Il quarantennale della rivoluzione mondiale alimenta la pubblicazione
di testimonianze sullo spirito del tempo passato. Tuttavia sono opere che
non riescono ancora a misurarsi con la distanza necessaria alla ricostruzione
storica di quel periodo
Delle somiglianze e dissimiglianze fra il mestiere di giudice e il mestiere
di storico hanno scritto in molti, e largo consenso trova ormai la tesi
che individua nel ricorso al cosiddetto «paradigma indiziario»
(giusta l'espressione di Carlo Ginzburg) il terreno metodologico comune
a entrambi: a fini normativi nel caso del giudice, che ricostruisce un
fatto sempre e solo allo scopo di imputarne colpe e responsabilità;
a fini esplicativi nel caso dello storico, che, secondo Marc Bloch, deve
invece «comprendere» ciò che è successo e perché,
non certo mettersi a distribuire «elogi o biasimi agli eroi morti».
Ma cosa s'intende per «paradigma indiziario»? Ogni giudice
lo sa bene: significa ricostruire un fatto attraverso una serie di indizi,
principalmente documenti e testimonianze, filtrati attraverso la logica
e le cosiddette massime d'esperienza (come ad esempio le leggi della fisica).
Il giudice, infatti, è chiamato a dirimere una controversia che
concerne in primo luogo «cosa accadde» e solo dopo «cosa
giuridicamente ne consegue». E si tratta di una controversia concernente
un fatto di cui egli, prima del processo, non conosce nulla; più
esattamente, di un fatto di cui egli non deve conoscere nulla: precise
norme di diritto positivo impongono infatti al giudice di attenersi esclusivamente
alle prove fornite dalle parti e gli vietano di far ricorso alla cosiddetta
«scienza privata», cioè ad una conoscenza dei fatti
di causa che egli possa aver attinto aliunde (ad esempio, da un confidente
privato o da un articolo di cronaca). Addirittura, gli impongono di astenersi
se egli ha conosciuto di quella stessa causa in un altro grado del processo
o perfino se «ha dato consiglio» riguardo ad essa in una qualche
altra sede.
Viene allora spontaneo chiedersi: divieti analoghi sono ipotizzabili
anche per lo storico? Può cioè lo storico prendere ad oggetto
del proprio studio fatti o eventi di cui è stato in qualche modo
«protagonista» o comunque «testimone»? Il «divieto
di scienza privata», per dirla altrimenti, è un vincolo che
concerne solo il giudice? O si tratta di un vincolo dal cui rispetto dipende
la stessa genuinità (anche se non necessariamente la correttezza)
del ricorso al «paradigma indiziario»?
La domanda è lecita specie di questi tempi, in cui ricorre il
quarantennale del Sessantotto. In questi giorni, in effetti, le librerie
sono letteralmente soffocate da una miriade di pubblicazioni sull'argomento.
Il punto è che anche quelle che possono aspirare ad essere classificate
come opere propriamente storiografiche (per non dire di quelle che semplicemente
rivendicano di esserlo) sono state scritte prevalentemente da protagonisti
o testimoni di quell'anno «formidabile». E sebbene costoro
si guardino bene dal dichiarare un esplicito ricorso alla propria memoria
di quegli eventi, si deve supporre - almeno fino a prova contraria - che
quella memoria in qualche modo conservino ancora.
In assenza di prove
Ora, è proprio codesta memoria che può far problema.
Certo, la storia «nasce» dalla memoria: ogni «esperienza
trasmessa» è stata in primo luogo una «esperienza vissuta»,
per riprendere una distinzione proposta da Walter Benjamin. Tuttavia, proprio
perché attinge all'esperienza immediatamente vissuta, la memoria
è eminentemente (e irrimediabilmente) soggettiva: resta cioè
ancorata al modo in cui i fatti sono stati percepiti e registrati dal nostro
corpo e dalla nostra mente. È per questo che, a proposito della
Ricerca del tempo perduto, Benjamin osserva che l'autore «non ha
descritto la vita com'è stata, ma una vita quale la ricorda chi
l'ha vissuta»: la memoria libera chi la possiede dall'onere di documentarsi,
di contestualizzare, di formulare ipotesi, di verificarle. Ha ragione,
insomma, Enzo Traverso, che sui rapporti fra storia e memoria ha scritto
in un bel saggio apparso alcuni anni or sono sulla rivista 900: chi ha
memoria, non ha bisogno di prove.
Ma se uno storico è nella condizione di non aver bisogno di
prove, o comunque è in grado di utilizzare la propria condizione
di «osservatore partecipe» (giusta l'espressione di Eric J.
Hobsbawm) per conferir senso ai documenti e alle testimonianze dell'evento
o del periodo che forma oggetto del proprio studio, che ne è della
genuinità del suo ricorso al paradigma indiziario? Non si rischia
di cadere in un uso affatto retorico di esso? Cioè nella predisposizione
di un apparato documentario più o meno cospicuo al solo scopo di
«provare» la plausibilità di una ricostruzione che però
è figlia della memoria?
