Il nuovo studio di Alessandro Portelli, autore assieme a Bruno Bonomo,
Alice Sotgia e Ulrike Viccaro di “Città di parole”. Le memorie di
un quartiere ai margini, Centocelle. Dal ventennio fascista ai ragazzini
del muretto
Storie orali di periferia, dai partigiani al ’77, ai nuovi migranti
E’ nelle città che si fa la storia, nelle città filosofi
e sociologi - basta pensare a Benjamin - hanno osservato i fenomeni più
profondi della modernità, l’industria culturale, le mode, la politica,
i movimenti di massa. Ma la città non è un territorio omogeneo,
né un aggregato indistinto. E’ attraversata da differenze sociali,
è divisa in un centro e nelle periferie. La storia della città
non coincide con le vicende del suo centro storico.
Un esempio? «Nella percezione diffusa la storia di Roma nel Novecento
si svolge soprattutto nelle periferie», «l’inizio - per chi
arriva dalle campagne, dai paesi e si stabilisce, in cerca di lavoro, ai
margini della città - è una frontiera, di polvere e di fango,
abitata da “pionieri” e attraversata da una ferrovia, che a mano a mano
diventa città», scrive Alessandro Portelli nel suo nuovo libro,
autore assieme a Bruno Bonomo, Alice Sotgia e Ulrike Viccaro di Città
di parole. Storia orale da una periferia romana (Donzelli Editore, pp.
250, euro 21,90). Il volume nasce da un lavoro di raccolta e montaggio
delle memorie degli abitanti di un quartiere popolare di Roma, Centocelle
- un territorio compreso, per i conoscitori della città, tra le
due vie consolari Prenestina e Casilina, e i due viali Palmiro Togliatti
e Primavera. «Non sono testimonianze», ma «narrazioni
che da quel territorio partono e si diramano», «storie non
rappresentative ma esemplari». «Queste sono almeno una parte
delle cose che sono successe e che possono succedere a chi vive a Centocelle,
ci ha vissuto, studiato, lavorato, fatto politica o semplicemente passato.
Sono tasselli di un mosaico in formazione, le fonti orali non sono mai
definitive, non solo perché ne mancherà sempre qualcuna,
ma perché nessuno riesce mai a raccontarsi per intero, e a smettere
di cambiare dopo essersi raccontato».
La memoria è un lavoro di “scavo” e l’immagine si adatta alla
perfezione a Centocelle. «Il sottosuolo - racconta una delle fonti
orali - è costituito soprattutto da materiale vulcanico, pozzolana,
tufo, gallerie dove le vecchie cave romane hanno poi proseguito fino al
Ventesimo secolo». Gallerie «larghe a sufficienza affinché
la famosa barozzetta romana, che era il carretto trainato dal cavallo dove
caricavano il materiale, poteva entrare». Sotto al famoso “pratone”
della Casilina descritto da Pasolini in Petrolio, c’erano le fungaie, in
attività almeno fino agli anni ’30 e ’40. «Si raccontavano
tutte cose strane su questi tunnel, per dire... che uno sbucava dieci chilometri
dopo, verso il centro, e noi stavamo con le torce, e ce inoltravamo per
questi cunicoli, soltanto che poi spesso venivi preso dalla paura, perché
dopo un po’ che camminavi te veniva l’ansia e tornavi». Anche il
nome del quartiere proviene dal sottosuolo, lì dove nel 1900 venne
costruito il primo aeroporto d’Italia - che poi sarebbe stato più
volte mostrato in tanti filmati su Mussolini dai cinegiornali fascisti.
«C’era un insediamento di caserme dell’antica Roma - e c’è
ancora, si può vedere, adesso lo stanno ristrutturando. Un insediamento
della cavalleria romana: allora i cavalli romani venivano rimessi in certe
custodie, nelle celle - per cui il nome “cento celle”, perché erano
tante». Sotto il pratone dell’aeroporto ci sono anche i resti di
ville romane. Lo stesso pratone dove, durante la Resistenza, si sarebbero
esercitati i partigiani, i Gap dell’VIII zona. «La Resistenza è
uno dei momenti in cui la periferia diventa protagonista nella storia di
Roma», qui trova una dimensione di massa, un vero radicamento sociale.
Dopo lo sbarco di Anzio i resistenti escono allo scoperto, «io arrivai
lì, feci un comizio, i tedeschi se ne andarono», racconta
Rosario Bentivegna.
Prima ancora dell’aeroporto, a richiamare piccole attività commerciali
e osterie in questa parte di città che è ancora campagna,
è il Forte prenestino, uno fra i quindici costruiti intorno alla
città tra il 1877 e il 1884 a circa due chilometri l’uno dall’altro.
Questo sistema di fortificazioni si sarebbe presto rivelato inadeguato
rispetto all’evoluzione delle tecniche militari, ma la funzione dei forti
era in realtà di controllo e repressione sociale, di prevenzione
di rivolte interne.
Ironia della sorte, Forte prenestino sarebbe diventato un luogo occupato
dai movimenti del ’77. Il primo maggio di quell’anno viene occupato «da
questo coacervo che si chiamava Assemblea comunista Centocelle, dove dentro
c’era il fior fiore di tutto il gotha: da Senza tregua - e quindi voleva
dire Prima linea - c’era Piperno, c’era la Faranda, c’era tutta la colonna
romana delle Brigate rosse. Era una cosa veramente incadescente. C’era
anche il Pci, cosa stranissima perché in quegli anni c’era una conflittualità
aperta, con questi erano mazzate a tutte le ore». L’esperienza dura
tre mesi, poi il forte sarà rioccupato di nuovo nel 1986, sempre
il primo maggio. «Non ci sentivamo più di dire a qualcuno:
“Difendi il tuo posto di lavoro”, cioè fatti sfruttare dodici ore
al giorno. Noi sentivamo di dirgli: “Distruggi quel posto di lavoro”, cioè
noi dobbiamo costruire altro». Ma nell’esperienza confluiscono storie
diverse, dai marxisti-leninisti ai punk anarchici.
Oggi Centocelle resta un quartiere popolare, anche se la percentuale
operaia - un tempo fra le più alte a Roma - si è abbassata.
C’è la malavita, «chiede il pizzo ai commercianti, presta
i soldi all’usura», la droga è «un problema serio».
«Ci sono alcune sezioni di Alleanza nazionale, soprattutto i settori
giovanili - estremisti, insomma. Resi presentabili dal fatto di essere
Azione giovani, ma in realtà sono frequentate anche da personaggi
assolutamente estremisti. Basta vedere i simboli, i manifesti che ci sono
attorno a queste sezioni. E’ una cosa degli ultimi anni, perché
quando ero piccolo io Centocelle era un quartiere rosso, non c’erano sezioni
di destra».