Prefazione
Ho raccolto qui in ordine cronologico, con l’intento di contribuire
al movimento sociale che si sta sviluppando in Europa, alcuni interventi
pubblici, in parte inediti. In qualche occasione li ho abbreviati onde
evitare le ripetizioni, badando tuttavia a conservare il riferimento circostanziale
alle attese del momento e del luogo particolare in cui sono stati esposti.
Per ragioni che riguardano direttamente me, e soprattutto lo stato attuale
del mondo, sono giunto alla conclusione che quanti hanno la fortuna di
poter dedicare la loro vita allo studio del mondo sociale, non possono
restare neutrali e indifferenti, estranei alle lotte di cui questo mondo
è la posta in gioco. Per una parte essenziale queste lotte sono
lotte teoriche nelle quali i poteri dominanti possono contare su infinite
complicità, spontanee o stipendiate, come quelle delle decine di
migliaia di professionisti del lobbying, che affollano i corridoi della
Commissione, del Consiglio e del Parlamento a Bruxelles. La vulgata neoliberista,
una ortodossia economico-politica imposta tanto universalmente quanto unanimemente
accettata, fino al punto da apparire fuori dalla portata di qualsiasi discussione
o contestazione, non si è prodotta per generazione spontanea. Essa
è piuttosto il risultato del lavoro costante e prolungato di una
immensa forza di lavoro intellettuale, concentrata e organizzata in vere
e proprie imprese di produzione, di diffusione e di esecuzione. Per fare
un esempio la sola associazione delle camere di commercio americane (AMCHAM)
ha pubblicato nel solo 1998, dieci opere e oltre 60 rapporti, partecipando
a circa 350 riunioni con la Commissione e il Parlamento europei. La lista
di questo genere di organismi, agenzie di pubbliche relazioni, lobbies
dell’industria o delle aziende private, etc., riempirebbe numerose pagine.
Contro questi poteri, che poggiano sulla concentrazione e sulla mobilitazione
del capitale culturale, solo una forza critica, fondata su una mobilitazione
analoga, ma orientata verso tutt’altri fini, potrà dimostrarsi efficace.
Bisogna ricollegarsi a quella tradizione, affermatasi nel secolo XIX
in campo scientifico, la quale, rifiutando di consegnare il destino del
pianeta alle forze cieche dell’economia, pretendeva di estendere all’intero
mondo sociale i valori di un mondo scientifico seppur indubbiamente idealizzato.
Sono ben cosciente del fatto che chiamando i ricercatori a mobilitarsi
per difendere la propria autonomia e per imporre i valori connessi al loro
mestiere, rischio l’indignazione di quanti, scegliendo le virtuose comodità
del rinchiudersi nella propria torre d’avorio, considerano ogni intervento
al di fuori della sfera accademica come un pericoloso attentato a quella
famosa «neutralità assiologica» che viene a torto identificata
con l’oggettività scientifica. Mi espongo, insomma, a essere frainteso
o condannato senz’appello in nome di quella stessa virtù accademica
che io intendo difendere da sé stessa. Tuttavia resto convinto che
si debba, ad ogni costo, far entrare le conquiste della scienza nel dibattito
pubblico dal quale sono tragicamente assenti – richiamando, per inciso,
alla prudenza i saggisti chiacchieroni e incompetenti che infestano da
tempo i giornali, le radio e le televisioni; liberando così l’energia
critica rinchiusa tra le mura della cittadella del sapere, in parte a causa
di una malintesa virtù scientifica che vieta all’homo academicus
di immischiarsi nei dibattiti plebei del mondo giornalistico e politico,
in parte in conseguenza di quelle abitudini di pensiero e di scrittura
che spingono gli specialisti a considerare più agevole e anche più
profittevole (dal punto di vista dei profitti propriamente accademici),
destinare i prodotti del proprio lavoro alle pubblicazioni scientifiche
che saranno lette esclusivamente dalla cerchia dei loro pari. Numerosi
economisti, che in privato manifestano tutto il proprio disprezzo per l’uso
che i giornalisti o i presidenti delle banche centrali fanno delle loro
teorie, si indignerebbero se qualcuno gli ricordasse che il loro silenzio
è responsabile, in misura non indifferente, del contributo che la
scienza economica offre alla giustificazione di politiche scientificamente
ingiustificabili e politicamente inaccettabili.
Dunque, bisogna far uscire il sapere dalla sua cittadella, o,compito
ancora più arduo, convincere i ricercatori a intervenire nella sfera
della politica. Ma per quali azioni, per quale politica? Dobbiamo ritornare
a questo o a quel modello sperimentato di «impegno» degli intellettuali:
quello dell’intellettuale che firma appelli e dichiara solidarietà,
semplice garanzia simbolica strumentalizzata più o meno cinicamente
dai partiti, o quello dell’intellettuale pedagogo ed esperto che mette
a disposizione il suo sapere o che, a richiesta, ne fornisce uno su misura?
Oppure inventare un nuovo rapporto tra i ricercatori e i movimenti, che
potrebbe fondarsi sul rifiuto della separazione, senza per questo indulgere
a un’idea di «fusione», e sul rifiuto della strumentalizzazione,
senza tuttavia perdersi dietro alle fantasticherie antiistituzionali? E
concepire una nuova forma di organizzazione, capace di riunire ricercatori
e militanti in un lavoro collettivo di critica e di proposta che possa
condurre a nuove forme di mobilitazione e di azione?
