Non importa se qualcuno
sul cammino della vita
sarà preda dei fantasmi del passato
il denaro e il potere sono trappole mortali
che per tanto, tanto tempo han funzionato
ma noi non vogliamo cadere
non possiamo cadere più in giù
(E’ la pioggia che va-Remeber the main,
di P. Lind, Mogol, 1966)
L’ascolto, questa nozione apparentemente modesta
(che non figura nelle enciclopedie del passato
e neppure appartiene ad alcuna disciplina riconosciuta),
è in fondo come un piccolo teatro
sul quale si affrontano due moderne deità,
l’una negativa e l’altra positiva:
il potere e il desiderio
(R. Barthes e R. Havas in Enciclopedia,
Einaudi, 1977, I, p. 990)
Il libro ricostruisce l’itinerario di una protagonista singolare della
musica italiana che ancora oggi si muove nel mondo della canzone ma con
altri mezzi: come maneger, “produttrice” di artisti, di film e talvolta
televisione, la cui attività canora è ben documentata dal
doppio cd del 2004 intitolato Caterina Caselli, casco d’oro dal 1964. L’autore
ha operato lo sforzo, come sempre bisognerebbe fare nelle ricerche relative
alla cultura di massa, di individuare l’effetto dell’opera sui comportamenti
dei soggetti a cui è rivolta, in questo caso della generazione che
a metà degli anni sessanta era nel pieno sviluppo del suo romanzo
di formazione: “la canzone non è più un mezzo di espressione
come un altro, viene meno la separazione tra cantante e ascoltatore. Il
cantante non è più quella persona che sale sul palco, canta,
riceve gli applausi e scompare dietro le quinte. Ora, canzoni e cantanti
diventano entrambi fenomeni di costume. Il cantante è interessante
anche per la vita che conduce fuori dal palco, diventa mito, idolo, in
lui si identificano i fans, il pubblico” (p. 33)
La descrizione si sottrae all’interpretazione che vede i consumi musicali
come soddisfazione di bisogni artificiali indotti unicamente dal mercato
e gli ascoltatori come utenti passivi, e illumina una crisi e una carenza
di vecchi valori che trascendono lo specifico musicale presso i giovani,
i quali dei cantanti “non invidiano i facili guadagni, anzi identificano
in loro le speranze di ‘mutare stato’, e in questa voglia di mutare
la propria posizione esprimono ‘l’insofferenza per il proprio destino’
fissato dagli adulti che li vogliono studenti diligenti, operai coscienziosi,
contadini, dottori, professori: in fondo, nell’adorazione del divo i giovani
divinizzano se stessi” (p. 34).
E’ realistica questa ipotesi? Quando il termine beat entra nell’uso
corrente in Italia, tra il 1965 e il 1966, la vendita di chitarre è
tale per cui si formano circa cinquemila complessi dei quali, dopo scomposizioni,
riunificazioni e modificazioni di denominazione, ne sopravvivono circa
mille con una diffusione perfino nei piccoli comuni di provincia.
E’ un fenomeno sociale che si diffonde in particolare tra i giovani lavoratori
che alle otto ore di lavoro ne aggiungono altre tre-quattro per suonare
in scantinati e retrobottega. Talvolta accade che alcuni di essi varchino
persino le porte delle chiese con chitarre elettriche e batterie per suonare
le messe beat o ye ye, provocando scandalo presso i fedeli tradizionalisti
e la stampa conservatrice.
Emuli di questo o quel cantate in voga, questi suonatori improvvisati
prendono la parole aspirando al superamento del semplice consumo, con una
produzione culturale che esprime l’insofferenza della condizione esistenziale
giovanile nei confronti dei genitori e del mondo adulto: si aiutano con
testi sovente tradotti e arrangiati dall’inglese e dall’americano.
“Caterina, vai a Sanremo, avrai successo”: queste parole sono l’incitamento
della guardarobiera di un locale di Bologna che ha appena sentito Nessuno
mi può giudicare e si qualificherà così miglior giudice
della giuria del festival di Sanremo del 1966. Il vincitore è il
melodico Dio come ti amo cantato dalla coppia Domenico Modugno e Gigliola
Cinquetti, ma il mercato consola gli sconfitti beat, mentre la canzone
vincitrice raggiunge a mala pena quota 300 mila copie vendute, Nessuno
mi può giudicare vende 500 mila copie. Il genere beat trionfa vendutissimo
in tutta la penisola grazie a Caterina Caselli, “la più autentica
trionfatrice della manifestazione. Il suo secondo posto trascende il valore
numerico della classifica poiché è stato conquistato in un
ambiente che, dalla Rai Tv a buona parte della stampa era chiaramente e
faziosamente ostile ai giovani e alle loro novità” (p. 49).
