Il tanto annunciato libro di Adriano Sofri
sulla morte dell’anarchico Pino Pinelli è dunque pronto: sarà
in vendita dal 15 gennaio, editore Sellerio, 283 pagine. Il titolo è
bello, suggestivo e carico di significati: La notte che Pinelli. Inutile
aggiungere altro: c’è, nella vita di molti, forse di ciascuno di
noi, una data che segna l’intera esistenza, e per quante cose abbia fatto
Sofri in oltre 66 anni, non c’è dubbio che fu quella notte del 15
dicembre 1969, quando l’anarchico Pinelli morì precipitando da una
finestra della questura di Milano, a segnare il suo destino.
Sofri aggiunge che in realtà quel fatto segnò il destino
di tutta una generazione. Ed è vero. La tragica - e mai spiegata
in modo esauriente, va detto - morte di Pinelli convinse migliaia di giovani,
e non solo di giovani, che lo Stato poteva anche giocare sporco; e per
tanti il passo successivo fu la tragica scelta della lotta armata. Non
sto dicendo che senza la morte di Pinelli non ci sarebbe stato il terrorismo
di sinistra: personalmente, sono convinto che ci sarebbe stato ugualmente.
Ma è certo che per molti la presa d’atto di un fatto inaudito -
un innocente che muore in questura - e le balbettanti giustificazioni della
polizia, furono uno choc.
Quella data segnò sicuramente anche il destino del giovane commissario
Luigi Calabresi, fatto bersaglio prima di una menzognera e feroce campagna
di stampa, e poi delle pallottole di chi credette di incarnare il ruolo
dell’angelo vendicatore. Lotta continua, il movimento fondato da Sofri,
fu il più accanito accusatore di Calabresi. La giustizia italiana
ha poi stabilito che dalle sue file vennero anche i killer del commissario,
e che Sofri fu uno dei mandanti.
Dunque è attorno a quella notte che ruota il destino di tante
persone e di una buona parte della storia recente d’Italia. Sofri ha voluto
ricostruirla passo per passo, scavando tra gli atti giudiziari, le testimonianze,
i ricordi. Il libro non l’abbiamo ancora visto. Ma il settimanale L’Espresso
ne anticipa il contenuto nel suo numero in edicola oggi, con un articolo
di Wlodek Goldkorn.
Sofri punta l’indice contro la polizia milanese la quale, nelle ore
immediatamente successive alla strage di piazza Fontana, puntò sulla
pista anarchica. C’era un pregiudizio culturale, fa capire Sofri: durante
il fascismo, il questore Marcello Guida era direttore del confino di Ventotene;
e anche sul capo dell’ufficio politico, Antonino Allegra, Sofri getta ombre
inquietanti. Pure il giovane commissario Calabresi, dice però Sofri,
era persuaso di dover indagare fra gli anarchici. È tutto vero,
quel che scrive Sofri. Ma è vero anche che la polizia d’allora,
a Milano come in tutta Italia, non aveva alcuna esperienza di terrorismo,
di stragi, di bombe. I suoi informatori vivacchiavano nel misero mondo
dei ladri e delle puttane: al di fuori di quella vecchia mala d’antan,
commissari e marescialli non sapevano dove mettere le mani. Di fronte alla
mattanza di piazza Fontana, la polizia si trovò totalmente impreparata:
in questura vennero portati centinaia di estremisti, di ogni colore, nel
quasi disperato tentativo di capirci qualcosa. Sì, Calabresi all’inizio
puntò sulla pista anarchica, su Pietro Valpreda in particolare.
Ma fu anche uno dei primi a capire che forse la realtà era ingarbugliata,
«mani di sinistra e menti di destra», diceva a sua moglie Gemma
al ritorno a casa nelle notti delle indagini, ed un’ipotesi mai smentita
del tutto, nemmeno dalle sentenze di molti anni dopo.