Per ora in Italia, è stato decretato, una generazione,
o meglio un pezzo di essa, non ha diritto alla sua memoria. Può
ricordare certo, ma non può rivendicare la legittimità pubblica
di quel ricordo. Subito, nel caso quella memoria emerga per sbaglio, c’è
chi si affretta a dire che quella è falsa coscienza, cattiva memoria,
inutile se non dannosa. Inutile dire che, dato questo contesto, a nulla
vale l’ostentata e declamata imparzialità dello storico nel fare
il suo mestiere, difatti pochi storici o ricercatori sociali in genere
si sono avventurati per ora sul periglioso terreno degli anni Settanta;
e quando l’hanno fatto, difficile è stato liberarsi della veste
del pubblico ministero che, coscientemente o inconsciamente, tendono a
mettersi sulle spalle in qualche capitolo che assume i toni della requisitoria,
con annessa richiesta di pene da scontare ancora.
Là dove per ora si arresta la ricerca storica, inceppandosi
nel ruolo del censore o del pubblico ministero, comincia l’avventura delle
nuove narrazioni su quel decennio: è il caso del cinema o del romanzo.
Forme narrative, meno vincolanti ad un codice procedurale secco e “scientifico”,
lasciano forse più spazio all’arbitrarietà, alla libertà
di memoria e di sentimenti, non hanno pretese definitive e oggettive, valide
e convalidate. Proprio perché sono punti di vista, sguardi sul passato,
hanno meno vincoli e remore a squarciarlo e a raccontarlo, soprattutto
perché, spesso e sovente, quel passato sembra unicamente un pretesto
narrativo per parlare d’altro, per dipanare una storia, una trama vecchia
ed eterna, come nel caso del bel romanzo che ci consegna Riccardo Borgogno:
una vicenda di omicidi e intrighi, smaltimenti di rifiuti tossici in modo
illegale, finanziarie che vivono sull’orlo dell’illecito e ci sprofondano
dentro voluttuosamente, inseguimenti, pedinamenti, misteri, incontri (casuali?)
che aprono squarci su un passato dimenticato (apparentemente passato),
quando i protagonisti erano giovani rivoluzionari, militanti politici dei
gruppi extraparlamentari di sinistra, alcuni dediti alla lotta armata,
che vivevano ed operavano nella Torino del 1977, quando all’improvviso
l’aula magna di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche,
tornò a stiparsi di studenti, disoccupati, operai “che si accalcavano
sui banchi, sulle scale, che premevano all’ingresso, e tutti volevano parlare”.
Quando c’erano i circoli del proletariato giovanile dai nomi fantasiosi
e irreali: Cangaceiros, Montoneros, Barabba, Pavone, Fantasma; quando molti
giovani e novelli indiani metropolitani si dipingevano il viso, improvvisavano
girotondi nelle piazze, ballavano, suonavano, spinellavano, mescolando
gioia di vivere e impegno politico quotidiano per trasformare, qui ed ora,
la società.
“Lui era un militante molto impegnato, lei no”. Lei è Bebè,
la ragazza di Marino, il protagonista della nostra storia, negli anni dell’università
. Bebè sparita nel nulla e mai dimenticata, ricompare anzi irrompe
all’improvviso nella nuova e rispettabile vita di Marino come fosse un
fantasma del passato, in maniera prepotente e drammatica, imponendo una
sorta di flusso della memoria che si dipana con gli eventi della storia
e si confronta con un presente che avrebbe dovuto cancellare il passato
e che in realtà lo ha solo temporaneamente rimosso, lasciando in
sospeso numerosi conti da saldare, almeno con la propria coscienza.
Bebè, metafora del passato che ritorna, non compare mai fisicamente
nella storia. Sin dalle prime pagine due signori della polizia comunicano
a Marino Araldi la sua morte tragica e misteriosa, il ritrovamento
del suo corpo sulla riva del Sangone. Per il nostro ex-militante è
l’inizio di un’avventurosa, dolorosa e necessaria ricostruzione degli avvenimenti
che hanno portato all’uccisione della donna e nello stesso tempo di quel
passato interrotto e non risolto che continua a vivere in lui. Nel tentativo
di ricostruire quei vent’anni di vuoto che lo separano dalla Bebè
del passato, la memoria di Marino si confronta e si intreccia con quella
dei suoi compagni di una volta, quelli con cui ha condiviso ideali politici
ed entusiasmi giovanili, bevute, viaggi e discussioni vivaci, la vecchia
casa ricavata nei locali di un ex-magazzino riadattato in Barriera di Milano.
Anche loro, come Marino, sono sopravvissuti loro malgrado ad un passato
che li ha feriti in maniera profonda ed ineludibile, attraverso l’esperienza
del carcere ma soprattutto spegnendo la fiamma della fiducia in quel futuro
migliore possibile e pensabile che ad un certo punto sembrava davvero a
portata di mano e che è sfumato nel nulla come una promessa mancata
per sempre.
Alcune pagine veramente belle le troviamo nella descrizione di certi
angoli della Torino di ieri che si sovrappongono a quelli del presente
cercando di renderne non solo l’ambientazione ma, come direbbe un noto
storico dell’architettura, il genius loci. Bella e ancora di forte valenza
simbolica l’immagine della demolizione della vecchia Lancia di Borgo San
Paolo dove il protagonista aveva lavorato dopo aver abbandonato l’università.
La distruzione dell’edificio che si trova proprio davanti al suo alloggio
attuale sembra testimoniare il passaggio ad una vita nuova e il distacco
progressivo e melanconico dai legami con il passato. “Man mano che il suo
nuovo lavoro andava bene si espandeva progrediva, la sua vecchia fabbrica
si rimpiccioliva, si scioglieva, si dissolveva”. Significativa ancora
l’immagine che ci viene data della sua casa attuale, rifugio provvisorio,
più che altro una pausa di riflessione nella vita, un alloggio mai
veramente sistemato, tant’è che tutto è ancora accatastato
in scatoloni: vecchi libri, dischi… una provvisorietà che cela il
desiderio di non prendere decisioni immediate e lascia il tempo al protagonista
di inventare nuovi scenari di vita per il futuro. Luogo della riflessione,
quindi, cui Marino è affezionato perché “ne conosce ogni
centimetro quadrato”. Drammatica e d’effetto ancora la scena della discarica
abusiva di rifiuti, che il nostro scopre durante le sue ricerche per scoprire
i responsabili dell’assassinio di Bebè, forse la scena più
efficace del libro dal punto di vista narrativo.
Un romanzo che non finisce veramente e che lascia aperta la possibilità
a scenari nuovi e differenti un po’ come la casa non arredata di Marino
dove alla fine il protagonista si rifugia per riprendere in mano i fili
del racconto della sua vita.
Diego Giachetti e Carla Pagliero