Nel secondo dopoguerra Bologna era considerata un modello della buona
amministrazione comunista. Nel marzo 1977, le barricate ed i carri armati
nella zona universitaria resero visibile a tutti la rottura della "città-vetrina".
Ma come si era arrivati a quella situazione? E quali furono le conseguenze
degli scontri del marzo 1977 sui movimenti sociali?
Il libro di Luca Pastore analizza i percorsi ed i rapporti tra conflitto
sociale e violenza politica a Bologna nella seconda metà degli anni
settanta. A metà del decennio, a Bologna c'era una conflittualità
che si manifestava anche in forme illegali e talvolta violente: occupazioni
di scuole e di case, scontri di piazza, autoriduzioni.
Meno numerose, ma in crescita tra fine 1976 e inizio 1977, le attività
delle strutture clandestine: "azioni dimostrative, rapine di autofinanziamento,
spedizioni contro gli avversari politici, difesa dei cortei". (p. 30) Verso
la fine del 1976, "nuovi progetti eversivi erano ormai giunti a maturazione
indipendentemente da congiunture locali" (p. 100)
Successivamente all'omicidio Lorusso ed agli scontri che ne seguirono,
gli episodi di violenza politica aumentarono: "dall'aprile 1977, in città
vi fu un'impennata degli attentati esplosivi e incendiari" (p. 214)
e "nei primi quattro mesi del 1978, Bologna risultò tra le città
più colpite, con 72 attentati dinamitardi o incendiari (assenti
però omicidi e ferimenti). (p. 258)
Le organizzazioni armate (Brigate rosse, Prima linea, settori dell'Autonomia
operaia organizzata o provenienti da Potere operaio) avevano certamente
intenzione di rompere la pace sociale e con la violenza "infrangere la
vetrina" della città modello del Pci.
Ma la "vetrina" fu invece infranta ad opera di settori del governo,
in primo luogo il ministro dell'Interno Cossiga, che utilizzò i
carabinieri ed i loro mezzi blindati per rendere evidente a tutti che la
repressione sarebbe stata feroce. Come ricorda un testimone, "c'è
una dritta che viene dal ministero degli interni: "dategli un taglio netto
a questa gente"...basta con la squadra politica della polizia, che media
troppo con la piazza; intervengano i carabinieri". (p. 190)
Mauro Zani, segretario della Fgci, poi del Pci di Bologna, ricorda
che al Pci fu comunicata l'intenzione del governo di alzare il livello
dello scontro. Il giorno dell'uccisione di Lorusso, al gruppo dirigente
del Pci di Bologna "fu comunicato che nel giro di pochi giorni o addirittura
di ore poteva accadere un episodio di gravissima provocazione. E accadde
tre ore dopo". (p. 341)
Le organizzazioni armate e settori del governo hanno dunque ognuno
le proprie strategie per cercare di influire sugli altri attori della situazione
bolognese: i movimenti ed il Pci.
Per quanto riguarda l'influenza degli scontri del marzo 1977 sui movimenti
sociali, ricorda Luca Pastore, essi hanno avuto influenza su quelle "frange
del mondo giovanile disposte a interpretare la lotta politica con l'uso
delle armi". (p. 100) Chi "arrivò agli scontri di marzo già
convinto della necessità della lotta armata trovò in quei
fatti la realizzazione delle teorie sullo scontro aperto con lo stato e
i suoi alleati riformisti". (p. 207)
Le organizzazioni armate cercano di approfittare della radicalizzazione
per reclutare nuovi membri.
Le brigate rosse non ebbero mai molto seguito a Bologna. Più
elevata fu l'adesione a Prima linea ed alle sigle che consideravano l'intervento
armato come avanguardia dei movimenti.
Come ricorda una relazione sul terrorismo in Emilia-Romagna, benché
fossero numerosi i militanti di Prima linea forgiatisi sulle barricate
del marzo 1977, "il terrorismo non ha mai trovato un terreno particolarmente
fertile su cui attecchire" (p. 323).
Per quanto riguarda il Pci, la sua posizione di difendere la democrazia
si concretizzò da un lato nel garantire ospitalità al convegno
contro la repressione che si svolse in settembre, dall'altro lato si concretizzò
invece nell'adesione acritica alla repressione: come disse il sindaco Zangheri
al questore, "siete in guerra e noi non possiamo criticare chi è
in guerra". (p. 187)
Ciò che il Pci non poteva tollerare era che qualcuno criticasse
che nella città-modello non tutto funzionava. Il punto debole del
sistema economico e sociale bolognese riguardava soprattutto le condizioni
degli studenti universitari. In particolare, i fuorisede si sentivano sfruttati
da padroni di casa e commercianti. Le occupazioni di case e le autoriduzioni
erano espressione di questo malessere, a cui il Pci non dava risposta,
anzi lo negava. Il Pci vede la città-modello sotto attacco, e si
pone dunque l'obiettivo di "dimostrare l'intreccio tra neofascismo, autonomia,
criminalità comune e settori dei servizi segreti nell'ottica della
destabilizzazione della democrazia e dell'anticomunismo" (p. 217).
Il Pci, che aveva avuto fino a qualche anno prima propri militanti
caduti negli scontri di piazza, era diventato un partito d'ordine che negava
il centro della città per i funerali di uno studente ucciso dai
carabinieri.
I movimenti sociali, stretti tra repressione (arresti, cariche indiscriminate
nei giorni di marzo, chiusura di radio Alice) e radicalizzazione di chi
vuole lo scontro armato, perdono la possibilità di agire ed iniziano
una china discendente. Il convegno sulla repressione, tenutosi a Bologna
nel settembre 1977, se da una parte mostra l'effervescenza dei movimenti
sociali, che animano le strade di Bologna con manifestazioni, dall'altra
vede nell'assemblea al Palasport la divaricazione netta tra l'Autonomia
operaia organizzata e le altre organizzazioni di estrema sinistra.
La strategia di Cossiga e dei settori del governo che volevano farla
finita con la conflittualità sociale dell'estrema sinistra era riuscita.
Fabrizio Billi