Ci siamo conosciuti, credo, molti anni fa, in occasione del processo
a Danilo Dolci di cui si parla nel libro a p. 166. Io avevo scritto la
prefazione a Banditi a Partinico (1955), lui non ancora ventenne si era
unito "da pochissimo tempo, appena laureato maestro" al "piccolo gruppo"
dei collaboratori di Danilo. Poi ho letto molti suoi articoli prima sui
"Quaderni Piacentini", da ultimo su "Linea d'ombra", se pure disordinatamente.
Non sapevo di avere con Fofi tanti pensieri, maestri, amici, comuni. L'ho
scoperto leggendo questo bel libro, amaro e aspro (sin troppo aspro, a
mio parere, in certi giudizi su alcune persone). Sapevo della sua amicizia
con Panzieri, che aveva affascinato molti giovani come lui per il rigore
dell'impegno politico mai disgiunto dalia passione per la ricerca. Avevo,
invece, un'idea vaga della sua ammirazione ed amicizia per Aldo Capitini,
cui e' dedicata, insieme con Panzieri ed Elsa Morante, la prima sezione
del libro, intitolata "Tre maestri" (curiosamente scrissi anch'io molto
tempo fa un articolo con lo stesso titolo, ma si trattava piu' dimessamente
di tre professori del mio liceo). Recentemente ho
appreso, leggendo "Linea d'ombra", della attrazione esercitata su di
lui dallo sconosciutissimo, in Italia, Guenther Anders, da cui anch'io
avevo avuto la prima ispirazione, presentando la traduzione italiana di
un suo libro, segnalatomi da Renato Solmi, ad interrogarmi sulla minaccia
della guerra atomica. Tanto forte questa attrazione da provocare un serio
contrasto con Panzieri, come si legge nelle pagine che lo riguardano, per
quel tanto di "settario" che aveva impedito al gruppo di capire che Anders,
con il suo pensiero critico e fideistico, era "piu' vicino alla verita'"
(p. 34). Abbiamo condiviso l'amicizia con Ada Gobetti, di cui Fofi mette
bene in evidenza l'utopia concreta - l'averci insegnato che tra il dire
e il fare non c'e' di mezzo il mare, ma solo la nostra pigrizia e la gioiosa
generosita'. Non avrei immaginato infine di trovare, fra i personaggi del
libro, Manlio Rossi-Doria, del quale serbo tanti cari ricordi: i miei primi
viaggi negli Stati Uniti e l'ultima passeggiata di qualche anno fa per
le vie di Torino, a passo lentissimo, osservando cose e costumi dei torinesi
e discorrendo dei meridionali immigrati. Nell'elogio di Rossi-Doria sono
elencate le qualita' del maestro ideale: l'indipendenza di pensiero, la
tensione pratico-utopica, la chiarezza dei rapporti tra mezzi e fini, entusiasmo
e "persuasione" (parola il cui profondo significato solo un capitiniano
puo' capire) (p. 175).
Mi trovo a concordare quasi sempre coi giudizi che nel libro si leggono
su opere e autori. Per esempio, quando a proposito della Storia di Elsa
Morante scrive che essa "fu anche una messa in guardia rivolta, dalla parte
delle vittime della Storia, alle vittime stesse e a coloro che si assumevano
il compito di guidare la loro liberazione, col perenne rischio di ripercorrere
strade che avevano portato a nuovi domini e oppressioni" (p. 38). Sono
anch'io convinto che L'orologio di Carlo Levi, che Fofi chiama "bellissimo",
sia "il miglior romanzo politico della nostra letteratura". Credo anch'io
che Palomar, che egli definisce "un'autobiografia filosofica", sia il libro
piu' affascinante di Calvino (ne ho parlato io stesso su questa rivista
qualche tempo fa). E infine sono anch'io un ammiratore di Altan (e' difficile
non esserlo). E poiche' Fofi ne cita alcune vignette, mi sia permesso di
citarne a memoria una anch'io, feroce, in segno di omaggio. Un padrone
passa accanto a un operalo che lavora con due uncini al posto delle mani
e gli dice: "Coraggio, piu' di due volte non puo' succedere".
Il libro ha per sottotitolo Diario pessimista. Ma Fofi e' davvero un
pessimista? Non direi. O almeno e' un pessimista scontento di esserlo,
che si sforza di non esserlo. A una continua polemica con gli ottimisti
faciloni (una razza che si va estinguendo pero'), per i quali viviamo nel
migliore dei mondi possibili, fa da contrappunto una polemica altrettanto
serrata coi pessimisti faciloni, per i quali, il mondo va in rovina ma
non c'e' niente da fare. Vi e' un passo in cui vengono distinti tre tipi
d'intellettuali: coloro che si appagano di cio' che esiste, gli apocalittici
"non riconciliati", i "non soddisfatti", i quali non rinunciano a immaginare
un mondo migliore e si danno da fare, senz'illusioni, a cambiarlo (p. 106).
Fofi si schiera decisamente con questi ultimi, anche se, ma questo
lo aggiungo io, per i primi non ha che disprezzo, coi secondi, invece,
sente il bisogno di confrontarsi, perche' chi ha elevato a suo maestro
Anders corre il pericolo continuamente di "apocalittismo". Ma contro la
disperazione dell'apocalittico reagisce: "Sono portato a credere anch'io
che il mondo va verso la sua rovina, ma in ogni caso, fino a un minuto
prima che questo avvenga, occorre battersi per contrastarlo" (p. 177).