L’artista stessa è sorpresa dal successo, quando, dopo l’esibizione
sanremese, constatando in seguito a tre tentativi che nei negozi di dischi
non riesce a trovare Nessuno mi può giudicare, chiedendo al telefono
alla casa discografica spiegazioni del fatto, si sente rispondere. “signorina
sono andati esauriti in tutta Italia, stiamo stampando i suoi dischi anche
di notte”. Al Cantagiro, racconta Caselli “mentre scorrazzavo per le strade
d’Italia, avevo con me una ragazza inglese che mi faceva lezione e alle
due di notte giravo film come Perdono o Nessuno mi può giudicare”
(p. 50). Non si tratta né di fortuna né di mercato, anche
se quest’ultimo incombe: “un mese dopo Sanremo, le mie entrate non erano
cambiate: soldi non ne avevo guadagnati, i contratti erano già firmati.
Avevamo un bisogno disperato di denaro. Ecco perché accettai di
giare il film tratto dalla canzone” (p. 51).
Il modo di esibirsi colpisce la memoria e l’intelligenza. “Il microfono
attaccato alla bocca, come fosse una bottiglia di coca cola. Le vibrano
le ginocchia scoperte, i fianchi e le spalle, mentre da un momento all’altro,
a furia di tremiti meccanizzati, sembrava che la testa si volesse svitare.
Seguivano altri gesti coi quali pareva alle volte ruotare o agitare una
bandiera, avviare un motore, dimenare un codino, mimare l’ansioso pulsare
delle macchine moderne, comunque facendo aderire in modo perfetto quella
musica selvaggia al suo battito fisico, diventandone lei lo strumento scosso,
frenetico, agitatissimo”. Questa descrizione, opportunamente ripresa da
Camilla Cederna, fa venire meno la usuale distinzione tra autore e interprete
quando nell’esecuzione il corpo dell’artista si muove e comunica. Se ciò
avviene –poiché l’ascolto moderno si differenzia dall’udire e dal
decifrare in quanto non concerne ciò che viene detto ma l’emittente
e si situa in una relazione intersoggettiva in cui l’io-ascolto equivale
ad ascoltami- allora l’artista riesce ad interpretare i cambiamenti sociali
e culturali del suo tempo incarnandone lo spirito.
“Caselli appartiene a quella schiera delle beat girls il cui fascino
non è più legato soltanto all’avvenenza fisica ma alla
grinta, a un nuovo modo femminile di porsi. Lei infatti è dotata
di una carica trasgressiva che la pone tra gli innovatori dello stile degli
anni sessanta” (p. 52). Giustamente l’autore titola La marsigliese delle
ragazze ye ye l’analisi della ribellione delle giovanissime alla
ipocrita e ottusa morale sessuale, che si trova riflessa e anticipata da
Nessuno mi può giudicare.
Quando nel 2004 accade alla Caselli di essere fermata per strada e
di sentirsi dire: “lei mi piaceva per la sua prepotenza”, lei sostiene:
“mai ricevuta una recensione più bella; essere considerata prepotente
mi fa sentire orgogliosa perché in un certo modo con la mia aggressività
difendevo anche le donne come lei” (p. 62), allora significa che tra l’io-ascolto
e l’ascoltami l’interazione è stata intensa e profonda.
Sentimenti, passioni, amori, delusioni, speranze, tensioni, progetti
di una generazione in formazione si ritrovano nelle canzoni del “casco
d’oro” e sono percorse dall’analisi tematica che le riconduce al contesto
storico-sociale, in cui lo scopo di ciò che si ricerca non è
“uno scontro frontale con il potere e le istituzioni dominati, quanto quello
di instaurare una comunità alternativa, un modo diverso di vivere,
capace di insediarsi nel territorio, seguendo le inclinazioni umane e sociali
degli individui” (p. 76).
Non potendone seguire i minuziosi sviluppi ci limitiamo a segnalare,
nello scontro tra linea gialla e linea verde nel beat italiano, l’analisi
originale del brano Le biciclette bianche di Francesco Guccini. Riprende
tematiche del movimento olandese dei provos, che elegge a proprio simbolo
il bianco e persegue l’utopia di un mondo senza sporcizia e inquinamento,
la socializzazione dei mezzi di produzione, le biciclette bianche al posto
delle automobili, la non violenza, la difesa della natura. Una rivoluzione
giovanile divertente e gioiosa contro l’America e l’URSS “perché
il capitalismo costringe gli uomini a lavorare per vivere, il socialismo
li fa lavorare d’autorità. E’ necessario lavorare in una società
ricca ed evoluta, dove la produzione può essere affidata alle macchine?
No, e allora non c’è più bisogno di capitalismo e di socialismo”
(p. 81).
Oggi che, per fortuna, l’URSS non c’è più sarebbe interessante
chiedersi cosa avviene nella mente degli ascoltatori quando sentono Bisognerebbe
non pensare che a te. Il “te” quale zona dell’inconscio muove? Solamente
quella afferente all’amata/o forse anche assieme quella delle biciclette
bianche? Non bisogna dimenticare che la carriera artistica di Caterina
Caselli inizia quando, giovanissima, può annunciare alla madre un
po’ scettica: “mi hanno detto che ho orecchio” e che ha mostrato di saper
governare con sapienza, lungo tutto il suo percorso, la dialettica di potere
e desiderio.
Francesco Racco