Se c'è un'immagine capace di raccontare non solo quello che era
in quel momento, ma quello che sarebbe avvenuto di lì a poco e quello
che sarebbe venuto poi, che comunque oggi per noi è «passato»,
è questa. Il soggetto di una fotografia è sempre il tempo,
un grumo di tempo, una condensa tra passato, presente e futuro, una vertigine.
Roland Barthes dice che in una buona fotografia c'è sempre il punctum,
un dettaglio che ci attrae, che ci punge. Ma qui è inutile cercarlo,
perché questa è una rara fotografia dove il «punctum»
è l'intera immagine.
E' il 1 marzo 1968. E' ancora mattino presto, le ombre sono lunghe.
Non è ancora quello che negli anni a venire chiameremo «Valle
Giulia», ma sta per essere. Tutti gli studenti sono da una parte,
disposti in tre ordini, in basso nel piazzale il primo, alla fine della
prima rampa il secondo, e il terzo più serrato e numeroso ancora
più in alto. Di fronte, le camionette della polizia schierate. Ci
vuole poco a scoprire quello che noi stessi, che eravamo lì, non
sapevamo ancora, che quello era l'assetto di una vera battaglia.
Io non mi trovavo su quella scalinata, ma in un punto a lato, più
protetto da dove si poteva vedere bene tutta la valle, un punto da generale,
se ci fossero stati i generali. Ero stata incaricata dall'Unitelefilm,
casa di produzione del Partito comunista, di girare un cortometraggio sul
«malessere», così si definiva allora, che serpeggiava
tra gli studenti. Quello era il nostro primo giorno di riprese. Le riprese
dovevano durare in tutto tre giorni, così avevamo calcolato. Durarono
invece sei mesi. Su quella scalinata, tra gli studenti c'erano due nostri
operatori.
Alcuni sassi sono già volati , li vediamo a terra. Quindi «qualcosa»
è già successo. Quello che ritrae la fotografia è
il «subito dopo», un momento di fermo, è il momento
dello stupore. Lo stupore dell'inizio, del varcare la soglia, di scoprirsi
capaci di violenza. Di lì a poco ci saranno scontri corpo a corpo,
auto date alle fiamme, fumo dei lacrimogeni, feriti, manganellate e bastonate,
via vai di ambulanze. Non ci fu «il morto» ma fu quasi un miracolo.
Un ragazzo riuscì ad infilare un mozzicone di sigaretta accesa nel
serbatoio della benziana di una camionetta della polizia, si stupì
che non bruciasse, che non scoppiasse, dimenticandosi che anche lui era
lì accanto fatto di carne ed ossa. Di questo eravamo capaci quella
mattina, noi, studenti, apparentemente non oppressi da nessun regime, non
affamati, non umiliati. Pasolini il giorno dopo ci chiamò «borghesi»,
figli di papà che se la prendevano con i poliziotti figli di contadini.
Ci rimanemmo male perché amavamo Pasolini, e perché nel nostro
cuore disordinato ci sentivamo proletari, vietcong, artisti, contadini,
anafabeti.
Cosa è successo a Valle Giulia? Quale era l'ordine di convocazione
di quella mattina? La facoltà era stata chiusa? Non mi ricordo,
ma non ha nessuna importanza, perché quella mattina non si trattò
più di una protesta o di una rivendicazione, ma si trattò
di un'affermazione. E il nemico non era più il preside o l'università,
e neanche lo Stato, ma l'ordine che veniva prima di tutto questo, l'ordine
del linguaggio, degli affetti e dei giudizi.
Valle Giulia fu il segno forte di un energia che voleva dire la profonda
necessità di un cambiamento.
Cosa vogliono? Era la domanda che si facevano un pò tutti senza
riuscire a darsi una risposta. Ma la domanda era assolutamente incongrua,
quella giusta sarebbe stata invece «cosa fanno?», perché
azione e discorso in quel momento per noi, da Valle Giulia in poi, sarebbero
stati tutt'uno, accomunandoci a tutte le avanguardie della storia. Ma chi
si aspettava un'avanguardia alla fine degli anni Sessanta in Italia?