C'e' anche un passo in cui confessandosi con estrema sincerita', dice:
"Sono un po' apocalittico anch'io" (p. 105). A proposito del Palomar di
Calvino, protesta contro la "piccola rigorosa apocalissi da camera" che
esso c'insegna, ma precisa subito dopo: "Non abbiamo nulla contro le apocalissi
e ci pare impossibile e insensato non sentirsi oggi degli apocalittici"
(p. 181). Ma una volta assunta l'ipotesi dell'apocalissi, come si fa a
stare con le mani in mano ad attenderla, a non fare nulla per impedirla?
A questo punto, nel continuo sforzo che Fofi compie per definire la sua
posizione di "chierico" gli si presenta un'altra contrapposizione, quella
fra "iperrealisti" che si consolano di cio' che quotidianamente accade
anche se ne provano orrore, e "serafini", che "dall'alto dei cieli guardano
disincantati le miserie nostre e le macerie della storia, con gaudente
e corrucciato fervore" (p. 181). Tutti e due, se pure per ragioni opposte,
stanno a guardare. A chi rifiuta di appartenere agli iperrealisti e ai
serafini occorre invece una "morale attiva", che non rinunci ai valori
tradizionali ma li sostanzi di "analisi radicali" invece che di progetti
velleitari.
Chi parla cosi' e' uno che e' passato di delusione in delusione in
questo "sgradevolissimo paese" (p. 13).
Ma, come si vede, le delusioni non lo hanno scoraggiato. Aveva cominciato
il suo tirocinio di utopista concreto con Danilo Dolci, ma a un certo punto
si rende conto che questa pur nobile esperienza si e' isterilita, e lo
abbandona. Inizia a collaborare a "Il Nuovo Corriere", "uno dei migliori
quotidiani d'Italia", ma era un giornale troppo libero per i duri comunisti
d'allora e viene bruscamente soppresso. Partecipa al gruppo della sinistra
radicale di Panzieri, ma quando si accorge che questo radicalismo non e'
radicale abbastanza di fronte alla negazione della violenza, se ne va e
considera ''definitivamente chiusa'' questa nuova prova. Poi e' venuto
il '68, che ha suscitato nei giovani non conformisti tante speranze, ma
anche questa grande agitazione e' finita male in ''fallimenti brucianti"
(p 177). Si legga, esemplare, la Lettera a Lotta Continua sulla violenza
(p. 62 e ss.). Cosi il mai soddisfatto ha finito per trovarsi sempre dalla
parte dei perdenti. "Purtroppo finiscono per vincere sempre loro" (p. 55).
''Abbiamo fallito quasi in tutto" (p 55). Non poteva del resto essere altrimenti
per chi ha sempre creduto che la vera vocazione del chierico fosse quella,
come gli aveva insegnato Elsa Morante, di mettersi dalla parte delle vittime.
Aveva cominciato molto presto a Parigi, negli anni cinquanta, a provare,
da un lato, una profonda antipatia per tutto cio' che sapeva di Terza internazionale
e, dall'altro, per i valori sbandierati e non creduti del mondo occidentale.
E gliene era venuto un profondo disgusto per "l'enorme inesauribile capacita'
degli intellettuali di scendere a patti, di mentirsi e mentire, di voltar
gabbana, d'inventarsi fittizie autonomie nel momento del piu' brutale servizio
verso questo o quel potere" (p. 189). Si capisce che un giovane che aveva
avuto cosi' presto simili avversioni era predestinato alla solitudine,
a diventare, come si legge nella prefazione, "un piccolo savonarola esacerbato
e scontento". In un breve saggio su Orwell, ammirato per l'onesta' e il
coraggio, scrive le parole piu' sconsolate, che sembrano preannunziare
il rifiuto definitivo del mestiere sempre piu' impraticabile e inutile
del chierico: "Un modello, Orwell, seguire il quale e' oggi un'impresa
piu' difficile che mai perche' sempre piu' ci si domanda che senso puo'
avere ancora, nella presente situazione, scrivere e parlare. In nome di
che cosa. Per chi" (p. 191). Nonostante tutto, nonostante "l'abominevole
contesto che ci macina" (p. 217), Fofi crede ancora alla speranza che nasce
dalla disperazione. Anche la speranza che nasce dalla disperazione, egli
dice, ha le sue ragioni (p. 183). Ma sono "ragioni", o non sono forse
impulsi, affetti, emozioni, volonta' di credere? Inutile chiedere una
risposta a questa domanda. La sola risposta, che rinvia a un'ulteriore
domanda, e' quella secondo cui la speranza che nasce dalla disperazione
deve essere sorretta da "una morale superiore" e nutrita da "una ostinata
aspirazione alla liberazione di tutti" (p. 188).
"Liberazione di tutti" e', come ognun vede, una espressione capitiniana.
Il messaggio di Aldo Capitini e' forse l'unico che per Fofi si sia salvato
dal "disastro" in cui sono precipitati tutti i movimenti. Ma e' rimasto
sinora inascoltato.
Norberto Bobbio, "L'Indice", N. 1/1989