Fastidio e disagio. Questi sono i sentimenti principali che Mucchio
selvaggio mi ha suscitato.
Fastidio perché Boraso ha tutte le risposte: fin dalle primissime
righe del libro si capisce che le conclusioni sono già state tratte.
Boraso sa cosa è accaduto e soprattutto sa come e perché
quasi due generazioni di giovani italiani tra la seconda metà degli
anni Sessanta e il decennio successivo si buttarono anima e corpo nell’impegno
politico dedicando alcuni (la maggior parte) “i migliori anni della loro
vita” alla militanza e all’attività politica e facendo altri (un’esigua
minoranza) anche scelte che oggi possiamo definire scellerate imboccando,
per dirla con Angelo Bolaffi, la via senza ritorno della clandestinità
e della lotta armata.
Disagio perché, nonostante l’autore, come ogni scienziato della
comunicazione che si rispetti, scriva molto bene la narrazione non riesce
ad essere fluida. Troppi i salti cronologici: si procede continuamente
avanti per poi tornare bruscamente indietro restando disorientati e travolti
dalla gran quantità di date e dall’impressionante mole di nomi che
affollano il libro.
Imbarazzante il ricorso costante alla generalizzazione e alla semplificazione
del racconto storico: il nostro autore sembra dimenticare che la realtà
è complessa, le cause che determinano o che sottendono gli eventi
sono sempre molteplici e spesso contradditorie. Proporre letture monocasuali,
soprattutto quando si tratta degli anni Settanta, è fuorviante ed
estremamente pericoloso. Boraso, dopo aver affermato che nel ’76 il Movimento
era schiacciato tra l’alternativa PCI-Sindacato e la lotta armata e che
era incapace di formulare una terza via, conclude che il Movimento da quel
momento in poi esisteva solo come e in quanto gruppo armato (p. 89). A
chi si riferisce? Il Movimento può voler dire tutto e niente allo
stesso tempo!!! Negli anni ’70 il Movimento era una strana entità
in cui sembravano convergere tutti, da Lotta continua ad Avanguardia operaia,
da Potere Operaio a “Re Nudo”, dall’Autonomia operaia ai gruppi armati…
del Movimento facevano parte anche tra gli altri i “compagni” della rivista
“Ombre Rosse” – rivista di politica e cultura vicina a “Lotta Continua”
–, gli Indiani Metropolitani e alcuni collettivi femministi che già
da anni avevano dissotterrato l’ascia di guerra dell’ironia, della beffa
e del gesto eclatante ma pacifico prendendo, sebbene in modo contraddittorio,
le distanze da pratiche violente o in aria di lotta armata.
E ancora: parlando del Movimento del ’77, la cui carica emotiva e le
cui pulsioni sarebbero state tradotte secondo Boraso in prassi militare
da Prima Linea (p. 95), l’autore afferma che, dopo i gravi incidenti scoppiati
a Roma il 2 febbraio di quell’anno tra gli studenti che occupavano l’università
e le forze dell’ordine, il gruppo dirigente del PCI, adottò la teoria
degli «opposti estremismi» per cercare di interpretare quella
nuova esplosione di occupazioni e di contestazioni (p. 104) condotte da
quello che “Ombre Rosse” etichettò come «Uno strano movimento
di strani studenti» (Luigi Manconi, Marino Sinibaldi, Un movimento
di strani studenti, “Ombre Rosse”, n. 20, Roma, Savelli, 1977, pp. 3-27).
Ma il PCI non inventa nulla: la “teoria degli opposti estremismi”, tesi
avanzata nel 1953 in occasione della riforma elettorale, la cosiddetta
“Legge Truffa”, e riproposta da “Il Corriere della Sera” e da “La Stampa”
in primis ma anche da altre testate nazionali, quali “La Notte” e “La Nazione”
in occasione della strage di Piazza Fontana, era stata utilizzata dal prefetto
di Milano, Libero Mazza, quando, nel ’70, inviò al ministro dell'Interno
Franco Restivo quattro cartelle, il cosiddetto «rapporto Mazza»,
tentando di fare il punto della situazione e concludendo che i pericoli
eversivi venivano da due parti, e non solo dalla destra.
Comunque, peccato perché l’idea di studiare Ascesa apoteosi
caduta dell’organizzazione Prima Linea era buona e coraggiosa: finalmente
un libro dedicato non alle Brigate Rosse, a Curcio, a Moretti o a Franceschini…
eppure a parte l’idea iniziale, la rassegna bibliografica – assai utile
ed interessante –, la completa e ben fatta scheda dedicata ai siti internet
che contengono materiale utile a studiare gli anni Settanta di buono e
di coraggioso in questo libro c’è veramente poco. Anche la trovata
di accompagnare il testo con delle immagini tratte da vignette o volantini
dell’epoca risulta deludente: appiccicare qua e là qualche disegno
“simpatico” o ad effetto senza una didascalia che ci dica chi lo ha realizzato,
dove e quando (elementi fondamentali questi per poter leggere un documento
di questo tipo contestualizzandolo e decifrandolo) non ha nessuna utilità
se non quella di riempire qualche spazio bianco e rendere più gradevole
l’impostazione grafica del libro.
Credo sia arrivato il momento che ognuno torni ad occuparsi delle sue
cose: che lo storico faccia lo storico, che il giornalista (il pensiero
corre veloce alle prodezze editoriali di quella vecchia volpe di Giampaolo
Pansa e dell’onnipresente Bruno Vespa) faccia il giornalista, che
lo scienziato della comunicazione faccia lo scienziato della comunicazione.
Un’ultima raccomandazione: chi ama scrivere deve, a mio avviso, ricordare
che le parole hanno un peso e un valore. Chi ama raccontare scrivendo la
storia anzi le tante storie che affollano questo burrascoso Novecento,
secolo degli estremi ma anche secolo delle masse, deve sapere che una cosa
è scrivere “potrebbe” interrogandosi cercando di comprendere altra
è affermare giudicando.
«Il compito dello storico» ha scritto Giovanni De Luna
«non si esaurisce in un racconto veritiero dei fatti; oggi, soprattutto,
il suo racconto è chiamato ad alimentare saperi, a trasmettere conoscenza».
Silvia Casilio