Ma quale forma conferire a questa azione politica e su quale scala,
nazionale, europea, mondiale, proiettarla? Gli obiettivi tradizionali delle
lotte e delle rivendicazioni non sono forse diventati tranelli per distogliere
l’attenzione dai luoghi dove si esercita il governo invisibile dei potenti?
Gli stati sono paradossalmente all’origine delle misure economiche (di
deregulation) che hanno condotto al loro spossessamento economico. E, contrariamente
a quel che affermano tanto gli apologeti quanto i critici della politica
di «mondializzazione», continuano a esercitare un ruolo conferendo
la loro garanzia alla politica che li spossessa. Svolgono una funzione
di schermo che impedisce, ai cittadini, ma anche agli stessi governanti,
di percepire il loro proprio spossessamento e di individuare i luoghi e
le poste di una vera politica. Una funzione di schermo che dissimula i
poteri che li sostituiscono 4 o, più esattamente, delle maschere
che, attirando l’attenzione e fissandola su delle controfigure, degli uomini
di paglia, dei prestanome – quei nomi propri che si affrontano sulle prime
pagine dei quotidiani nazionali e nell’arena elettorale – distolgono dai
loro veri bersagli rivendicazioni e proteste.
La politica non ha mai cessato di allontanarsi dai cittadini. Ma siamo
condotti a pensare che alcuni obiettivi di un’azione politica efficace
si collochino a livello europeo poiché le imprese e le organizzazioni
europee conservano un peso determinante nell’equilibrio globale. Ci si
può dunque dare l’obiettivo di restituire l’Europa alla politica,
o la politica all’Europa, lottando per la trasformazione democratica delle
istituzioni profondamente antidemocratiche di cui si è dotata: una
Banca Centrale al di sopra di ogni controllo democratico; un insieme di
comitati di funzionari non eletti da nessuno, che operano nel segreto e
decidono di tutto sotto la pressione delle lobbies internazionali al di
fuori da ogni controllo democratico o burocratico; una Commissione che,
pur concentrando immensi poteri, non deve render conto né di fronte
a un falso esecutivo, il Consiglio dei ministri europei, né di fronte
a un falso legislativo, il Parlamento, istanza essa stessa quasi totalmente
disarmata nei confronti dei gruppi di pressione e sprovvista di quella
legittimità che solo una elezione a suffragio universale da parte
dell’insieme della popolazione europea potrebbe conferirle. Non ci si può
attendere una reale trasformazione di queste istituzioni, sempre più
sottomesse alle direttive di organismi internazionali che mirano a liberare
il mondo da tutto ciò che ostacola l’esercizio di un potere economico
sempre più concentrato, che da un vasto movimento sociale europeo,
capace di elaborare e di imporre una visione al tempo stesso aperta e coerente
di Europa politica: un’Europa ricca di tutte le conquiste culturali e sociali
del passato e forte di un progetto di rinnovamento sociale generoso e lucido,
coscientemente aperto sul mondo intero.
Il compito più urgente mi sembra quello di trovare i mezzi materiali,
economici e soprattutto organizzativi per spingere tutti i ricercatori
competenti a unire i loro sforzi a quelli dei militanti per discutere ed
elaborare collettivamente un insieme di analisi e di proposte di trasformazione,
che oggi non esistono se non allo stato virtuale di pensieri individuali
e isolati, in pubblicazioni marginali, rapporti confidenziali o riviste
esoteriche. È chiaro che nessuna raccolta documentaristica, per
quanto minuziosa ed esaustiva, nessuna discussione all’interno dei partiti,
delle associazioni o dei sindacati, nessuna sintesi prodotta dai teorici
potrà sostituirsi ai risultati di un confronto tra tutti i ricercatori
orientati all’azione e tutti i militanti, con le loro esperienze e riflessioni,
nell’insieme dei paesi europei. Solo l’assemblea ideale di tutti coloro
che, ricercatori o militanti, hanno qualcosa da portare all’impresa comune
potrà costituire il formidabile edificio collettivo degno, per una
volta, del concetto, abusato e compromesso, di progetto di società.
NOTE
1 Sulla genesi del tatcherismo, vedi KEITH DIXON, Les Evangelistes du
marché, Paris 1998.
2 Su questo punto vedere BELÉN BALANYA, ANN DOHERTY, ADAM MA’ANIT,
ERIK WESSELINS, Europe Inc, Liasion dangereuses entre institution et millieux
d’affaires européens, prefazione di Susan George, Marseille, 2000.
3 In particolare in pensatori diversi come Ritt Tawney, Emile Durkheim
e Charles S. Pierce. Cfr Thomas L. Haskell, «Professionalism Versus
Capitalism: R. H. Tawney, E Durkheim e C. S. Pierce on the Disinterestedness
of Professional Communities» in Thomas L. Haskell (curatore) The
Authority of Experts: Studies in History and Theory, Bloomington, 1984.
4 È appunto quello che fa il governo francese quando si attribuisce
il diritto di eseguire d’ufficio, fuori da ogni controllo parlamentare,
direttive europee che a loro volta non sono che la ritraduzione appena
mascherata di quelle dell’Organizzazione mondiale del commercio (Cfr ALINE
PAILLER, «La maladie des ordonnances», Le Monde, 4. Nov. 2000).