Cosa vogliono se lo chiedeva soprattutto il Partito comunista di allora,
che non riusciva a decifrare né fatti né parole, non riusciva
a ricondurre a qualcosa di noto quello che stava accadendo. Eppure il Partito
comunista era il più accreditato a farlo, gli altri brancolavano
nello stupore, nello sdegno, nella condanna o nell'indifferenza.
Riuscii a «chiudere» il mio film soltanto all'inizio dell'
autunno, sembrava non potesse finire mai, succedeva sempre qualcosa di
nuovo che appartenva nel bene e nel male allo stesso discorso: l'assassinio
di Martin Luther King, il pugno chiuso degli atleti neri alle Olimpiadi,
l'assassinio di Robert Kennedy.
Montai tutto il materiale, riprese, interviste, materiale di repertorio,
come un puzzle, non seguendo un ordine cronologico ma un ordine di senso.
Il film fu visionato e creò sconcerto. Fu convocata immediatamente
una riunione a Botteghe oscure. Mi ricordo una grande stanza e un tavolo
di noce immenso. Qualcuno mi sussurrò che era il tavolo di Togliatti.
A capo tavola stava il segretario della Fgci. Cominciarono le domande,
le obiezioni, me ne ricordo una in particolare. «C'è una scena
in cui uno studente butta a terra dei libri, uno studente comunista non
lo farebbe mai».
Uno studente comunista, chi era costui? Il 68 fu una strana convivenza.
Ricordo i manifesti nelle varie sedi: Lenin, Mao, Che Guevara, Stalin,
Marx, Trosckj, mille rivoli ma un unico fiume che se ne andava per il mondo.
Perché questa era la sensazione più grande, «essere
nel mondo» dove ogni cosa ci riguardava, ogni cosa erano «fatti
nostri», insomma la teoria del battito d'ali della farfalla amazzonica
che finiva per muoverci il cuore e la mente.
Intitolai il mio film «Della Conoscenza», perché
quello che stavamo tentando di fare era trovare nuovi modi di conoscere.
Valle Giulia è stato l'inizio. Se guardo questa fotografia cosa
mi punge oggi? A parte la giovinezza che non c'è più per
tutti noi, a parte i compagni che se ne sono già andati, e i compagni
che sono restati fedeli per anni e anni a quella violenza scoperta quel
giorno, che poi tanto ha pesato sulla nostra storia. A parte i compagni
che si sono allontanati leggeri suonando il flauto, perché ci sono
anche quelli su quella scalinata. Quello che non c'è più,
ecco cosa «mi punge», è la generosa certezza che avevamo
tutti noi di poter cambiare il mondo con il nostro impegno. Forse siamo
stati l'ultima generazione a vivere la propria giovinezza con questa idea
nella mente, quando lo racconto ai miei figli, che cominciano già
ad avere qualche capello bianco, mi guardano come se raccontassi una favola.
Su quella scalinata, in attesa di Valle Giulia, ci sono sì grandi
artisti di oggi, politici bravi e mediocri, famosi giornalisti, buoni professionisti,
ma tra loro c'è anche chi alla fine ha praticato il potere senza
nessuna immaginazione nel più tradizionale dei modi, baroni della
specie più comune, perché evidentemente il potere certo logora
chi non ce l'ha, ma troppo spesso guasta chi ce l'ha. Questo nel nostro
entusiasmo di allora non ce lo saremmo mai immaginato.
Il 68 è un'epifania senza doni? Chissà, il dibattito
è aperto. Certo c'è da dire che se l'immaginazione doveva
andare al potere, come diceva uno dei nostri slogan più amati, di
immaginazione se ne è vista poca e troppo poco è stato reinventato.
Un anno dopo il mio film vinse il primo premio al festival di Oberhausen.
Era un premio in denaro che spettava metà alla produzione e metà
all'autore. Pretesi la mia parte, l'amministratore mi disse «di solito
si lascia tutto al Partito, se firmo questo assegno non lavorerai mai più
con noi». Pensavo che scherzasse. Invece fu proprio così.
La mia vita prese altre strade.
(Della conoscenza, il film su Valle Giulia di Alessandra Bocchetti,
sarà proiettato questa sera nella facoltà di Architettura
«Valle Giulia» di Roma, nell'ambito di una giornata di festeggiamento
del quarantennale dei fatti del '68).
Alessandra Bocchetti, "il manifesto", 1 marzo 2008