineccepibile servitore dello Stato ma da chi lo Stato combatteva. La montatura
crollò sotto i colpi di un’opinione pubblica che, per la prima volta,
si armava degli strumenti della controinformazione e della mobilitazione
diffusa. La stessa campagna contro il commissario Calabresi non fu il frutto
di una cannibalesca sete di linciaggio, fu il tentativo di ottenere una
verità che il potere, futura vittima inclusa, intendeva a ogni costo
celare. Di tutto questo nel film dell’Istituto Luce andato in onda su Raiuno
non c’era traccia. Per questo non c’erano tracce né di storia né
di verità.
Passi. La propaganda è propaganda: non le si chiederà
di essere altro. Ma nelle scritte finali, quelle che ricordano gli esiti
di quelle vicende, i processi in cui sono stati condannati i leader di
Lotta continua per l’omicidio Calabresi, quelli nei quali non è
mai stato condannato nessuno per la strage, non c’è neppure una
frasetta scarna per segnalare che continua a campeggiare il buio anche
sulla morte di Pino Pinelli, ferroviere anarchico e galantuomo, arrivato
in questura sul proprio motorino, detenuto oltre i limiti di tempo consentiti
dalla legge, precipitato chissà come, vilipeso e offeso nella sua
memoria a suon di bugie immonde da chi era deputato a cercare la verità.
È l’assenza di quella frase a essere davvero imperdonabile.