Un esempio potrà forse aiutare a capirci. È diffusa fra
gli storici nostrani l'idea secondo cui il motivo principale dell'impasse
che i movimenti del Sessantotto sperimentarono già sul finire di
quell'annus mirabilis e che ne determinò il ripiegamento e il riflusso
negli anni successivi debba essere ascritto alla sostanziale «impermeabilità»
del contesto politico e sindacale rispetto alle istanze «radicali»
espresse in quel torno di tempo dagli studenti e dagli operai.
Eppure, ricerche empiriche recenti hanno evidenziato a quest'ultimo
riguardo uno scenario ben differente. In più d'un caso, ad esempio,
si è visto che i sindacati «tradizionali» furono in
realtà capaci di aggiornare significativamente le forme classiche
del loro confronto col padronato, giungendo talora ad appropriarsi dello
stesso universo valoriale delle istanze operaie più conflittuali.
Analogamente potrebbe dirsi dal punto di vista dell'innovazione istituzionale.
Tutti gli anni Settanta sono infatti segnati (oseremmo dire, pervasi) dalle
medesime istanze «democratizzanti» che avevano animato il movimento:
la riforma delle pensioni del '69, lo Statuto dei lavoratori, la riforma
del diritto di famiglia, la legislazione sul divorzio e sull'aborto, le
leggi sull'equo canone e sull'edificabilità dei suoli, i decreti
delegati sulla partecipazione agli organi scolastici, l'istituzione delle
regioni e del Servizio sanitario nazionale, per citare solo alcune delle
novità di quegli anni, sono «indizi» che depongono in
favore di un «quadro probatorio» ben diverso da quello attestatosi
nella storiografia. Certo, c'era anche chi schedava, chi orchestrava colpi
di stato veri o presunti, perfino chi metteva bombe qua e là, seminando
terrore e morte. Ma si poteva pensare che un cambiamento così profondo,
come quello che la nostra società stava conoscendo in quel periodo,
non dovesse innescare controspinte e reazioni anche di inusitata ferocia?
È dunque lecito ipotizzare che la «storiografia dei reduci»
soffra di troppa memoria. La quale, del resto, proprio per il suo carattere
soggettivo e inverificabile, non è mai stabile, ma - come ha scritto
ancora Traverso, riecheggiando Benjamin - «assomiglia piuttosto ad
un cantiere aperto, in perenne trasformazione»: esattamente come
la tela di Penelope, si modifica giorno per giorno e può riapparire
molto più tardi, magari tessuta in forma diversa da quella del primo
ricordo, ma condividendo pur sempre con quello uno o più aspetti
essenziali.
Tra questi, almeno uno qui merita di essere enunciato e si situa esattamente
in quello snodo fra storia e memoria che è la politica. Ciò
che veramente accomuna e conferisce senso a quelle che, ad uno sguardo
appena distaccato, appaiono vere e proprie forzature storiografiche è
il giudizio drasticamente negativo sulla classe politica e lato sensu dirigente
dell'Italia degli anni Settanta: da Moro a Fanfani, passando naturalmente
per Andreotti, Craxi, Agnelli, Carli, Lama, non ce n'è uno che si
sia salvato dalla furia iconoclasta della storiografia dei reduci. Perfino
il mite Berlinguer è stato recentemente «condannato»
per non aver permesso che l'opzione europeista del Pci si traducesse in
una chiara «scelta di civiltà» (americana, of course).
Uno sguardo esterno
Va da sé che ogni storico subisce i condizionamenti del contesto
sociale, politico e culturale in cui vive, e ciò è massimamente
vero per gli studiosi di contemporaneistica, visto che la storia contemporanea
comincia esattamente là dove prendono forma i problemi del tempo
presente. Nondimeno, come sa bene ogni giudice, c'è una differenza
essenziale fra uno sguardo esterno sugli eventi del passato, che assuma
pienamente l'onere dell'aggirarsi tra di essi come un esule in un altro
paese, e uno sguardo che si rapporti a quegli eventi dopo averli vissuti
dall'interno. Potrebbe insomma non essere un caso se Marc Bloch, che pure
il mestiere di storico sapeva interpretare al meglio, premise a chiare
lettere al suo straordinario racconto della disfatta francese del 1940
(La strana disfatta, tradotto per Einaudi) che si trattava pur sempre di
una «testimonianza». Per carità, di un testimone avvezzo
all'osservazione, alla critica delle fonti, intellettualmente onesto. Ma
pur sempre un testimone.
Varrebbe la pena ragionarci su. Ne potrebbe venir fuori che una storia
del Sessantotto e più in generale del XX secolo, breve o lungo che
sia, deve ancora essere scritta.